“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 31 January 2013 12:37

Il più celato di tutti gli scrittori

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Le tracce che Robert Walser lasciò del suo cammino furono talmente lievi da essere cancellate dal solo spostamento di qualche granello di polvere. Pesante quanto pesante è la parte più leggera di un’ombra, egli scivolò letteralmente nello spazio e nel tempo fino a rifugiarsi e nascondersi oltre lo spazio ed il tempo. “Non giunse mai a stabilirsi da nessuna parte, mai poté disporre di qualcosa di suo, fosse pure l’oggetto più insignificante. Non abitò mai una casa né mai abitò a lungo nello stesso luogo, di arredi suoi non ne aveva – non uno solo – e, quanto al guardaroba, era fornito al massimo di un abito buono e di quello per tutti i giorni” (Winfried Sebald, Il passeggiatore solitario).

Perfino l’occorrente per farsi scrittore non gli appartenne: i libri che leggeva erano prestiti di conoscenti e di amici, la carta era di seconda mano, le matite erano mozziconi cortissimi risparmiati ad altre scritture. Finì per non possedere neanche le opere di cui si trovò – quasi inconsapevolmente – ad essere autore.
Come una talpa solitaria che – di tanto in tanto – pone fuori la testa, stropiccia un po’ gli occhi, si guarda intorno un pochino poi torna giù nel profondo: così egli apparve e scomparve. Sappiamo che fu a Berlino, tra il 1905 ed il 1913 ma non abbiamo la minima idea di cosa vi facesse né durante il giorno né durante la notte. Sappiamo che fu a Bienne e a Berna ma non sappiamo nulla tranne che fu a Bienne e a Berna. A Zurigo se ne stava alla Camera di Scrittura per Disoccupati (nome che sembra fittizio ma che invece è reale), seduto su di un vecchio sgabello, a copiare indirizzi alla fiacca luce di una lampada alimentata a petrolio. A Waldau fu visto occupato “in lavoretti di giardinaggio o in una partita a biliardo contro sé stesso”, poi s’eclissò di nuovo per ricomparire in una tana (la stanza di una clinica per malattie mentali a Herisau) in cui si lasciò guardare soltanto a momenti: mentre sbucciava patate, verdure, castagne; mentre leggeva Dickens, Verne o Dostoevskij; mentre era diritto in un angolo: in piedi, immobile, intento a contemplare un altro angolo.
“Talmente lontane l’una dall’altra – scrive ancora Sebald – sono le scene della vita di Walser giunte fino a noi, che non si può propriamente parlare di una storia o di una biografia, quanto piuttosto di una leggenda”. La sua stessa scrittura è sottile, talmente sottile, da riuscire a “dissolversi alla lettura, sicché già dopo poche ore quasi non ricordiamo più i personaggi, gli eventi e gli oggetti effimeri di cui parlavano le pagine appena lette” così da doverci tornare: è un tranello con il quale il vuoto costringe di nuovo alla contemplazione del vuoto ed alle sue “profondità totalmente insondabili”.
Anche nel tratto la sua scrittura fu sottile, talmente sottile, da riuscire quasi a dissolversi: le lettere ridussero la loro ampiezza, si tramutarono in poco più di punti indistinguibili a vista e così racconti, romanzi, memorie divennero microgrammi dalla decodificazione quasi impossibile: documentazione del tutto personale, ridotta a sfruttare ogni millimetro di foglio a disposizione, fu traccia di un ulteriore ripiegamento in sé stesso, come a nascondersi: ancora, da chissà chi, chissà perché.
Secondo Elias Canetti (La provincia dell’uomo) “è il più celato di tutti gli scrittori”: “egli fugge da tutto, prima che vi sia in lui troppa angoscia” e, “in questo nostro tempo soffocato dal potere” e dal suo splendore eccessivo o fasullo o ingrato o colpevole si limita “a osservare questo splendore senza prendervi parte”. Da ciò la sua trasformazione – nelle opere – in figure servili, umili, modeste fino all’annullamento.
“Io sono ancora sempre davanti alla porta della vita, busso e busso, certo con scarsa irruenza, e tendo solo curiosamente l’orecchio per sentire se viene qualcuno che voglia aprirmi il chiavistello. Un chiavistello così è un po’ pesante, e nessuno viene volentieri se ha la sensazione che quello che bussa di fuori è un mendicante. Non sono altro se non uno che ascolta e attende”: così scrive Walser.
Garzoni di libreria, camerieri silenziosi, furtivi passanti, alunni di scuole in cui s’insegna ad essere nulla e nessuno: comprimari senza ruolo, comparse senza battute, figure senza volto. “Amava essere un ciottolo" – scrive Pietro Citati ne La malattia dell’infinito – "abbandonato sulle rive dell’esistenza”.
Quest’uomo che – ancora Citati – “aveva gli occhi vulnerabili, l’anima vulnerabile, il cuore vulnerabile”, cui “persino i raggi luminosi della felicità lo facevano soffrire” quasi fossero troppo caldi e troppo vivi, si ridusse a vagare tra l’erba bagnata, i sentieri coperti di foglie cadute, le tenebre fitte. Ogni tanto trovava un riparo, un cantuccio nel quale rifugiarsi per qualche ora, per qualche giorno, per una o due settimane poi – ora sbuffando, ora abbassando lo sguardo al pavimento, ora invece spiando da una finestra un panorama innevato – riprendeva il cammino. Lo si potrebbe immaginare, andante verso l’orizzonte, come uno Charlot: meno claudicante, leggermente più curvo, decoroso e borghese, lentissimo nel far succedere un passo ad un passo.
“Non dimenticherò mai quella mattina d’autunno in cui Walser e io passeggiammo da Taufen a Speichen, attraversando una nebbia molto spessa. Quel giorno gli dissi che la sua opera sarebbe forse durata quanto quella di Gottfried Keller. Si fermò come se avesse messo radici nel terreno, mi guardò con somma gravità e mi disse che, se avevo a cuore la sua amicizia, non me ne uscissi mai più con simili complimenti. Lui, Robert Walser, era una nullità e voleva essere dimenticato” (Carl Seeling, Passeggiate con Robert Walser).
Più che durare, la sua opera resiste: aggrappandosi ai cataloghi editoriali come s’attacca l’erba muraiola alle pareti esterne dei palazzi, ai balconi in cemento, agli spigoli delle rupi naturali. Eppure viene da chiedere: quanti leggono Walser?
Quanti leggono I fratelli Tanner, di cui Pietro Citati scrive che “è un capolavoro, un libro di immensa genialità, un poema” composto da “pagine febbrili e incantevoli” che paiono scritte non a penna ma con parole cadute direttamente dalla mano, “come una manciata di cenere, o un fiato di vento”?
Quanti cercano l’introvabile L’assistente, in cui Claudio Magris rileva il superamento del disagio ancora dotato di speranza attraverso “la dissimulazione nella livrea del servitore, nel fare l’anonimo servo o l’anonimo soldato o nel diventare una rotellina nell’infinito ingranaggio della vita” al pari di “un soldato senza nome della grande armata napoleonica dispersa in Russia, nella quale ognuno è niente”?
Quanti comprano e portano a casa Jakob von Gunten, che Roberto Calasso paragona a Il Castello di Kafka? “Sono evidentemente opere affini. Entrambe ruotano intorno a un luogo del potere, entrambe provocano una smania di interpretazione simbolica e infine la deludono. Il Castello e l’Istituto Benjamenta sono concrezioni del potere e come tali contengono germinalmente ogni immagine, ma in uno stato ancora indifferenziato. Non si potrà mai decidere se il Castello è il luogo della grazia o dell’inferno, se l’Istituto Benjamenta è un’immagine dell’oppressione o della vita liberata”. Quello che è certo è che “sia K. sia Jakob sono catturati in un viaggio dove non si arriva mai”.
“Un mattino, preso dal desiderio di fare una passeggiata, mi misi il cappello in testa, lasciai il mio scrittoio o stanza degli spiriti, e discesi in fretta le scale, diretto in strada”. È l’inizio di La passeggiata: uno dei racconti più belli o godibili che il ventesimo secolo abbia lasciato in dono ai suoi posteri. Quanti lo hanno a scaffale? E quanti, ci chiediamo, conoscono quest’invito: “Suvvia, non leggete sempre e soltanto quei libri sani, accostatevi anche alla letteratura cosiddetta patologica, dalla quale potrete magari attingere importanti esperienze. Le persone sane dovrebbero sempre, in certo qual modo, rischiare qualcosa. Altrimenti, corpo di mille fulmini, a che scopo essere sani? Solo per schiattare un bel giorno di troppa sanità?”: appartiene a Il Brigante, forse il suo autoritratto più audace e più onesto.
Quanti adesso avrebbero voglia di avere accanto al proprio letto, poggiato vicino alla lampada, disponibile ad essere sfogliato lentamente, un libro qualsiasi di quest’uomo che ha traversato la vita standosene sempre nascosto, a parte, furtivo in un luogo furtivo, dove non ci fosse da mostrarsi o parlare ma soltanto da scrivere?

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