“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 03 October 2014 00:00

Magari non è morto, Dio. Ma un po’ invecchiato, sì

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Per la considerazione che nutre Alessandro Toppi nei confronti di Joseph Roth, ogni volta che mi trovo fra le mani un libro del prolifico e sfortunato scrittore mitteleuropeo penso al Pickwick e a come parlarne qui.

Ecco allora Giobbe, biblico nel titolo e, a prima vista, nello svolgimento. Ci sono tuttavia alcune discrepanze, non fosse altro che tra il Giobbe originario e quello di Roth sono passati 2.500 anni e il mondo non è più confinato all’interno dei deserti mediorientali. Che conservano intatta la loro importanza strategica, politica ed energetica ma, insomma, ci siamo capiti.
Andrei a guardare queste discrepanze, dopo un breve riassunto delle trama: Mendel Singer è maestro in uno shtetl, è un comunissimo ebreo che ha una moglie, due figli maschi e una figlia femmina. Quando nasce il suo quarto figlio, disabile, crolla il mondo e Mendel Singer va incontro a una serie di sventure che lo conducono alla perdita dei maschi nella prima guerra mondiale, alla morte della moglie, alla pazzia della femmina, a un’esistenza raminga a New York dove nel frattempo si è trasferito. Mentre sta per perdere la pazienza nei confronti di Dio, ecco che il padreterno si ricorda di lui e gli offre l’occasione di recuperare il tempo perduto con il figlio minorato che, nel frattempo, lo ha raggiunto in America dalla Russia ed è diventato un importante direttore d’orchestra.
Joseph Roth intanto forza la mano sul protagonista: il Giobbe biblico è uno straniero. Saggio quanto si vuole, in quanto adoratore del vero Dio, ma non appartenente al popolo di Israele. Roth è ebreo, di un mondo ebraico particolarissimo: quello europeo-orientale di cui altri hanno parlato, su tutti Isaac Bashevis Singer, guarda caso Singer. Era un ebraismo povero ma fortemente spirituale, anche un po’ ruffiano eppure perseguitato, rabbinico, impregnato di studi talmudici e chassidici. E con quella unicità irripetibile che era l’yiddish. Di questo mondo, Roth canta la dispersione… disperata. Ha dunque bisogno di un Giobbe, dell’emblema dell’uomo giusto che chiede a Dio le ragioni della sua sofferenza.
Ora, quando il Giobbe biblico interroga Dio sulle sue disgrazie, la risposta dell’onnipotente è veramente di una violenza titanica. Dio replica così: chi sei tu per parlare a me? Cosa vuoi uomo da chi ha richiuso con due porte il mare, da chi ha fatto le nubi, da chi ha disteso il regolo sulla terra fissandone le misure, da chi è disceso alle sorgenti del male, da chi ha visto le porte dell’ombra di morte? Sono frasi generate da una volontà sovrumana che stabiliscono una cosa: anche per il probo che si attiene ai comandamenti non ci sono né garanzie né sicurezze e l’insondabile giustizia divina segue strade assurde. Più che assurde, sacre. E qui bisogna fermarsi.
Cosa è il sacro? Intanto il termine va tradotto con: separato. E questa è l’essenza di ogni religione che recinge l’area del sacro e la separa dal resto degli uomini. Dentro questo recinto, chi lo abita, il sacro appunto, resta in uno sfondo indistinto dove non esiste giusto e ingiusto, bene e male, ci sono anzi giorno e notte, bontà e violenza, inverno ed estate. Il sacro è qualcosa di indecifrabile che gli uomini hanno provato a tenere lontano, separato, i greci ad esempio nel mondo degli dei. C’è ancora sacro nella cultura giudaica: gli esempi più attinenti sono Giobbe e Abramo a cui Dio impone di uccidere il figlio Isacco. Dove sono morale e bontà, le tipiche misure che hanno permesso di distinguere il bene dal male alla legge e al consesso umani, a imporre a un padre di sgozzare il primogenito o a perseguitare un uomo pio? La risposta non può essere data con categorie nostre ma divine: nel sacro, privo di etica, comanda l’indifferenziato. L’erede di questa cultura giudaica, il cristianesimo, che è riuscito a impregnare l’Europa, ha rinunciato a questa dimensione sacra perché nei secoli si è sforzato di elaborare proprio ciò che è bene e ciò che è male.
Il Giobbe di Roth forza il Giobbe biblico, ebraicizzandolo, ma poi lo laicizza perché non può che ammettere a se stesso che è proprio Dio a usargli ingiustizia e violenza. Questa era la considerazione che tra le righe emergeva nell’animo del secondo, a leggere Carl Gustav Jung che al Libro di Giobbe ha dedicato un importante saggio, ma è con il primo che l’uomo acquista la consapevolezza che Dio non vuole domanda, norma e sentenza che rappresentino per lui una limitazione.
Nel Giobbe di Roth allo sfogo umano non segue alcun riscontro, le parole di Mendel Singer sono prive di senso teologico, Dio può restarsene in disparte alle prese con i suoi disegni: è inutile apparire, Egli è al di là di tutte le ragioni.
Tuttavia, anche verso Mendel Singer ha un sussulto e gli restituisce un figlio che il maestro ha lasciato minorato nello shtetl e che ritrova musicista di rango in tournée negli Stati Uniti. Mendel Singer non è compensato come Giobbe. Quest’ultimo riacquista i beni che prima delle sventure possedeva, anzi enormemente moltiplicati. Ha nuovi figli e figlie, queste di bellissimo aspetto. Mendel non ha indietro i suoi maschi: il primo resta morto sul fronte occidentale, il secondo disperso fra le truppe bianche che combattono l’armata rossa dopo la rivoluzione. Per quanto riguarda la sua femmina impazzita… chissà: il romanzo si chiude con una speranza di rinsavimento. Nulla di sicuro.
Questo perché i 2.500 anni trascorsi dal Giobbe biblico al Giobbe di Roth hanno desacralizzato il mondo fino a decretare la stessa morte di Dio pochi anni prima che Roth scrivesse. In questo quadro, a Dio conviene starsene in disparte, ricordarsi incidentalmente delle sventure di un povero disgraziato, neanche sforzandosi molto e senza deliri di onnipotenza. Ristabilendo appena una dignità di vita e una gioia inattesa. D’altronde, a che serve impegnarsi visto che, sempre a differenza del Giobbe biblico, in quello di Roth non si presentano Satana tentatori?
Né apparizione del Male, né apparizione del supremo Bene. Solo tracce minimaliste di un divino, di un sacro, che invece di una sontuosa messa in scena si accontenta oramai di una recita a soggetto basata su uno stringato canovaccio.

 

 

 

 

 

Joseph Roth
Giobbe. Romanzo di un uomo semplice
traduzione di Laura Terreni
Milano, Adelphi, 2001
pp. 195

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