“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 01 October 2014 00:00

Carta che cade su altra carta

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Il re vive in un castello senza finestre né porte. Nessuna casa del suo regno ne ha. Eppure ogni abitante entra ed esce, guarda restando in casa la strada fuori e, dalla strada, sbircia dentro alle case. Il regno è tanto fragile e così piccolo che potrebbe portarselo via il vento. Ogni cosa è fatta di bianchissima carta così come ogni creatura e qualsiasi elemento: la terra, i fiori, la pioggia, il fiume, le persone. Non c’è dubbio che sia un regno magico nel quale ci è permesso di entrare solo nei sogni oppure attraverso il teatro.

Eccola lì Titama, la città di carta, tutta bianca e lucente su un grosso tavolo al centro dello spazio nero della scena. Un attore seduto di lato ci racconta come gli sia successo di arrivarci, un giorno, poco prima di essere del tutto sveglio. Ci mostra le case e le strade poi, uno ad uno, tutti gli abitanti del villaggio, narrandoci le loro abitudini.
Ogni giorno è uguale all’altro così come ogni cosa è dello stesso bianco colore fino a quando, senza sapere come, nel regno giunge un’altra creatura umana, una ragazza. La storia della città di carta, allora, si trasforma in una storia d’amore. La ragazza umana si innamora del piccolo re di carta, spiandolo nel suo castello senza finestre e parlandogli una lingua che non intende. Anche il re si innamora, anzi, si ammala di amore, tanto che ad intervenire deve essere il dottore. Il rimedio è uno solo: rendere possibile quell’amore impossibile tra la ragazza di carne e il re di carta. Troppo debole la carta per trasformarsi in carne, sarà lei a dover sacrificare la propria esistenza diventando creatura di carta, se si provasse il contrario il re potrebbe morire. Il rito prevede che ella accetti di perdere il corpo e insieme ad esso ogni memoria umana. Lei, certa di fare la scelta giusta, si lascia trasformare in una creatura di carta. Sono giorni felici nella città bianca. Giorni tutti uguali, gli uni agli altri, fino a diventare anni tutti uguali come il bianco colore della carta: fino al giorno in cui lei si ammala. Non si ammala di amore lei, è qualcos’altro. Nostalgia di se stessa, del mondo di carne, di quello che era. Di nuovo la scelta: tornare indietro o restare?
Una storia d’amore impossibile, che sembra diventare possibile quando uno dei due cambia e che finisce con una separazione eterna anche se l’amore rimane. La città di carta ci suggerisce che è meglio non provare a modificarsi, non diventare l’altro e perdersi in esso ma rimanere quelli che si è.
Questo di Michele Pagano, come ci viene detto prima dell’inizio dello spettacolo, è un primo studio per un teatro adatto alle famiglie. Magari il mio giudizio schietto, in una fase ancora di studio, può essere d’aiuto. La storia di Titama è raccontata in modo delicato ma, quasi fosse costituita dello stesso materiale della città, non manca di punti deboli. Viene da chiedersi perché il re non possa diventare di carne ma poi possa farlo lei, quattro anni dopo, senza rischiare di morire. Se il rito ha cancellato ogni memoria, ogni ricordo umano e lei ha accettato che così fosse, di cosa ha nostalgia la ragazza? Perché non si sente una creatura di carta a tutti gli effetti?
Ad un livello più alto, c’è un ragazzo che vive in un mondo di sogno e una ragazza che per stargli accanto accetta di farne parte ma poi si rende conto che preferisce la realtà e allora torna indietro, certa che sarà sempre amata da lui. Questo livello resta più marginale. Così come fisicamente il grosso tavolo con sopra Titama occupa tutto lo spazio, così la storia del re non dà spazio al ragazzo, lasciandolo sempre un po’ ai margini. Sia per la tematica che per l’intreccio tutto psicologico, La città di carta sembra più adatta ad un pubblico adulto o, comunque, di adolescenti piuttosto che di bambini.
Nella messinscena, oltre alla bella scenografia di Titama, all’effetto delle luci che scandivano il giorno e la notte e alla musica dolce, quasi da ninnananna, è stata la voce degli attori a creare lo spettacolo e a condurci con il loro racconto dentro e fuori dalla città. Chiara Caminiti, in particolare, ha proprio la voce da principessa delle fiabe, o almeno quella che si immagina una principessa debba avere. Peccato che, accanto a questo tocco delicato delle voci degli attori, ci sia stata una certa indelicatezza dei gesti. Più di una volta hanno rischiato di buttare giù gli elementi scenografici e, nel finale, hanno fatto cadere le bamboline del re e della ragazza, lasciando scoprire che i personaggi e anche la strada, non erano affatto di carta ma di plastica. Le orecchie spesso sono più pignole degli occhi e, se si possono chiudere le palpebre per non vedere lo strappo nel cielo di carta, più difficilmente si riesce a tapparsi le orecchie, per non sentire il rumore freddo della plastica quando ci si aspetta quello caldo della carta che cade su altra carta.

 

 


Ouverture
La citta di carta

ideazione e regia Michele Pagano
con Gerardo Benedetti, Chiara Caminiti
progettazione e realizzazione scenografica Covino&Granatoarchitetti
durata 1h
San Leucio (CE), Officina Teatro, 27 settembre 2014
in scena 27 settembre (data unica)

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