“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 29 September 2014 00:00

Il circo di Iza

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La incontrerai. E la riconoscerai subito.
In quegli occhi seduti al bar, ingoiati da quaderni di carta altezzosi – sì, dev’essere lei, paga e indifferente al mondo mentre sorseggia il suo caffè. La riconoscerai anche dal vestito scuro in fila alla cassa del supermercato. Sarai dietro di lei, a precipizio sulle sue scarpe chiare, i movimenti regolari delle ciglia che non mostrano alcun desiderio di planare da qualche parte, niente. La individuerai tra tante in una fugace conversazione, e poiché sei un tipo a cui piace andare in fondo alle canzoni, ti farà andare su tutte le furie, perché ingannerà i suoi piccoli turbamenti dentro una lingua elastico-cortese, vorrà imbrogliarti con una battuta compiacente, con una domanda stirata bene, sino alla fuga improvvisa.

Tic-tac e via. La scoverai persino dentro le braccia dell’amica che avrà deciso di consolarti – e ti consolerà per bene, vedrai. Sarà prudente, ti ascolterà evitando di essere saccente. Ti accompagnerà a prendere dell’altro vino se per caso ne vorrai ancora dopo cena, e si siederà accanto a te, per parlarti dei progetti che dovresti progettare. Poi, ti riporterà fino a casa – che dire?! È semplicemente perfetta. E tu, tu la ringrazierai. Getterai la tua vecchia poltrona preferita soltanto perché una sera ha cercato di mascherare un senso di disgusto per le toppe e i colori sbiaditi sui quali, come al solito, eri seduto. Ti regalerà un tappeto nuovo, e finirai per accordarlo al salotto. E mentre sarai tutto intento a riprenderti dai mozziconi della storia che ti ha fatto a pezzi, lei avrà messo tutto via. Tutti i tuoi racconti spettinati, i desideri ricuciti, le tue vignette lasciate a metà. Ma "con me è stata enormemente buona", dirai, "nessuno è mai stato buono con me come Iza", ripeterai. “Iza”. E ti verrà fuori un insolito riso, una smorfia da clown. Se poi sei sfortunato la riconoscerai anche in te, quando quell’abbraccio che volevi dare a tuo padre non è venuto fuori – tanto, sì, poi ci sarà un altro momento. E invece l’orologio dei momenti ha scaricato la batteria. Si chiamerà “Iza” anche stavolta. Dappertutto si chiamerà “Iza”. Ma perché? Perché “Iza”?
Cominciamo col dire che, per principio di realtà (che brutta espressione però), “Iza” è un personaggio letterario. Protagonista de La ballata di Iza, romanzo di Magda Szabó, ci mostra come certa narrativa contemporanea sa proporre personaggi talmente realistici, per potenza di Vita, per autonomia psicologica, da riuscire in quel difficile intento per il quale il Teatro, per esempio, ha vocazione: la cura dei personaggi, “cura” intesa come dono di libertà. Uno spettacolo teatrale “essenziale” e fulminante “per la vita” del pubblico che lo sta a guardare, è figlio di un teatro che non solo ha lavorato per rendere i personaggi “credibili”, veri e vivi, ma si è preso “cura” di loro, affinché, lungi da maligni meccanismi di possessività, fossero capaci di abbandonare ferocemente il palcoscenico per  andare ad incarnarsi “lontano” (andiamo, chi non si è mai imbattuto da qualche parte in una Sonja o in un Astrov di Čechov dopo aver assistito ad uno Zio Vanja splendidamente rappresentato?!). Quando la Letteratura, allora, fa il verso al Teatro, capita che un personaggio fugga via dalla pagina, si inchiodi nella testa del lettore sino a divenire “simbolo”, “tipo psicologico”, riconoscibile cioè dappertutto. Nella vita.
La generosa scrittura della Szabó, piena di ardore ed imperiosa sensibilità, ci fiaba un personaggio che fuor di pagina si reincarna, continua a tessere la sua storia: Iza. Si tratta di una bambina mancata, un fascio di nervi sempre in piedi, di una scansa-drammi, una che non si riposa mai, che “danza” sull’esistenza sotto uno strato di ghiaccio. Non si lascia mai andare, Iza. È impenetrabile, non si relaziona mai davvero con nessuno, con niente, caccia via l’amore. I suoi movimenti interni, di terremoti e lava, sono intuibili, ci sono, ma non vengono mai fuori. Non scornicia, non si scompone, Iza. Impone, scarta, spezza, smonta e getta via, rimonta e sputa, tutto a suo piacimento, ma non s-recinta dalla sua impalcatura. Nelle prime pagine del libro la scrittrice ungherese scrive: "Il bordo del lago era ancora ghiaccio puro, ma l’acqua era già viva. Non vide i pesci, intuì i loro movimenti quando in un punto del lago, all’improvviso, la superficie dell’acqua si ruppe in cerchi concentrici", ed è un’immagine che diventa perfetta per descrivere il personaggio di questa donna-soldato che non rompe mai le righe, di questa figlia che gioca a fare il padre e la madre col padre, la madre e il padre con la madre, il marito con l’ex marito, l’ex marito col nuovo fidanzato. Riprendendo a prestito un’altra immagine della Szabó, Iza è "una nuca che non si volta[…] mai indietro". Verità nuda. Iza ha un rapporto ostile col passato (per questo lo scansa o lo getta via), un rapporto ansioso col presente (per questo saltella da una cosa ad un’altra, non si ferma, non scava, non ascolta, non sa leggere “i segni”), ed uno programmatico e “malvivo” col futuro (organizza, Iza. Ecco il suo piede ballerino). E gioca Iza, balla anche (e soprattutto) con le esistenze che la circondano. Solo che le sue ballate sono mascherate truci, opere di feroce sradicamento dall’impulso di vivere. Il rapporto madre-figlia col quale La ballata di Iza viene pubblicizzato, viene ingoiato e respinto fuori dalla tematica della personalità di Iza. È lei la burattinaia che tutto muove.
Vince, l’amatissimo padre di Iza, muore, ed Etelka, sua madre, accoglie con dolcezza e accesa riconoscenza la proposta della figlia (peraltro medico affermato e stimato) di andare a vivere nella sua casa a Budapest. E la ballata apparentemente salvifica messa su dal cuore-di-figlia-Iza comincia proprio dal trasloco. Per “sistemare” più rapidamente e senza intoppi l’affare, Iza, per un po’ di giorni, piazza “la vecchia” (come spesso la chiamerà) in un centro termale che sembra più che altro un sanatorio per matti; vende la vecchia casa (peraltro al suo ex marito, Antal), compresi alcuni dei vissutissimi mobili, le scatole e gli oggetti appartenuti al padre, e senza chiedere minimamente consiglio “alla vecchia” (che peraltro è la comproprietaria del tutto); vende gli utensili da cucina con i quali la madre ha lavorato un’intera vita, e non è ancora abbastanza. Getta via certi “sciocchi” oggetti cari ad Etelka per amore, e lo fa perché sono logorati o spiegazzati dal tempo, perché sono ridicoli con quei piccoli rammendi o “difetti” (ovviamente lo fa senza chiederle mai una volta l’approvazione). Non le lascia decidere cosa portare con sé nella nuova casa, non le lascia decidere assolutamente niente. La trascina a Budapest, col sopracciglio di chi “sa”, e la infila in una stanza dove ci sono alcune delle sue cose prelevate dalla vecchia casa, ma che sono state rimpolpate, ricucite, restaurate. Alla fine non è più suo niente. Nel tentativo di spezzarle il suo passato, quella "specie di essere vivente che le stava davanti e la chiamava per nome", la farà soffocare dentro. Poi, una volta imbozzolata là dentro, Iza provvederà a bloccare qualunque sua spontanea iniziativa, qualunque azione quotidiana che non sia prestabilita da lei, qualunque piccolo gesto col quale potrebbe essere amata un’altra volta come quand’era bambina ("com’è animalesco il suo amore", penserà fastidiosamente Iza di lei); via via inibirà, sino a farla morire, "quell’energia ingombrante, giovanile, impietosa, che il passare del tempo aveva inspiegabilmente lasciata intatta", e la renderà apatica fino a farle appassire quei "suoi occhi blu, rimasti stranamente giovani nel viso anziano".
La Szabó descrive tutto questo processo con incredibile minuziosità, senza far trasparire alcun giudizio. Descrive l’assurdo sforzo che questa figlia fa per tenere in piedi la vita di sua madre, la tenacia con la quale crede di “mettere tutto a posto” lavando via le ferite animate ed inanimate, e non si accorge che quei buchi, per Etelka, sono il sentimento e la materia della sua Storia, tutto quello che ha, che “è”. Iza è la sola a non accorgersene. È “solo” una donna che mentre protegge qualcuno lo studia, soffoca, strozza, consuma. Che mentre si avvicina, allontana, soffre e fa finta di nulla, fa soffrire e non se ne accorge.
Dall’altra parte la Szabó descrive lo strazio e il tenero coraggio di quest’anziana donna strappata dalle radici dei suoi alberi – dal suo presente, dal suo passato, e adesso anche da un futuro. Doloroso è vederla lottare con tutte le sue forze per rimanere viva, mentre va a fare la spesa e torna a casa con la roba “sbagliata”, una roba povera e “cattiva”, mentre, con disapprovazione di chi la circonda, acquista un triste fornellino con l’idea di poter coccolare qualcuno col suo caffè, mentre libera un uccello dalla gabbia per poi amareggiarsi dal rimorso, mentre fa amicizia con una vecchia prostituta e la porta in casa per rinverdire il momento delle antiche confidenze da salotto, mentre si siede accanto al frigorifero per il suo verso “animalesco” che la fa sentire a casa, protetta, mai sola. Non c’è amore attorno a lei. E tutto il percorso messo in prosa per questo personaggio, dalla notizia della perdita del marito Vince, sino all’epilogo finale della “fuga” nella sua cittadina per il funerale, è pesantissimo. Etelka è una moglie imbavagliata dalla vita, perché con Vince ha perduto la consistenza materiale delle cose, qualcuno che le spiegasse i fili sotterranei di tutte le cose; è una madre riconoscente, aperta ancora alle possibilità di una vita felice (sì, l’attesa di “felicità”. Perché, cos’altro importa?) grazie all’impegno della figlia, un grazie ripetuto insopportabilmente come una cantilena; è una bambina attaccata alla gonna della figlia, attaccata ferocemente alla vita, che ride e poi è "inquieta, incomprensibile, senza pace"; è una vecchia spenta, seduta sulla sua poltrona ma che non è più sua, con lo sguardo perso nel vuoto – cosa fai nella vita? Ricordo. Nient’altro che questo. Io ricordo; è un’apatica instabile e barbona, che impiega le giornate nascondendosi nei tram perché si sente un peso per chi ama, e si lascia scegliere da un impulso semplice, senza pretese, come questo di farsi nannare in giro per una Budapest di cui non vede che niente, non gode che nulla. Tornerà nella sua cittadina di sempre, ma finirà per ritornare la “fidanzata” dell’uomo che ama ancora, sarà un’anziana visionaria e folle. Un’equilibrista pazza, che si condanna a saltare indietro.
È carica di violenza e tenerezza questa storia messa in piedi dalla scrittura delicata e vibrante della Szabó. Ci sono personaggi letterari che colpiscono per irritazione, per sfinimento di rabbia, poiché fanno migrare le pulsazioni della vita in una schermata a scacchiera, e “Iza” è uno di questi. Ci sono personaggi che colpiscono per il battito ostinato col quale vivono, per la ferocia con cui stanno in piedi e si avvinghiano all’amore perché un altro orizzonte di senso non c’è, non si vede, ed “Etelka” è uno di questi. La ballata di Iza è un’avvisaglia di pericolo e una speranza. Un interrogativo sulla comprensione dell’Altro, ma anche una lunga parola sull’Amore che non si può più non riconoscere dappertutto, nella nostra vita.

 

 

Magda Szabó
La ballata di Iza
(1963)
traduzione di Bruno Ventavoli
Torino, Einaudi, 2008
pp. 304

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