“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 01 September 2014 00:00

Il momento

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E quindi la notizia lo ha esaltato, altroché: un fottio di bombardamenti chimici a livello sinaptico ed emissioni di sostanze dai nomi probabilmente impronunciabili e, insomma, il suo povero team di ricettori cerebrali ha avuto un bel daffare a ricreare condizioni stabili perché il povero Antonio Conte non cadesse faccia a terra, fulminato dall’eccezionalità dell’evento. Di qui, il brivido: gli è partito direttamente dall’ipofisi, inscatolata dentro parecchi centimetri di tessuto encefalico e osseo, il tutto rivestito dal parrucchino di risma invidiabile e prezzo vergognosamente elevato. Si è diffuso lungo collo e schiena e braccia, tralasciando la metà inferiore e rendendo cianotiche le dita che stringono il telefono e molli le gambe. Quando riattacca ha in mente un’immagine in cui è solo e circondato allo stesso tempo. Ha cercato a lungo quell’immagine e ora è lì, palpabile come i capelli che prima non c’erano e ora voilà, reali, redivivi, umani. Appoggia pollice e indice di entrambe le mani ai lati della testa e fa pressione all’insù. Plop.

Il cranio lucido, fregiato da una vena sul lato destro, cattura i riflessi dell’illuminazione artificiale e li ridistribuisce alla grande stanza in maniera disordinata. Conte si rigira il parrucchino fra le mani e lo guarda assorto, vagamente ammirato, poi lo poggia sulla testa del mezzobusto pelato sul grande comò, di fianco allo specchio ovale Luigi XVI. Lo sguardo, combinazione, azzurro, saltella da un particolare all’altro della camera da letto, imprimendone nella retina lo sfarzo esagerato: i pomelli d’oro – non dorati, d’oro –, il tappeto siriano ricevuto in regalo da Pirlo, gli arazzi. Tutto sembra partecipare allo splendore del momento a venire. Il momento. Con un sorriso che gli taglia il volto in due sezioni orizzontali l’una il triplo dell’altra e che, tradotto, ci parla con eloquenza di autocompiacimento e aspettativa, il nuovo commissario tecnico della Nazionale si infila sotto le lenzuola e spegne la luce.
… e grazie di essere intervenuti. Non posso non dire di essere emozionato perché penso che oggi, al mio posto, vorrebbero esserci tutti, no? gli allenatori di questo mondo, a rappresentare l’Italia che non dimentichiamo che, insieme al Brasile, è tra le Nazionali più importanti, no? al mondo. Abbiamo quattro stelle, abbiam vinto quattro mondiali e già questo sta a giustificare la mia emozione, ecco, di essere l’allenatore di questa squadra… orgoglioso del fatto che il Presidente… abbia pensato a me… grande orgoglio e… uhm, niente, sono solo molto contento e colgo l’occasione anche per… per salutare Cesare…
È il primo allenamento e l’atmosfera è serena. Lo è stata fin dall’incontro preliminare tra squadra e nuovo allenatore, quando hanno parlato dei problemi con Prandelli, dei dissidi tra i calciatori, delle amarezze di un quadriennio spento, distratto. Era emersa da subito la voglia di venirsi incontro e ricominciare. Conte lascia fare. Conte sa tenere a bada l’ambizione, sa come gestire la pressione dell’essere giovani e furiosi e giudicabili, incanalandola in azioni propositive, in guizzi, in tentativi accaniti. La squadra sembrava tornata una squadra fin da quel primo incontro e il Presidente ha detto che "si respira di nuovo aria buona". Li guida, ma senza aggressività, senza invadenza. Perfino Mario ha abbandonato l’aria di indolente arroganza che da sempre lo ha caratterizzato e mostra di essere davvero entrato a far parte del gruppo. Buffon non perde occasione per avvicinare lui e Cassano e fare comunella; neanche un insulto, neanche uno sguardo scuro o una risposta a mezza bocca sono volati tra gli atleti da quando è subentrato lui. Lui che ora li guarda sorridente, li incoraggia, dà indicazioni e, ogni tanto, ci scambia battute affettuose, paterne. Il suo momento non è ancora quello; verrà tra poco. Le competizioni non c’entrano. I contratti, gli sponsor: non c’entrano. Verrà tra poco. Conte osserva, sorride, guida. Tra poco. Il parrucchino orgogliosamente fissato sullo scalpo, luminoso come un sole castano. Trapocotrapoco. "Continuate così! Gigi, mi assento un attimo, gestisci questa marmaglia! Triangolazioni e poi staffette! A tra poco!". Conte si allontana dal bordocampo. Poco. Alle sue spalle, il pallone è preso a calci con rinnovato impegno, senza sosta né tregua. Pocopocopoco. Uomini e cose sono inondati dalla luce.
Entra nello spogliatoio e chiude a chiave la porta di compensato, poi si gira e osserva le panche ingombre di oggetti personali, gli attaccapanni occupati da indumenti umidi. Umidi a causa di una peculiarità dell’allenamento di Conte: per i primi quarantacinque minuti, i ragazzi hanno solo corso intorno al campo; il mister, per motivi a loro oscuri, li ha fatti riscaldare coi vestiti che avevano addosso. Poi si sono cambiati – indossando calzini e mutande pulite e le scarpette da calcio – e sono tornati in campo ad allenarsi sul serio. Conte tiene ben aperta la busta di plastica nera, di quelle grandi per la raccolta dell’indifferenziato, mentre passa in rassegna ogni postazione: la riempie con boxer, slip, pedalini, fantasmini e scarpe da ginnastica dei giocatori della Nazionale di calcio. Procede con lentezza e metodo, scavando in ogni borsone, esaminando ogni gancio. Quando la rassegna ha termine, la busta è piena di scarpe e indumenti intimi impregnati ed emana un odore pungente di testosterone. Conte la chiude con un gesto rapido, serrando il pugno, come se andasse di fretta, adesso. Ma non ha fretta. Indossa un completo impeccabile di seta blu, morbido e frusciante. Una goccia di sudore si forma nel punto della tempia sinistra dove il toupet aderisce, restando per un attimo incagliata tra la fascia elastica e la cute, poi gli scende incerta sulla guancia, ma il mister non se ne accorge. Si siede su una panca, il pesante sacco sigillato tra le ginocchia, il pugno ancora stretto. Ha sulla faccia il sorriso che abbiamo già incontrato. Poi Conte apre l’imboccatura del sacco, ci ficca la testa dentro e richiude, per quanto può. Inspira profondamente, e il sacco accompagna l’immissione di fiato con un movimento concavo, diventando poi convesso quando Conte espira. La figura, così com’è, somiglia a un uomo in completo elegante affetto da un tumore efferato al punto da avergli ridotto la testa a un enorme ammasso dinamico e nero; una congerie di tessuto troppo pesante per poter essere retta da un collo con le sue povere vertebre. L’ammasso umanoide emette versi che sembrerebbero di gioia, degli "Iiiiihhh", accompagnati dal braccio sinistro sventolante, difficili da equivocare: l’ammasso umanoide sembra proprio felice! E infatti, al riapparire della testa, col parrucchino spostatosi di circa trenta gradi sulla destra, il sorriso di Conte, già prima nettissimo, si è addirittura allargato, in un’innaturalità bestiale. "Ahhhhhhh" esclama il commissario tecnico e, ridendo come un bambino, infila entrambe le braccia fasciate da camicia e giacca blu all’interno del sacco; le tira fuori che stringono un ammasso di mutande, scarpe e calzini maleodoranti e ci infila dentro la faccia, operazione che dà al parrucchino, miracolosamente ancora attaccato al cranio come un polpo, altri quindici gradi di inesattezza posizionale rispetto agli standard estetici. Non lo riguarda. Ora ride e piange per la gioia, masticando un calzino di spugna, poi tuffa di nuovo il viso nel mucchio e inspira avidamente. È questo, il momento. Lo ha aspettato per tutta la vita e ora il momento lo rende l’uomo che voleva essere, così assolutamente completo, sereno come un monaco e impetuoso come un fiume in procinto di straripare. L’immagine in cui è solo e circondato. Conte scava ancora nel sacco e tira fuori un altro mucchio di biancheria e scarpe, in cima al quale c’è un boxer bianco con una evidente strisciata di merda marroncina. Il mister spera sia di Cassano, lo spera con tutto il cuore mentre se la infila sotto il naso e se la struscia con foga sul volto, sul collo e in fronte, facendo infine saltar via il toupet che va a cadere, malinconico, sulle piastrelle. Resta lì, Antonio Conte, gli occhi pieni di lacrime e una risata di appagamento assoluto. Grida. Grida di estasi, degli "AH! AAH! AAAH!" incontenibili; si è incanalato per qualche attimo nella brutalità del tempo immortale, in una materia fatta di gioventù irrefrenabile e ferina. È solo e circondato, solo e circondato, solo e circondato mentre fuori dallo spogliatoio le prime voci incominciano a chiamarlo e i primi pugni si abbattono sulla porta.

NB: ovviamente questo Antonio Conte non è il vero Antonio Conte ma la sua proiezione pubblica e quindi la sua deformazione letteraria. Lo stesso vale per gli altri personaggi citati.

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