“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 23 January 2013 01:00

Al posto del teatro

Written by 

Probabilmente Cronache da North B-East, almeno nella versione veduta da noi ieri sera, ha come obbiettivo non la rappresentazione ma l’evocazione: immagini scorrono (prima sfocate, poi via via rese più chiare alla vista) sulla parete nuda mentre, su un tappeto sonoro, frammenti di narrazioni da desolazione post-urbana raccontano di pezzettini reali: scorci di peccati veniali, piccole vergogne personali, vaghi e vari motivi d’abbandono moderno. Evocazione, abbiamo scritto, e non rappresentazione giacché gli spettatori fissano le immagini innanzi, si lasciano carezzare dalla musica, prestano ascolto a una voce. La domanda che sorge è la seguente: è davvero teatro?

È davvero teatro, pure nella forma più ampia del termine, questa voluta concordanza di sollecitazioni diverse che – con equilibrio solo apparentemente paritario – assegna funzione fondante tanto alle note quanto alle immagini e al dialetto dell’attore? La sensazione di chi scrive è che siamo dinnanzi ad una performazione artistica piuttosto che ad uno spettacolo e che il Cronache da North B-East di cui stiamo scrivendo sia non teatro ma qualcosa che vive al posto del teatro.
Se così non fosse, d’altronde, come spiegarci un paradosso che genera un altro paradosso ed un paradosso ancora? L’attore, ovvero l’interprete che porta la storia, è assente: non recita fisicamente ciò che legge alla lampada ma lo condivide soltanto verbalmente agli astanti, non veduto da questi. Teatro senz’attore, si direbbe, se non fosse che la lettura diventa ancella alle immagini: gli spettatori hanno gli occhi alle proiezioni (l’interno di una fabbrica dimessa; la folla di un marciapiede; il sole pomeridiano che filtra dai buchi di tapparelle abbassate; la nuca di un uomo; le sagome disegnate di corpi omosex) finendo per badare ad esse principalmente: la narrazione diventa commento, il commento diventa accompagno. In più: chi sta seduto ha la possibilità di osservare il musicista comporre – di strumento in strumento – la sua partitura sonora: possiamo fissare chi produce il sottofondo mentre ci manca chi dovremmo fissare.
Né può dirsi che la forma scelta per condividere pezzi di periferia padovana (socialità coatta, urbanesimo commerciale, individualismo ammalato) sia teatro povero, fatto di pochi o di nessun mezzo davvero: altrimenti come definire ciò che capita tra un attore – solo la sua voce, solo il suo corpo – e gli spettatori?
Né può dirsi, inoltre, che le immagini proposte e le pagine scritte portino innovazione davvero: le prime non sono che apparizioni annebbiate o parziali dal valore vagamente ossessivo mentre le seconde – il cui pregio risiede nella mancanza di un centro, nella paratassi linguistica, nella deformazione tonale che corrisponde ad un'instabile scansione interiore che vede solo un pezzettino del mondo e vi si adatta alternando basso gergale e flusso confessionale – echeggiano di ciò che può già leggersi in molta narrativa degli anni zero: Dentro di Sandro Bonvissuto, Fatti male di Ilaria Palomba, L’estraneo di Tommaso Giagni o, per restare nel patavino, Perciò veniamo bene nelle fotografie di Francesco Targhetta che, in versi, propone una “Padòva” ch’è “sfatta e triste come le domeniche vuote/ in arterie lontane dai centri commerciali” (per non andare, dietro nel tempo, ai fabbriconi di Testori, alle industrie di Volponi, alla Ragazza Carla di Pagliarani – “Resisti/ resisti/ di saziarti di pastiglie” -, alla lirica pasoliniana delle Ceneri di Gramsci in aggiunta ai romanzi borgatari: “Si distende la sera sul quartiere…”).
Pertanto ribadiamo la domanda: è davvero teatro?
La nostra risposta è la seguente: nella versione adattata ieri allo spazio privato potrebbe parlarsi, piuttosto, della tentata condivisione di un iper-testo (inchiostro, note, brevi passaggi visivi) che – proposto come si propongono i segni – necessita di una messa in codice (codificazione) che lo renda davvero linguaggio scenico, autentico, originario.
Progetto che di buono ha la declinazione della periferia come condizione intima e vissuta, propensione alla stasi e al patimento ammorbato (la sniffata di coca, l’insulto razzista, la masturbazione allo schermo, l’autocontemplazione sofferta sono i mezzi con cui si rimanda il tempo della consapevolezza più amara), Cronache da North B-East, se fosse davvero e soltanto ciò che abbiamo incontrato, necessiterebbe di un’altra forma per dirsi davvero teatro e non, soltanto, qualcosa che vive al posto del teatro.

 

 

 

 

 

Alta Stagione
Cronache da North B-East
con Marco Tizianel
drammaturgia, allestimento e interpretazione Silvio Barbiero, Marco Tizianel
disegno luci e musiche originali Marco Tizianel
consulenza coreografica Margherita Pirotto
produzione Colectivo tbt, Carichi Sospesi Padova, Echidna Cultura Dolo
durata 35’
Napoli, Via Mezzocannone (interno privato), 23 gennaio 2013
in scena dal 23 al 25 gennaio 2013

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook