“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 28 June 2014 00:00

“Sostiene Pereira”

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Oggi qui a Tito, cittadina lucana, è una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata. È mezzogiorno e c’è afa. Sono sul terrazzo di casa mia, sorseggio un tè. Nel mentre penso alla “resurrezione della carne”.  Non mi piacerebbe che il mio corpo, malmesso e vecchio, prima o poi torni ad andarsene in giro per strada come se niente fosse. Sostengo, al limite, la resurrezione della carne giovanile, ma non credo che sia scritto da qualche parte nella Bibbia.
Dove ho già sentito parlare di “resurrezione della carne?” Non ci metto molto a ricordare che tutta una lunga dissertazione su quest’argomento l’avevo trovata all’interno di un libro, letto l’estate scorsa, che mi era particolarmente piaciuto: Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi.

È un romanzo appassionante – e questo è proprio il termine giusto, dal momento che il merito principale del racconto è quello di trasmettere passione, ossia la passione per la libertà, che pian piano il protagonista, Pereira, arriva a riscoprire dentro di sé, rinnegando di fatto il suo passato di disimpegno nei confronti della situazione politica portoghese e di disinteresse storico. Una vita piuttosto tranquilla quella dell’attempato giornalista Pereira, trascorsa a tradurre romanzi dell’Ottocento, una vita solitaria che poco spazio sembra concedere alla passione in generale e in cui l’unico svago è recarsi abitualmente al Caffè Orquidea per consumare il solito pasto: omelette e limonata.  Qui però c’è Manuel, il cameriere, che lo informa su quanto avviene nella nazione e in Europa: in altre parole, è la sua finestra sul mondo.
Pereira è direttore della sezione culturale del Lisboa, non un giornale importante, un quotidiano detto “del pomeriggio”. È in redazione, annoiato, quando gli viene in mente la resurrezione della carne. Pereira è cattolico, ma che la carne sua malmessa un giorno risorga, proprio non riesce ad accettarlo: “Tutta la sua carne, quella ciccia che circondava la sua anima, ebbene, quella no, quella non sarebbe tornata a risorgere, e poi perché? Si chiedeva Pereira. Tutto quel lardo che lo accompagnava quotidianamente, il sudore, l’affanno a salire le scale, perché dovevano risorgere? No, non voleva credere nella resurrezione della carne”.
Il racconto comincia durante una magnifica giornata, soleggiata e ventilata, dell’estate del 1934. Siamo alle soglie della seconda guerra mondiale, in Portogallo c’è la dittatura di Salazar. Prende il telefono, Pereira, chiama un certo Monteiro Rossi, la cui firma compare a fronte di una riflessione sulla morte all’interno di una rivista capitatagli tra le mani.
Gli chiede spiegazioni sull’anima e quello, Rossi, risponde dicendo che “non è che ci pensasse molto”.
“Gli pareva strano, sostiene, che una persona che aveva firmato delle riflessioni così profonde sulla morte non pensasse all’anima”. Non tanto strano, però, pare a noi che, leggendo il romanzo, inquadriamo Monteiro Rossi come un giovane entusiasta e trepidante di passione politica e che, per questo motivo, non poteva avere tempo né voglia di soffermarsi su questioni così astratte.
Il ragazzo inizia a collaborare con il Lisboa. Pereira gli affida l’incarico di scrivere necrologi di scrittori famosi. I necrologi di Monteiro sono anticonvenzionali, appassionati ed esplicitamente anti-sistema. “Impubblicabile, impubblicabile!” sospira ogni volta Pereira, dopo averne letto uno. Difficile, appunto, immaginare come un necrologio di questo tipo potesse essere pubblicato nel Portogallo dell’Estado Novo, lo stato fascista portoghese, anche su un giornale “del pomeriggio” come il Lisboa: “Con Marinetti scompare un violento, perché la violenza era la sua musa. Aveva cominciato nel 1909 con la pubblicazione di un Manifesto futurista su un giornale di Parigi, manifesto in cui esaltava i miti della guerra e della violenza. Nemico della democrazia, bellicoso e bellicista, esaltò poi la guerra in uno strambo poemetto intitolato Zang Tumb Tumb, una descrizione fonica della guerra d’Africa del colonialismo italiano. […] Le fotografie ci mostrano un uomo con pose arroganti, i baffi arricciati e la casacca da accademico piena di medaglie. Il fascismo italiano gliene ha conferite molte, perché Marinetti ne è stato un accanito sostenitore. Con lui scompare un losco personaggio, un guerrafondaio…”.
Ma Monteiro Rossi è un giovane che segue le ragioni del cuore, come lo stesso Pereira una volta gli disse. Ragioni che anch’egli, a fronte di una forte presa di coscienza, non potrà far a meno d’accogliere: “Se loro avessero ragione la mia vita non avrebbe senso, non avrebbe senso aver studiato lettere a Coimbra e aver sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, non avrebbe senso che io diriga la pagina culturale di questo giornale del pomeriggio dove non posso esprimere la mia opinione e devo pubblicare racconti dell’Ottocento francese, non avrebbe senso più niente, ed è di questo che sento il bisogno di pentirmi, come se io fossi un’altra persona e non il Pereira che ha sempre fatto il giornalista, come se io dovessi rinnegare qualcosa”.
Ciò che Pereira rinnega è l’indifferenza. Questo signore sulla cinquantina, attempato e grassoccio, tipo piuttosto solitario, scopre che il prezzo da pagare per una vita condotta nella rassegnazione e nel tenersi lontano dai guai è troppo caro: l’ingiustizia. Consapevolezza alla quale giunge anche grazie alle chiacchierate con il dottor Cardoso, medico presso la clinica talassoterapica dove il nostro va a rifocillarsi per qualche tempo e grazie ad un incontro importante, in treno, con una donna ebrea. Nella nota di Tabucchi a fine romanzo, veniamo a scoprire che in portoghese “«pereira» significa ‘albero del pero’, e come tutti i nomi degli alberi da frutto è un cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica sono nomi di città. Con questo volli subito rendere omaggio a un popolo che ha lasciato una grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie della storia”.
Il romanzo si conclude con l’assassinio brutale del giovane eversivo Monteiro Rossi che verrà scovato dalle forze di polizia nell’abitazione del giornalista. Pereira aveva preso a voler bene a lui e alla fidanzata Marta, tanto da ‘coprirli’ nelle loro azioni partigiane, fino ad offrire a Monteiro un nascondiglio in casa propria. Il terribile epilogo lo porta ad uscire allo scoperto e a decidere di pubblicare un articolo di denuncia, forte ed incisivo, contro lo stato criminale di Salazar. Ed è questa la fine anche del suo percorso umano, della sua personale ricerca di un senso. Un senso che si scopre essere collettivo ed individuale al contempo.
Qualcuno disse “capisci di aver letto un buon libro quando giri l’ultima pagina e ti senti come se avessi perso un amico” ed è quello che accade con il buon Pereira. Tabucchi ha creato un personaggio bonario, non un eroe, ma un antieroe, oppure, con una definizione che più gli si addice, “un eroe sui generis”, uno di noi, uno come noi. Uno che potremmo per caso incontrare in fila alle poste o seduto, appunto, a un tavolo del ristorante Orquidea davanti a una limonata. Non si può non provarne simpatia, elemento che Tabucchi rafforza con il ricorrente “Pereira sostiene”; “sostiene Pereira”, abile espediente linguistico, al quale segue poi la frase che contiene l’azione o il pensiero del protagonista.
Nel frattempo è passata un’ora. L’afa è aumentata, Tito non è sfavillante come Lisbona, ma la mia carne pare essere ancora giovane, e sotto di essa, giovane la passione. Già non penso più a se e come le mie membra risorgeranno. E nemmeno all’anima. Penso soltanto a quello che hanno sostenuto Pereira e Monteiro Rossi e a tutto il coraggio che richiede la vita. La vita per la libertà.


 

 

 

Antonio Tabucchi
Sostiene Pereira. Una testimonianza
(1994)
Milano, Feltrinelli, 2013
pp. 208

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