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Monday, 09 June 2014 00:00

Il viaggio del capitano Salgari

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Si scrive per vivere molte vite. La tua non ti basta,
già decisa com’è dal principio alla fine. Si scrive
perché ti senti stretto. Perché vuoi essere un altro.
Perché vuoi essere considerato e stimato. Perché
hai bisogno di qualcuno che ti dica bravo. Perché
sei povero. Perché ti vergogni della casa dove stai.
Perché non vuoi fare il mestiere che fa tuo padre.
Perché non hai i soldi per viaggiare. Per pagarti le
donne che vuoi, quelle che vorresti portare al
ristorante o all’opera. Perché vuoi fargliela vedere a
qualcuno, ai prepotenti, agli invidiosi.
                   (Ernesto Ferrero, Disegnare il vento)


(Da una breve biografia del 1898)
“Emilio Salgari è nato a Verona il 25 agosto del 1863 da padre negoziante e da madre veneziana imparentata con uomini di mare. A quattordici anni entrava nel R.Istituto Nautico di Venezia, deciso a girarsene il mondo; a diciassette anni, conseguita la patente di capitano marittimo mercantile, si imbarcò come ufficiale, solcando quasi interamente tutti gli oceani, spinto da una insaziabile curiosità e colla mira soprattutto di dare anche al suo paese la letteratura che aveva dato fama ai Verne, ai Mayne Reid, ai Cooper e che mancava ancora in Italia.
Per sette anni navigò, tutto osservando, studiando, facendo ovunque escursioni all’interno delle terre e delle isole, usando tutti i mezzi di locomozione possibili e immaginabili ed accumulando dovunque tesori di note ed osservazioni su usi, costumi, sulla fauna e la flora dei varii paesi. Dall’equatore ai mari polari, tutto ha veduto ed osservato.
A 25 anni, tornato in patria, entrò nel giornalismo, ritenendo questo il mezzo migliore per aprirsi la via. Nel 1894 abbandonò il giornalismo per dedicarsi interamente alla letteratura”.


(Dal Dizionario degli Autori, Einaudi Editore)
“Salgari Emilio, Verona 1862 – Torino, 1911.
Giornalista de La Nuova Arena e de La Valigia, pubblicò in queste sedi i primi racconti, che raggiunsero immediatamente il vasto pubblico di lettori che Salgari aveva imparato a conoscere lavorando in una biblioteca circolante.
La scimitarra di Budda, I pescatori di balene, I misteri della jungla nera, I pescatori di Trepang, I pirati della Malesia, Il corsaro nero divennero tra i libri più venduti della storia dell’editoria, e non rappresentano che una minima parte dei duecentoquindici titoli della biografia salgariana. Costretto dall’industria editoriale ad un’incessante attività, i suoi scritti furono pubblicati a puntate, anche quotidiane, sul Telegrafo e su La Gazzetta di Treviso. Morì suicida”.


“Lo ha trovato Luigia Quirico, la lavandaia, mentre attraversava il bosco del Lauro, in cerca di legna” che erano già le sei della sera. “Prima ha visto la giacca ripiegata per bene, la paglietta e il bastone da passeggio posati sull’erba appena spuntata. L’uomo stava appoggiato sul fianco sinistro, offrendosi per intero alla vista di chi arrivava di sotto. A lei le viscere non facevano impressione perché aveva lavorato in macelleria, fin da bambina era abituata con i vitelli, gli agnelli e i capretti. Ma l’uomo aveva gli intestini di fuori, srotolati, a Luigia sembrava ancora si muovessero, assestandosi per seguire l’andamento del terreno”.
“Per guardargli il volto si è dovuta fare forza, quasi lui fosse ancora vivo e si potesse sentire in imbarazzo di fronte a lei. I lineamenti erano distesi, come se avesse potuto trovare pace anche nella furia che lo aveva martoriato. Eppure il collo portava i segni di tagli profondi, da una parte all’altra. Il sangue uscito di lì s’era raggrumato in grosse cordonature viola e marrone”.


Luigia si sofferma sui fiottoli, sui terribili tagli amaranto che aprono il collo, sulla carne sfrangiata, sulle filacce all’interno che adesso si offrono alla vista come tanta spumiccia raggrumata, una sorta di bollore immobile, scuro, impiastricciato.
Dall’addome – anch’esso aperto con un taglio – la colatura di rosso scende come un piccolo fiume ormai placido che, trovata la via, si adagia al suo corso. Tocca la terra, certo, rendendo l’erba quasi nera, ma prima tocca il lembo della camicia di flanella e qualche schizzo lo si vede anche in pieno petto, simile alle macchie che i bambini si fanno quando mangiano i maccheroncini al pomodoro.
Addome, collo. Collo, addome. Poi Luigia cerca di nuovo il volto: ne fissa il naso grosso, le labbra oramai fredde e poi ancora le orecchie, la fronte e i capelli, grigi, illuminati dalla luce calante. Poi incrocia le sue pupille con quelle del morto, che sono pulite, quasi azzurre: come avesse negli occhi il mare, fin nell’ultimo istante. Anche dopo l’ultimo istante. “Chissà quale mare?” si chiede Luigia.
Sembra proprio lui.
È proprio lui.
Sarà lui?
È lui.
Possibile che sia davvero lui?
È davvero lui.
Luigia si fa il segno della croce, accenna l’inizio di una preghiera poi corre ad avvertire le guardie che, mentre attraversava il bosco del Lauro, ha trovato il cadavere di Emilio Salgari: il grande scrittore.


(da un appunto autobiografico di Emilio Salgari).
“Fin dalla più tenera età io avevo una passione bizzarra incomprensibile, cioè quella di farmi marinaio, di avere un giorno una nave da comandare, un equipaggio sotto di me, di scorrere ampii mari in cerca di avventure, di burrasche, di vere emozioni. Io ignoro ancora come questa strana passione si fosse impadronita del mio animo; se fossi nato in riva al mare l’avrei compresa, ma sono nato cento miglia distante. Tuttavia mi ricordo che giovanissimo io parlavo dei marinai come della gente più audace e più robusta del mondo, mi ricordo che sui miei libri disegnavo burrasche, naufragi, marinai, ancore e per di più migliaia di carte geografiche. Più tardi dei libri pieni di avventure e di naufragi terminarono per rassodarmi vieppiù nell’animo la passione di fare il marinaio. I libri di Verne e di Man-Reid terminarono per farmi diventare odiosa la vita di terra ferma; no, io non ero nato per imitare il mestiere di mio padre, né per condurre una vita tranquilla, troppo tranquilla”.


Il capitano Salgari ha traversato tutti gli Oceani, tutti i mari, tutti i canali; ha navigato su tutte le navi, su tutte le golette, su tutti gli sciabecchi. Il capitano Salgari è partito da un punto della Terra, ha più volte fatto il giro al completo, poi è ritornato al punto della Terra da cui è partito. Nel suo giro il capitano Salgari ha visto tutti i paesi, ha conosciuto tutte le donne, ha parlato tutte le lingue e ha vinto tutti i duelli, ha sconfitto tutti i nemici, è stato portato in trionfo da tutte le genti. Il capitano Salgari ha nuotato accanto a tutti i pesci che esistono, ha assaggiato tutti i cibi che si possono cucinare, ha visto il tramonto da tutti i punti da cui è possibile vedere il tramonto. Per il capitano Salgari le Indie Olandesi sono state la sua stanza da letto, il Borneo è stato il salotto, la Malesia il terrazzo, Sumatra la  cucina mentre la foresta di Colombo  è stata un breve corridoio che si passa di fretta: il mondo, insomma, è stata la sua casa.
Il capitano Salgari ha disegnato su tutte le mappe, ha imparato a memoria tutte le correnti salate, ha dato un nome a tutte le stelle. Il capitano Salgari ha fatto il bagno nel Gange, ha preso il sole in una pagoda d’Oriente, ha impugnato la scimitarra di Buddha; ha visto giraffe bianche e visitato montagne d’oro, risolto i misteri dell’India, fatto da insegnante ai pescatori di balene. Il capitano Salgari ha fatto l’amore con la favorita del Mahdi. È stato il capitano Salgari a trovare la gemma del Fiume Rosso, il fiore delle perle, la perla sanguinosa. Lo sanno tutti che, come il capitano Salgari, c’è solo il capitano Salgari.
Lui è un eroe, anzi è l’eroe degli eroi, anzi è l’eroe più eroe di tutti gli eroi, anzi: è l’eroe di tutti gli eroi che sono gli eroi di altri eroi.
Nessuno è più eroe del capitano Salgari perché nessuno ha viaggiato quanto ha viaggiato il capitano.


(Il suo viaggio).
Emilio Salgari ha sedici anni, è a Venezia, da zia Filomena, per frequentare come uditore il primo corso del ‘Regio Istituto Tecnico e Nautico Paolo Sarpi’. Ha perciò lasciato la bella Verona, patria di osti, di preti, di sognatori e di belle pulzelle affacciate al balcone, dalle lunghe trecce nere, piene di mercanzia sul davanti, che ti guardano come si guarda un insetto mentre tu le guardi come si guarda un miracolo.
La mattina Salgari è a lezione ma, dall’ora di pranzo e fino a notte iniziata, impiega il tempo a bighellonare sul molo e lungo la riva degli Schiavoni. Contempla i vascelli, i macinini da pesca, i bragozzi chioggiotti. Indugia a spiare come lavorano gli uomini che vengono da chissà dove: li osserva trascinare bauli, calare catene, tendere, tirare e annodare le funi; resta a bocca aperta quando si arrampicano, come scimmie africane, sulle sartie. Nota il taglio dei pantaloni, il colore delle magliette, il tipo di scarpe che hanno ai piedi, il cappello che portano in testa, la cintura che gli stringe l’addome. È affascinato e spaventato dai tatuaggi. Si perde – simile a un bimbo alle giostre – nel turbinio dei termini tecnici, che vengono urlati da barca a barca, al di sopra delle onde; gli brillano gli occhi quando vede monete d’argento, di ferro o di bronzo, che non ha mai visto prima; il cuore gli va in tumulto quando sente un nome nuovo perché diventa subito un vocabolo con cui potrà arricchire i viaggi che compie – ogni sera – stando fermo nel letto, la nuca al cuscino, negli occhi il soffitto.
Qualche volta arrischia e si spinge anche nelle bettole, nelle osterie, nei piccoli bar pieni di umidore e salsedine. Varcata la porta finge di dover cercare qualcuno, muove tre o quattro passi a destra o sinistra, cerca un pezzo di parete libera e vi si appoggia, inosservato.
Non si siede al bancone, non si siede ad un tavolo: non saprebbe come pagare e, d’altronde, non saprebbe neanche cosa ordinare. Cosa tracannano questi uomini veri, che bevono tutto d’un sorso, spalancando la gola perché il bicchiere sia una cascata?
Si accontenta, Salgari sedicenne, di percepire gli agri odori del posto, di coglierne l’aria fumosa, di far parte del panorama: di lato, di sbircio, ma comunque presente.
Nell’estate del 1880, dopo la promozione al secondo anno, riesce a farsi prendere come mozzo su un vecchio trabiccolo di legno spugnoso e di acciaio martoriato. Si chiama ‘Italia Una’, pesa settantuno tonnellate, l’armatore fa di nome Giovanni Poli: sembra un ragioniere d’ufficio, Giovanni; uno di quelli abituati soltanto a far quadrare i conti di un’azienda vinicola o di un piccola fabbrica di dolciumi, ma invece sono anni che fa la spola tra Pellestrina e Brindisi, toccando le coste della Dalmazia.
Tre mesi in Adriatico, quindi: come primo viaggio, il primo di tanti viaggi, non c’è male: è un buon inizio.
“Io trovai dopo molte ricerche e molte delusioni, un imbarco a bordo di uno di quei trabiccoli che fanno il traffico nel Mediterraneo. Le casse di biancheria erano già di bordo quando mi venne l’ordine di recarmi a Pellestrina. Io non esitai un momento; salutai amici e parenti e partii da Venezia su una di quelle barche pescherecce che si chiamano ‘topi’ con una coperta miserabile al centro e due grandi vele a poppa e a prora. Il mio cuore balzava di gioia: era giunto dunque il momento”.
Una volta salito a bordo, pestato il pavimento in legname, poggiate le mani sul bordo laterale dell’’Italia Una’, Salgari sente nel petto una forza invisibile, piena, coraggiosa, senza limiti, che non ha più freni: “Io mi sentivo forte, tanto forte da sfidare i calori dell’Equatore e i ghiacci del Polo”.
Dimentica tutto e tutti, dimentica i giorni passati, dimentica ciò che sta fermo alle spalle, immobile, cittadino: “Tutto sparve dinanzi ai miei occhi, dimenticai amici, genitori, parenti e patria e tutto ciò che amavo, per vedere il mare, per provare la vita del marinaio, attorno alla quale doveva svolgersi la mia esistenza”.
Sul resto del viaggio Salgari lascia soltanto l’inizio di una poesia. Fa così: “Lotta e veleggia nave fiera/ Il vasto Oceano non ti domò/ Sciogli al vento la tua bandiera”.
Fierezza poetica, ma è soltanto una menzogna scritta in versi.


(Il suo viaggio. Davvero).
Il cibo è pessimo; il ponte è uno scivolo piatto, su cui si pattina senza volere; si dorme poco e male, piegati tra le balle di trasporto; altre navi non ne passano, pesci non se ne vedono, la noia domina i giorni, le notti sono tutte un dondolare senza tregua. L’Adriatico sembra uno stagno di fango e detriti, il cielo pare fatto di piombo, il vento non è una brezza ma uno schiaffo dato in piena faccia. Finché, dopo qualche giorno di navigazione, il trabiccolo viene stretto, tenuto e stritolato da una tempesta: il barcone pare inondarsi, calando il muso a fior d’acqua, poi riprende equilibrio e sale quasi fin sopra le nuvole tanto che, con le vele, sembra poter dare fastidio ai gabbiani: torna giù, in picchiata, come un sasso gettato da un ponte. Le fiancate sono squassate dalle onde, l’elica fa vortici spaventosi, il timone non si controlla e gira come girano le ruote dei mulini quando sono investiti dall’acqua.
Dura due giorni questa burrasca, due giorni nei quali Salgari vomita e piange, due giorni nei quali rischia anche la vita: un’onda più grossa delle altre lo prende in pieno, lo porta con sé, lo trascina oltre il parapetto. Chi assiste lo dà già per disperso. Una fune, a cui è legato un arpione, lo salva: gli si aggrappa, Salgari, badando a non mollarlo per nessuna ragione.
Pallido, infreddolito, tremante, con gli occhi pieni di sale, le labbra livide, i tagli alle mani, in testa un solo pensiero, uno solo: mai più viaggiare per mare. Mai più.
Così avviene.


Si trattasse soltanto della menzogna con cui si fa letteratura, ci accontenteremmo di ciò che ci dice Salgari in Disegnare il vento di Ernesto Ferrero: “Poniamo per ipotesi che io non abbia fatto i viaggi di cui ho parlato e che non abbia visto con i miei occhi le cose che ho descritto. Che importanza avrebbe? Ce n’è anche soltanto uno tra i milioni dei miei lettori che si è lamentato delle mie descrizioni? Le ha trovate imprecise, poco suggestive, abborracciate alla meglio? Quello che conta sono i libri, non i piccoli uomini che li scrivono. E poi, c’è forse qualcuno che ha chiesto a Dante se è stato in quell’imbuto fuligginoso che è l’Inferno o se ha scalato il Purgatorio? Che ha chiesto ad Ariosto se è andato per davvero sulla Luna o se ha cavalcato l’Ippogrifo?”.
Si trattasse soltanto della menzogna con cui si fa letteratura, ci accontenteremmo di rispondergli come avviene in Disegnare il vento, di Ernesto Ferrero: “Fandonie ne sparano tutti, a seconda della convenienza. Si passa la vita a fare la tara delle frottole altrui. Le persone si possono dividere in due categorie: quelli che raccontano fanfaronate e smargiassate, ma le sanno raccontare bene, e se ci credi è perché in quel momento ti va bene così; e quelli che le raccontano male, e allora non sono pericolosi perché te ne accorgi subito. È questione di bravura artistica, in fin dei conti”.
Tuttavia un conto sono le fanfaronate d’inchiostro, un altro è fare di queste stesse fanfaronate la propria verità. Scrive in merito Silvio Gozzato: “Salgari non era un bugiardo classico. Non mentiva per nessuna delle ragioni per cui un bugiardo mente. Era semplicemente convinto di aver solcato i sette mari, e più lo diceva più la convinzione cresceva, più la fantasia e la realtà si confondevano l’una con l’altra diventando un’unica indissolubile entità”.

 

“Senti qua, Salgarello, hai vent’anni, se avessi fatto tutte le cose che dici di aver fatto, avresti l’età di Garibaldi“.
Emilio Salgari mente: a tutti, per tutta la vita.
Mente alla già nominata zia Filomena, alla quale mormora improvvise frasi esotiche: “Torno ora da Calcutta, ripartirò tra pochi giorni per l’Africa”. “Non dire sciocchezze, Emilio, tu non sei stato in nessuno di questi posti. Ti ga visto solo Verona, Venezia, e un toco dell’Adriatico”.
Mente alla madre quando, per lettera, favoleggia di luoghi impossibili che ha appena visitato: “No dirme che ti ga visto anca quei”, gli risponde la mamma, sempre per lettera. 
Mente alle cugine alle quali, nelle feste e nei balli di famiglia, narra di cicloni e tornadi che ha affrontato e sconfitto: “Emilio, smettila, che ti mi spaurissi le putele!”.
Salgari mente a Ida, la futura moglie, anche nel momento in cui le si dichiara innamorato: “Tutte le follie di cui un uomo è capace io le ho provate: nato in una notte di tempesta, vissuto fra le tempeste degli oceani ove l’anima diventa selvaggia, e le tempeste del giornalismo ove ogni pazzia diventa un dovere, la mia vita doveva essere tempestosa per necessità. Ma un giorno ho veduto voi, e in me si è operato uno strano cambiamento, ho sentito come il bisogno di amare, ma realmente amare fuori dalle tempeste in cui ero vissuto fino a ieri; ho sentito come il bisogno di porre un freno agli impeti ardenti del sangue febbricitante e agli impeti irrefrenabili dell’anima selvaggia”.
Salgari mente a un cugino, raccontandogli di navi scagliate contro le montagne; mente ai paesani, riempiendoli di frottole piene di particolari perfetti ma fasulli; Salgari mente ad amici e nemici, a parenti, editori, giornalisti, mente ai bambini che incontra al parco, mente a una giovane a cui firma un autografo, mente al ministro a cui chiede un sostegno economico: “Io che tanto ho viaggiato e tanto ho scritto…”.
Rifiutato dal mare, inventa il suo mare; spinto sulla terra ferma dal vento, ridisegna il suo vento e vi si butta a capofitto, facendosi trascinare oltre ogni limite, senza alcun freno.
Salgari – insomma – vive circondato dal mondo che descrive, egli stesso diventa il mondo che descrive, il mondo che descrive (e che non corrisponde al mondo reale) diventa il mondo che abita, quello in cui passeggia, beve, quello in cui fa l’amore.
Per lo stesso Salgari Salgari è il capitano, il grande viandante, il marinaio coraggioso, l’uomo di mille battaglie, di duemila scoperte, di tremila avventure. Indossa un costume, interpreta un ruolo, appartiene a una trama e si muove tra scenari di cartapesta, dai colori pastello e dalle proporzioni irreali, ma finisce per scambiare questo teatrale palcoscenico di chiacchiere per il resoconto veritiero di un’esistenza autentica. Prende una sciabola di cartone con una sciabola vera, pensa che i drappi damascati siano abiti normali, si confonde al punto da non riuscire a distinguere più i viaggi che avrebbe potuto fare da quelli che non ha fatto mai.
“Io, antico cadetto della marina mercantile, che ho viaggiato per il mondo…” scrive alla rivista milanese La Valigia mentre al settimanale L’innocenza parla della Rafflesia gigante – il fiore più grande allora conosciuto – con lo stesso tono banale con cui noi raccontiamo delle nostre piantine di basilico.
All’Arena di Verona racconta di quando ha sentito cantare dagli indigeni “una lamentevole canzone, verso sera, sotto il vecchio forte olandese” mentre ad Angelo De Gubernatis – serissimo critico che prepara un dizionario biografico degli scrittori contemporanei inviando questionari da compilare – scrive: “La prego di scusarmi molto, anzi troppo in ritardo rispondo al suo gentile invito, ma non sono tornato che ieri da un viaggio all’estero“.
In una lettera inviata a tale Corbò – che gli scrive dall’Egitto – si sente in dovere di darsi alla chiacchiera in questo modo: “La prima volta che io ho veduto scorrere quella imponente massa d’acqua, che andava appunto a fertilizzare le magre terre d’Egitto, non ho potuto fare a meno di togliermi il cappello e di salutarlo riverentemente. Salutate da parte mia il biondo fiume sacro”.
In un quaderno, destinato ai propri studi, appunta che, in Malesia, la carne delle tartarughe “si vende viva, tagliando gli animali a pezzi al momento”; annota che ha visto con i suoi occhi gli uomini della tribù dei Grakum – in Malacca – “rubare le donne per sposarle”; accenna  dei Batta che, in loco, “hanno fama di essere antropofaghi”.
In un’intervista afferma di essere naufragato nel Mar Giallo; in un’altra di aver visto a Sumatra “fiori giganteschi che misuravano due metri di circonferenza”; in un’altra ancora discute della sua visita a un porto eritreo, del suo passaggio in Siberia, della conoscenza fatta con i pericolosi “cacciatori polari”. E la sua carriera da pirata, i tesori ritrovati sul fondo di grotte oscure, l’idillio con miss Eva Stevenson, l’incontro con il vero Sandokan; le fughe nella foresta e i tuffi dalle rupi, l’assalto degli Olandesi e la corsa degli elefanti, i pesci volanti, i mormoni del Lago Salato e le bufere di sabbia in Islanda, le spugne perforatrici, la neve colorata, i datteri mangiati nel Sahara e i banchetti a cui ha preso parte presso i turcomanni e gli sceicchi del deserto, l’isola delle scimmie, la pioggia di ragni, le foche dello Yucatan…
Ad Antonio Casulli, inviato del Il Mattino, si presenta così: “Ho studiato poco e viaggiato molto, arrivando fino allo stretto di Bering. A Verona, dove sono nato, ho fatto le scuole tecniche. Poi, siccome mio padre aveva altre idee, scagliai il calamaio sulla cattedra e andai a Venezia, per studi nautici, e fui dopo tre anni capitano di lungo corso. Avevo una ventina di anni. E viaggiai. Ho visto il mondo fumando una montagna di tabacco. In un viaggio stetti sei mesi in navigazione con una sola breve fermata a Ceylon, perché crivellato dai rosicanti…”.
Proprio all’intervista di Casulli occorre tornare per comprendere quanta disparità triste, quanta differenza disperata sussista tra ciò che scrive e ciò che vive; tra ciò che è vero e ciò che – vero – non lo è stato mai.
“Le pareti sono coperte di pesanti tessuti rossi, di velluti e di broccati di gran pregio, e il pavimento scompare sotto un alto strato di tappeti di Persia, sfolgoranti d’oro. Negli angoli si rizzano grandi scaffali, zeppi di vasi riboccanti di braccialetti d’oro, di orecchini, di anelli, di medaglioni, di preziosi arrendi sacri, di perle provenienti senza dubbio dalle famose peschiere di Ceylon, e all’ingiro stanno sparse splendide vesti, quadri dovuti forse a celebri pennelli”. Si scorgono anche “finestre sorrette da colonnine corinzie”, “grandi specchi con cornici di cristallo”, “globi di vetro rosa”, una “grande lampada di argento dorato”.
Ecco una stanza abitata da un personaggio di un romanzo di Salgari. Ma la realtà? Com’è, invece, il luogo in cui Salgari mangia, dorme, legge, si ubriaca? Ritorniamo proprio all’intervista di Casulli.
Il grande scrittore siede su un “vecchio divano spelacchiato”, indossa una “giacca di fustagno alla cacciatora e dei pantaloni in un paio di stivaletti” logori. Si sposta allo scrittoio – un vecchio tavolo sconquassato che sembra ricavato da una botte di vino andato a male – e qui si accomoda per farsi ammirare tra le mille mercanzie che arredano ogni centimetro: “pugnali, statuette di divinità indiane, collane di conchiglie, cristalli di minerali, pistole ad acciarino, pipe, pacchi di tabacco, fotografie, un mappamondo e una bussola”. Alle pareti “fucili e archibugi, un arco con freccia, uno scudo di cuoio rotondo, varie funi, una fiocina, canne e reti da pesca, foglie di palma” ormai rinsecchite. A terra un misero tappeto orientale che ha stinto i colori, da un armadio mezzo aperto si intravedono “fascicoli, giornali, cartelle ammonticchiate” che gli fanno da schedario.
Robaccia da rivenducoli. Cianfrusaglie. Oggetti del valore di pochi spiccioli, comprati in qualche bazar, da un rigattiere, da un antiquario. Souvenir portatigli da un conoscente. Ciarpame da mercatino rionale, da fiera di paese, da bancarella di strada. Rimasugli di vecchie topaie disabitate, di scantinati da svuotare, di soffitte da liberare. Ninnoli, inezie, roba da collezionisti mattoidi.
Salgari mette su la propria scenografia come si mettevano su le scenografie del vecchio teatro verista: accatastando stramberie, ammucchiando babilonie di feticci. Immerso in questa finteria assume gesti, pose, comportamenti da attore e, come un attore, si dà alla sua recita (“Un lampo abbagliante squarciò le tenebre, seguito subito da un tuono spaventevole: vieni a lottare con me, uragano. Io ti sfido!”). Davanti agli altri, davanti allo specchio; per gli altri, per se stesso.
Perché?
Perché la vita è la vita, con tutto il suo carico di dolori e amarezze, di sfortune e sconfitte. Perché della vita fanno parte i debiti, le malattie, gli abbandoni; perché si è deboli quando si vive, perché si è fragili, perché ci si scopre inadeguati. Perché arriva un momento in cui non riusciamo a tenere le lacrime, arriva un giorno in cui occorre fare i conti, perché c’è un istante in cui non bastano più le scuse, non servono più le giustificazioni.
Perché ti muore un fratello, perché tua moglie impazzisce, perché i tuoi figli non hanno di che mangiare. Perché ti scopri ingannato, defraudato, offeso. Perché non hai la forza per poter ribattere al torto che ti è stato fatto. Perché non sai con chi prendertela se non con te stesso. Perché senti che c’è un baratro, un abisso, un buio che ti chiama. Perché hai paura di cadere e di non saperti rialzare.
Perché sai che gli editori si accaparrano i tuoi romanzi dandoti meno denaro di quanto dovrebbero.
Perché ti accorgi che i tuoi figli crescono in una condizione miserrima, senza avere nulla per cena.
Perché capita – in un giorno d’aprile – che tua moglie, che t’ama come nessuno ha mai amato nessuno, si ammala definitivamente: il suo sguardo si fa vitreo, la bocca schiuma, le mani le tremano, la voce biascica parole in dialetto componendo discorsi senza alcun senso: “Certifico io sottoscritto medico municipale che la Sig.ra Salgari Aida, moglie di Salgari Emilio, è affetta da mania furiosa con tendenza ad atti impulsivi che la rendono pericolosa a sé e agli altri, e dispongo, per cure urgenti, il suo ricovero al Manicomio. In fede, Arminio Herr”.
Salgari mente per rimandare, per fuggire, per nascondersi; mente per evitare, per non prendere coscienza, per non sentire le spine. Salgari mente per sopravvivere.
Esaurita la possibilità di mentire (e di mentirsi) non resta che la morte.


(Le ultime ore)
La notte che precede il suo ultimo giorno il capitano la passa immobile, sul divano, senza cenare, non emettendo fiato. Mezzo ubriaco, ha terminato l’ennesima bottiglia di marsala. Fuma le ultime sigarette rimaste: un centinaio quotidiane, una trentina in aggiunta, questa notte. Allo scrittoio sta la pagina di una storia interrotta, a destra gli fa luce il moccolo di una candela bianca, nell’aria ronza qualche mosca, senza riuscire a dargli fastidio. Ha la testa piena di pensieri.
Pensa a Ida, rinchiusa in una camera che sembra la cella di un carcere, in preda a “psicosi periodica” che la rende “esaltata logorroica” e “disordinata nel contegno”. Non sa e non lo saprà mai, il capitano, che la consorte ha anche un cancro all’utero che la ucciderà nel giro di un anno.
Pensa ai figlioli, che sono il ritratto della povertà  e che sembrano destinati ad un futuro triste, grigio, infelice. Non sa e non lo saprà mai, il capitano, che Fathima morirà giovanissima, di tubercolosi, in un sanatorio; che Nadir verrà ucciso da un incidente motociclistico; che Omar e Romero si suicideranno.
Pensa al padre, Luigi, che si è suicidato credendosi, erroneamente, affetto da un male incurabile. Pensa allo zio Giovanni che si è buttato da una finestra; pensa a Giacomo Bove, il grande esploratore, che si è sparato alla testa e pensa ad Augusto Fronzoj, “il gigante”, che dopo aver visto davvero mezzo mondo ed aver vissuto la vita che Salgari ha soltanto immaginato di vivere, si è portato alla fronte due pistole e ha fatto fuoco.
Pensa a tutti gli uomini che hanno scombussolato i piani del Padreterno: impiccandosi a una trave, gettandosi in un burrone, ingoiando un veleno.
Allora lo sguardo del capitano va a una delle corde che tiene a parete. Non va bene: debole, fragile, smangiata dal tempo, buona solo per fare apparenza. Va poi alla pistola a tamburo, inchiodata tra una scimitarra e una mappa: non ha mai sparato, perché dovrebbe sparare proprio adesso? Si rende conto di essere circondato dal falso, dall’inutile, inservibile.
Forse il capitano pensa, per un attimo, anche agli atlanti, alle enciclopedie, ai dizionari, alle riviste di viaggio che ha consultato per scrivere i romanzi che ha scritto. Forse al capitano vengono in mente alcune delle parole con cui si è colorato la voce: “sciambaga”, “mussenda”, “kriss” e “dayachi”, “maharatti”, “lamantini”, “folgore”, “Mompracem”, “nagatampo”. Già, “Nagatampo”… chissà com’è davvero  il profumo dei nagatampo?
Lo sorprende l’alba. Si alza di scatto, gira su se stesso sentendo la fatica del corpo addolorato, vinto dalle troppe sofferenze dei suoi quarantanove anni. Gli pesa non aver dormito, gli pesa aver bevuto tutto il marsala che c’era in casa, gli pesa la fitta alla schiena, il dolore nel polso, il fastidio al ginocchio. Gli pesa respirare, ancora.
Si affretta allo scrittoio, dove cerca e trova qualche foglietto che intasca in un attimo; poi si reca in cucina: qui i figli lo vedono scavare nei cassetti: sembra un cane che cerca l’osso dopo che lo ha nascosto sottoterra. Un bacio a Fathima, una raccomandazione a Omar e Romero: “Andate a scuola”. “Non torno per pranzo, ci vediamo alle sei” dice, poi esce.
I figli – quasi presentendo – si affrettano sulla soglia e da lì osservano il padre allontanarsi. Lo vedono attendere e salire sul tram. Lo vedono prendere posto. Lo vedono sparire dietro una curva. Chiudono la porta. Fathima piange.
Salgari scende dopo poche fermate, percorre la strada del Lauro che porta alla collina, si ferma un istante a prendere fiato, osserva soddisfatto il rigoglio della natura, prosegue il cammino. Giunge al bosco di Villa Rey, posa il bastone, si toglie la giacca, allenta la camicia, da lontano ammira la piccola chiesetta della Madonna del Pilone poi, stanco, siede su un crepaccio – simile a una nicchia funeraria, a una fossa da morto – e attende qualche minuto. Un raggio di sole gli colora il ginocchio destro. Sorride, sereno, distendendo i muscoli delle spalle, delle braccia, del volto poi caccia il rasoio che ha nella tasca e, con furia spaventosa, si colpisce. All’addome, al collo.
Intanto Luigia Quirico pensa che la legna sta per finire e che occorre andarne a cercarla nel bosco, prima che venga la notte.


(dal discorso funebre in suo onore)
“Visse una vita singolare, e malgrado la realtà lo urtasse a volte brutalmente, era tuttavia così forte in lui la forza morale da non accorgersi quasi di queste terribili crisi che lo richiavano al discernimento dei fatti cotidiani. Ma se ciò fu un difetto del suo angolo visuale, fu anche tutta la suprema bellezza della sua esistenza, nella quale passò assorto sempre in un mondo popolato di sogni e fantasmi”.


Nella tasca della giacca, piegata sull’erba, furono ritrovate tre lettere. Le offriamo ai lettori, in conclusione.
(prima lettera).
“Ai miei editori
A voi che vi siete arricchiti colla mia pelle mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni, che io vi ho dati, pensiate ai miei funerali.
Vi saluto spezzando la penna.

                                                                                                               Emilio Salgari”


(seconda lettera).
“Ai direttori dei quotidiani torinesi
Vinto dai dispiaceri d’ogni sorta, ridotto alla miseria malgrado l’enorme mole di lavoro, colla moglie pazza all’ospedale, alla quale non posso pagare la pensione, mi sopprimo.
Conto milioni d’ammiratori in ogni parte d’Europa e anche nell’America. Li prego, signori direttori, di aprire una sottoscrizione per togliere dalla miseria i miei quattro figli e poter passare la pensione a mia moglie finché rimarrà all’ospedale.
Col mio nome dovevo attendermi altra fortuna ed altra sorte. Sono certo che loro, signori direttori, non mancheranno di far aiutare i miei disgraziati figli e mia moglie.
Con i più sentiti ringraziamenti.
Devotissimo

                                                                                                                      Emilio Salgari”


(terza lettera)
“Miei cari figli
Sono ormai un vinto. La pazzia di vostra madre mi ha spezzato il cuore e tutte le energie. Io spero che i milioni di miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti ed istruiti provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire, più un credito di 600 lire che incasserete dalla signora Nusshaumer. Vi accludo qui il suo indirizzo.
Fatemi seppellire per carità essendo completamente rovinato.
Mantenetevi buoni ed onesti e pensate, appena potrete, ad aiutare vostra madre.
Vi bacia tutti, col cuore sanguinante, il vostro disgraziato padre.

Emilio Salgari


Vado a morire nella Valle di S.Martino, presso il luogo ove, quando abitavamo in Via Guastalla andavamo a fare colazione. Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete, perché andavamo a raccogliere i fiori”.

 

 

 


NB.
Il presente articolo è nato come testo per la trasmissione Genio e Follia − ideata, presentata e condotta da chi firma l'articolo assieme al dott. Enzo Falcomer, la dott.ª Lina Morselli, la dott.ª Daniela Ronchi della Rocca − che va in onda, per l'associazione Accademia dei Sensi, sulle frequenze web di Radio Accademia dei Sensi.

 

 

Ernesto Ferrero
Disegnare il vento. L'ultimo viaggio del capitano Salgari
Torino, Einaudi, 2011
pp. 187

Claudio Gallo, Giuseppe Bonomi
Emilio Salgari. La macchina dei sogni
Milano, Bur, 2011
pp. 488

Silvino Gonzato
Emilio Salgari. Demoni, amori e tragedie di un Capitano che viaggiò solo con la fantasia
Venezia, Neri Pozza, 1995
pp. 234

Felice Pozzo
Salgari e dintorni
Napoli, Liguori, 2000
pp. 356

Pietro Citati
Il profumo dei nagatampo
in Il male assoluto. Nel cuore del romanzo dell'Ottocento
Milano, Mondadori, 2000
pp. 511, pp. 405-411

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