“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 29 May 2014 00:00

Ingredienti di una grande letteratura: Algebra, e Fuoco

Written by 

L’algebra e il fuoco. Saggi sulla scrittura sono titolo e sottotitolo della raccolta di saggi di John Barth, curata da Martina Testa e pubblicata in Italia da Minimum Fax. Attenzione però, questa può essere considerata una mera raccolta di saggi così come La casa dell’allegria può essere considerata solo una raccolta di racconti.

Nella nota dell’autore a La casa dell’allegria, Barth fornisce un passepartout di lettura: “In due modi questo libro differisce dalla maggior parte dei volumi di racconti. Primo: non si tratta né di una raccolta né di una scelta, bensì di una serie; ... l’intento dell’Autore è che la serie sia ricevuta ‘tutta insieme’ e nell’ordine qui dato alle sue parti”. Ed è esattamente così che anche L’algebra e il fuoco va letta e considerata: un flusso continuo di pensieri e idee che sopraggiungono sovrapponendosi ai precedenti, rimodellandone continuamente la geografia, e dove il successivo può essere compreso solo dopo esser passati per il precedente. Si tratta di un percorso cerebrale che richiama la descrizione del luogo della sua infanzia, la  Baia di Chesapeake: Barth si definisce un figlio della marea, genitrice di uno “scrittore dai piedi palmati, anfibio, cresciuto nelle paludi, probabilmente tenderà per puro istinto a considerare arbitrarie, fluide, discutibili molte demarcazioni... Il suo segno di punteggiatura preferito sarà il punto e virgola”. E, aggiunge chi scrive, uno scrittore che come la marea torna sui suoi passi a distanza di tempo col coraggio di chi sa rimettersi in discussione: “Nota dell’autore, del 1984: Ho davvero detto cose tanto sciocche nel 1967? Già, e per di più ci credevo anche”.
Cominciamo dal linguaggio, con una precisazione: John Barth ha un gemello, una gemella per l’esattezza, e questa circostanza pare abbia influito non poco sul suo approccio alla comunicazione. Come leggenda narra e Barth conferma, tra gemelli non serve il linguaggio per comunicare, tra di loro funzionano strani codici e la telepatia. La parola serve solo a relazionarsi con gli Altri. Questa è la ragione per cui un gemello che diventa scrittore non darà mai per scontato il linguaggio ma lo maneggerà, mettendolo sempre in primo piano. Facendo un passo indietro ed allargando la prospettiva, si può notare un’analoga dualità nel lavoro di Barth scrittore. E non mi riferisco solo alla caratteristica che i suoi libri “tendono a uscire a coppie” e le sue frasi “in coppie di membri”, ma al fatto che paragonando il linguaggio utilizzato in questi saggi con quello di alcuni suoi libri, i più ‘postmoderni’, mi viene da pensare che nella chiara linearità dei primi ci sia lo scrittore che comunica con ‘gli Altri’, mentre nei secondi viene sempre fuori un po’ del gemello che comunica con l’altro sé. In questi saggi, quindi, non assisteremo a nessun 'triplosaltomortalecarpiato'; si tratta più di interviste a fine gara, quando l’atleta ha consumato tutta l’adrenalina, si è riconciliato col mondo, e con la scioltezza di chi non ha più nulla da dover dimostrare ci racconta ‘com’è andata’ e ‘come sarebbe potuta andare’.
Il primo saggio Musa, risparmiamelo, si apre come un poema ellenico, con una preghiera alla divinità, “Supplico la Musa di preservarmi dal diventare mai un Umorista Nero”, che insieme agli autori di satira sono responsabili di aver dato “forma drammatica − buon per loro! − alla Follia della Società Contemporanea, ai Conflitti Militari Moderni, alla Vita con la Bomba Atomica, al Come Ci Siamo Ridotti”; mentre l’unica responsabilità che Barth accetta di assumersi (alla scrivania ovviamente) è quella artistica. Che la musa lo preservi dal diventare una Cassandra che ride follemente. Ed è così che ci introduce al suo ideale di narrazione: la Sheherazade de Le mille e una notte.
Nei due saggi La letteratura dell’esaurimento del 1967 e La letteratura della pienezza del 1979, c’è un’esigenza di ritornare sui suoi passi e di riaffrontare la questione ‘postmodernismo’, dopo aver avuto il tempo di osservare gli usi distorti che sono stati fatti della ‘sua creatura’. Come uno scienziato che ha creato un qualcosa per migliorare il mondo, salvo poi accorgersi che altri avevano pensato bene di utilizzare quel qualcosa come arma a distruzione di massa, così Barth ha l’urgenza di spiegare, di chiarire, agitando le mani in alto, perché non erano certo queste le sue intenzioni. Dopo aver ripercorso, catalogato e ben rappresentato, ricorrendo anche a paragoni pittorici e musicali, tutti i generi letterari, arriva alla conclusione borgesiana che non ci può essere esaurimento della letteratura, perché sebbene nessuno possa rivendicare di essere originale, è anche vero però che nessuno può mai bagnarsi due volte nello stesso fiume. Quindi, ‘basta-che-funzioni’ o, per dirla a parole sue: “le convenzioni artistiche sono soggette a essere accantonate, sovvertite, trascese, trasformate, oppure anche rivoltate contro se stesse per far scaturire opere vive e innovative”.
Concetto ripreso e utilizzato anche in Mi sembra un elefante per affrontare e vincere Tom Wolfe, “il vecchio alfiere del New Journalism nonché novello romanziere all’antica” da cui è stato sfidato a duello sul campo realismo/irrealismo. In buona sostanza Wolfe, nel saggio intitolato Caccia alla bestia con un miliardo di zampe, apre il fuoco non tanto sulla bestia del titolo, che richiama l’elefante della parabola – del quale anche i più bravi riescono ad afferrarne solo una parte: chi la coda, chi le zampe etc. e ognuno è convinto di aver acciuffato una bestia diversa – ma prende di mira i suoi colleghi narratori. Per liberarsi del cecchino, Barth risponde prendendo una rincorsa bella ampia e circolare, ma alla fine abbiamo l’happy end e il cattivo muore: “se qualche scrittore riesce ad essere memorabile e meglio di altri, ciò non si deve al ‘programma estetico' intrapreso, vale a dire alla parte di elefante alla quale è abbarbicato, quanto piuttosto “al loro genio letterario, del quale né i 'realisti' né gli 'irrealisti' hanno il monopolio”.
Questo non è il primo libro sulla letteratura che mi capita di leggere, ma posso affermare che è la prima volta che mi capita di uscire da questo genere di lettura con un senso di sollievo e di chiarezza in testa. Il più delle volte, il modo in cui questo argomento viene affrontato se non è noioso quanto meno crea un gran bel casino con i neuroni di chi legge; se uno ha dei dubbi da risolvere, di sicuro ne esce con i loro nipotini in braccio. Come chiamare una collaboratrice domestica per ripulirvi un po’ la casa e quando se ne va le cose stanno peggio di prima.
Ma in questo caso tutto ciò non si verificherà, vi assicuro che quando Barth avrà finito con voi potrete anche mangiare per terra se volete.


 

John Barth
L’algebra e il fuoco. Saggi sulla scrittura
a cura di Martina Testa
traduzione di Damiano Abeni
Minimum Fax, 2013
pp. 197.

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook