“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 16 May 2014 00:00

Rassegnati: è arte

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Immaginate di camminare per Roma, immaginate di essere nei pressi dei Fori Imperiali o nelle vicinanze della Fontana di Trevi, del Colosseo o di San Pietro. Bellezza allo stato puro, i vostri occhi non sanno come digerire quest’orgia improvvisa di estatica meraviglia.
Concentratevi su questa sensazione. Non la sentite scorrere dentro di voi? Sembra quasi un fiume. Potete percepirla tra i globuli rossi: un’esplosione di voglia di vivere mista ad orgoglio per l’appartenenza alla specie umana che nonostante le atrocità commesse ci ha saputo regalare anche un assaggio di eternità.

In paradiso – adesso possiamo giurare che esso esista perché una traccia, una sua fulgida emanazione è qui, davanti ai nostri occhi, palese come lo sono le nostre stesse mani – avremo tutti corpi sontuosi come quelli scolpiti dal Bernini e vivremo in ampie sale affrescate secondo la maniera michelangiolesca. La morte ci fa meno paura. Simpatizziamo anche un po’ con il medievale memento mori – ma sì, che morte mi colga pure quand’essa vorrà, non mi aspetta altro che l’Assoluto, l’Infinito, la Bellezza.
Ecco.
Immaginate adesso di veder camminare con una certa baldanza un uomo non troppo alto, né magro né grasso, con indosso un paio di semplici pantaloni color cachi, una camicia bianca e dei filoni di pane legati intorno alla testa.
Esatto. Filoni di pane legati intorno alla testa.
A malapena riesce a vedere ciò che gli sta dinnanzi, a malapena riesce a scartare quell’anziana signora e le sue buste della spesa, per un soffio non precipita dal marciapiede rischiando la vita in mezzo al traffico.
Immaginate adesso – lo so, vi sto chiedendo molto, ma abbiamo quasi finito! – che accanto a lui cammini una donna minuta: stessa sicurezza, stessa falcata decisa, filoni di pane della stessa forma e dimensione di quelli dell’uomo le cingono il volto, nemmeno fosse una maschera prodotta da un qualche artigiano di macabri gusti.
Non vi sentite rigettati nel caotico e impenetrabile ‘multiverso’ della follia umana?
Ammettiamolo: siamo un po’ sconvolti e un po’ divertiti. Li seguiamo con gli occhi, questi due poveri pazzi, in attesa che compiano qualcosa di indecifrabile e privo di senso logico, avvalorando la nostra prima ma definitiva ipotesi.
Ebbene, no.
Quella a cui avete assistito è una performance d’arte contemporanea.1
Avete sentito bene: arte. La stessa parola che troviamo associata al Guercino, al Caravaggio, a Giotto e a Brunelleschi.
Il losco figuro si chiama Tatsumi Orimoto e la donzella di cui possiamo solo ipotizzare il volto gentile Myriam Laplante.
Come noi tutti, Tatsumi Orimoto ha una storia. È nato nel 1946 a Kawasaky2 da corpo di donna, come tutti; ha studiato, come tutti; e ha deciso di fare l’artista, come qualcun altro nel mondo.
Il caso vuole che la donna che gli ha dato i natali si sia ammalata qualche anno fa di una malattia cattiva e spietata, una di quelle che pian piano si prende tutto, fino all’essenza di ciò che ci fa essere ciò che crediamo di essere. Prima ci si dimentica dove si sono lasciati gli occhiali, poi il nome della strada in cui si abita da quarant’anni, poi l’anno corrente, poi la fisionomia del proprio stesso figlio e poi come si possa, con un piccolo attrezzo che qualcuno giura si chiami cucchiaio – mah! – portare alla bocca la minestra.
E poi, il nulla. La confusione. Paura, molta paura. Una grande quantità di dubbi e via via sempre meno mezzi per esprimerli. Ogni gesto, anche il più banale, diventa difficile. Cosa e chi si diventi non è facile da sapere.
L’Alzheimer3 è una brutta bestia.
Quando la madre di Tatsumi Orimoto si ammala, il figlio decide di dedicarsi ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette, alla sua assistenza. È certo un’esperienza che non si augura a nessuno, nemmeno al peggior nemico. Osservare impotenti la propria madre spegnersi lentamente depaupera l’anima, svilisce ogni nostra più radicata convinzione sul senso della vita in generale e, soprattutto, sulla vita di chi subisce questa sorte.
Tatsumi Orimoto, però, è un artista. Con i mezzi che possiede inizia a registrare alcuni momenti della vita della madre. La fotografa con i vicini di casa, nelle cucine del suo ristorante preferito, mentre guarda la televisione o cammina per strada. Registra, sedimenta ricordi, crea un passato: combatte la malattia con le sue stesse armi, edifica dove s’è appena distrutto, dipinge dove s’è appena scialbato, cerca ciò che s’è appena smarrito. Gli affetti della madre, le sue consuetudini, le sue piccole abitudini, i suoi sorrisi non si perdono più nell’infinito del niente a cui la malattia la prostra. È tutto lì, nelle foto di Tatsumi Orimoto, perché se è vero che l’artista è creatore di un prodotto fruibile, è anche vero che la creazione necessita della memoria, dell’esperienza e della pazienza, in un logorante lavoro contro il tempo.
Sono millenni che l’uomo costruisce memoria, la stessa parola monumento deriva dal latino monumentum, “ricordo”, derivato a sua volta da monere, “ricordare”.4
Pensiamo per un attimo ai colombari romani,5 alle piramidi e ai monumenti funebri in genere, alle cappelle che nelle chiese recano un preciso cognome, agli autoritratti e ai ritratti. Pensiamo ai romanzi, alle sceneggiature, alle poesie e ai poemi. Anche se i corpi di chi li ha commissionati, realizzati, scritti ed editi sono sepolti, la loro memoria è viva. Sono millenni che l’uomo teme la morte e s’adopera per aggirarne gli effetti.
Sono millenni che l'uomo s’illude e dispera di riuscirci davvero.
La condizione perfetta di chi entra in un museo dovrebbe essere quella dello schizofrenico: si devono sentire le voci. L’arte non tace – l’arte, di qualunque epoca e di qualunque provenienza geografica – urla il proprio rifiuto categorico di quel destino impietoso e necessario che è la morte fisica e al tempo stesso il proprio dolore per la sua ineluttabilità.
L’arte è, tra le mille altre cose, anche memoria, o meglio, riconoscimento della sua necessità esistenziale.
Tatsumi Orimoto non ha fatto altro che cercare di ricostruire ciò che una malattia sta strappando: il ricordo di sé, con tutta la dignità che in esso è custodita.
Ma torniamo ai nostri filoni di pane.
Con questo gesto l’artista annichilisce ogni principale organo di senso, recide fermamente i più importanti collegamenti con la realtà fenomenica. Si rende cieco, sordo, muto, incapace di percepire gran parte di ciò che lo circonda.
Esattamente come sua madre: la vista, l’olfatto e l’udito della donna funzionano, è vero, ma a cosa servono se non c’è ricordo di ciò che si è sentito?
La scelta del pane non è casuale. È il cibo preferito della madre, un cibo di cui si nutre ormai quasi esclusivamente e così adoperato diventa il simbolo di una genitorialità rovesciata in cui il dolore, l’impotenza, la frustrazione e la stanchezza si mescolano fino a diventare indistinguibili.
Se le fotografie della serie Art Mama6 rivelano una dolcezza unica e hanno come protagonista indiscussa la madre dell’artista, la performance Breadman a Roma7 è, invece, più sottilmente autobiografica e proprio per questo subdolamente violenta.
Eccolo, il nostro pazzo. L’abbiamo visto passeggiare per le strade di Roma, l’abbiamo guardato di sottecchi gioendo una volta sparito dal nostro orizzonte visivo.
Eccola la nostra arte contemporanea: un colpo al cuore, una scossa imprevista, un interrogativo a cui non sappiamo rispondere perché una risposta a certe domande, semplicemente, non esiste.
Beiamoci del nostro paradiso immaginato, dei nostri Canova, dei nostri soffitti cassettonati d’oro, delle nostre angeliche grottesche.
Ma se la morte ci scambiasse per qualcun altro non sarebbe poi un dramma.





1) La performance Breadman a Roma è stata realizzata da Orimoto nel 2007 in occasione del VI Festival Internazionale della Fotografia.
2) Cfr: La Biennale di Venezia, 49° Esposizione Internazionale: Platea dell'umanità, H. Szeemann (a cura di), Venezia, Edizioni La Biennale di Venezia, 2001, p. 15.
3) La malattia di Alzheimer è la più comune causa di demenza dell’età adulta e rappresenta oltre il 50% di tutte le patologie demenziali dell’età senile e pre-senile in tutti i Paesi ad elevato sviluppo economico. Attualmente non esistono terapie realmente efficaci nel trattamento causale della malattia. Cfr: G. Wilcock, Quando il nonno torna bambino, Milano, Le Comete, 1992, p. 9.
4) Cfr: http://www.etimo.it/?term=monumento&find=Cerca
5) Ricollegandoci ai già citati colombari romani ricordiamo che una delle pene più gravi comminate ai nemici di Roma e del Senato era la damnatio memoriae che consisteva nella cancellazione della memoria di una persona e nella distruzione di qualsiasi traccia potesse tramandarla ai posteri. Cfr: R. Bianchi Bandinelli, Roma – L’arte romana nel centro del potere, Milano, RCS Libri, 1976, p. 105.
6) Tatsumi Orimoto: Art Mama, G. Tinti (a cura di), Roma, Gangemi Editore, 2008, p. 11.
7) La performance è stata realizzata in collaborazione con Myriam Laplante nel ruolo di Breadwoman. Come ricorda lo stesso artista in un’intervista realizzata da An Paenhuysen in occasione della mostra dal titolo Art Mama alla DNA Gallery di Berlino nel 2011, la performance è stata realizzata in circa duecento città diverse del mondo, prevalentemente in luoghi pubblici. Cfr: http://humbleartsfoundation.org/blog/2011/09/life-reality-tatsumi-orimoto-at-dna-gallery-berlin/.
8) Cit: "La morte deve scambiarmi per un altro” in S. Beckett, Malone muore

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