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Wednesday, 30 April 2014 00:00

Fenoglio e l'inglese de “Il partigiano Johnny”

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Uno dei romanzi più famosi sulla Resistenza italiana, scritto da chi la Resistenza l’aveva fatta davvero, è senza dubbio Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio. Curioso è il fatto che questo imponente volume – più di cinquecento pagine, secondo l’edizione SuperET di Einaudi – sia, in realtà, inconcluso. A ben vedere, Il partigiano Johnny presenta una storia redazionale piuttosto complicata, fatta di continui ripensamenti e rimaneggiamenti: basti pensare che la prima stesura è completamente in inglese (il che dimostra anche un certo snobismo).

In questa continua opera di aggiustamenti, l’unica nota costante resta l’uso di questa lingua che Fenoglio padroneggiava come se fosse la propria: la ricerca della ragione alla base di questo elemento inconsueto e innovativo lascia spazio solo ad ipotesi, in quanto – come accennato sopra – non abbiamo una stesura definitiva del romanzo.
La prima e più scontata motivazione è che il libro, essendo incompleto, potrebbe essere stato abbandonato: il che significa che le espressioni inglesi sarebbero un retaggio della prima stesura. Potrebbe darsi però che le espressioni in inglese non fossero ben padroneggiate in italiano, magari erano difficili da tradurre perché idiomatiche o perché cariche di una forza e immediatezza espressiva che la traduzione italiana non avrebbe conservato. La terza ipotesi è che la conservazione di queste espressioni, estremamente cadenzate in tutto l’arco della narrazione, rispondessero alla volontà dell’autore di creare un romanzo sperimentale, in cui l’inglese possedesse una cifra morale, simbolica.
Fin dall’indomani dell’armistizio di Cassibile (8 settembre del 1943), Fenoglio si mise a tradurre opere in lingua inglese: e, si noti bene, non opere americane, molto in voga in quel periodo e della cui traduzione si erano fatti carico anche altre personalità di spicco come Pavese e Vittorini, ma opere della letteratura anglosassone. Questo perché dopo l’otto settembre aveva vissuto uno “sbandamento”, ovvero quel momento cruciale della storia in cui venne sospesa ogni istituzione, ogni gerarchia, per cui i soldati se ne andarono a casa senza sapere quali fossero i propri doveri. Per converso, la letteratura inglese celava un sostrato morale diverso, calvinista, riformista e severo che sembrava poter dare l’illusione di un ordine ristabilitosi dopo i fatti di guerra.
Tra le pagine de Il partigiano Johnny, la questione legata alla sensazione di sbandamento è strettamente legata alla dimensione letteraria.
All’inizio del romanzo, Johnny si trova “imboscato” nella villetta collinare della sua famiglia, e qui sperimenta una sorta di movimento a fermo: è obbligato a stare chiuso in casa, passa molto tempo a leggere e ad osservare il paesaggio, ma vive una sensazione di irrequietezza che lo spinge fino alla nausea. Questo è un termine chiave, in quanto La Nausea di Sartre è il romanzo canonico dell’esistenzialismo, in cui i personaggi vivono un isolamento che è dato dall’incapacità di vivere se non nell’angoscia, nella nausea. A questo si interseca quella che Heidegger chiamava la condizione di “aggettatezza”, per cui l’uomo è stato abbandonato sulla terra per mezzo di un distaccamento. Eppure Sartre, come Fenoglio, insiste sullo sprung, quell’energia che consente di rialzarsi e continuare a vivere.
Questa breve spiegazione risulta perfettamente calzante alla vicenda di Johnny. Ma cosa c’entra questo con l’inglese che punteggia l’intero romanzo? Secondo il mio modo di vedere, la volontà di Johnny di passare all’azione è strettamente collegata con il tipo di moralità veicolata dal calvinismo, con la sua laboriosità e la sua precisione severa. La stessa lingua inglese, povera di perifrasi e contenente termini dal significato diretto e immediato, è un perfetto veicolo per la trasmissione di idee e di valori etici.
Sembra proprio che sia attraverso questo veicolo linguistico immediato che l’energia accumulata da Johnny possa dirigersi di nuovo verso la guerra; in altre parole, l’inglese consente all’energia accumulatasi di rilasciarsi gradualmente nel corso della narrazione, creando pagine di una notevole e sferzante forza espressiva.
Basta, per concludere, rileggere il passaggio riguardante la sopracitata nausea:
"Le giornate d’autunno, pur d’autunno, erano insopportabilmente lunghe, il guadagno fatto col dormire diurno si dilapidò presto per l’insonnia notturna; ora egli passava nottate fumando, accavallando le gambe e leggendo un gran fondo di lettura. So mornings were diseased and nightmared. Il paesaggio ora lo nauseava, scontato il gusto del ritrovamento della terra natale e vitale. La letteratura lo nauseava. Come da quel surfeit di cibo e di sonno gli si cancellò tutto della vita militare, in capo ad una settimana non sapeva più da che parte si cominciasse a smontare un mitragliatore, ciò che una settimana prima sapeva fare ad occhi bendati. Ed era male, qualcosa, dentro pungente e icefying, l’avvertiva che era male, le armi sarebbero rientrate nella sua vita, magari per la finestra, ad onta d’ogni strenua decisione o sacro voto contrari.
Sentiva acutamente, morbosamente, la mancanza della radio: i suoi almeno per il momento non avevano potuto far niente in questo senso. Prese a smaniare per sentire la voce di Candidus, gluttoning on his own accent. Quasi ogni giorno saliva suo padre, for several requests-annotation e riferirgli le notizie locali e nazionali, quelle del bisbiglio e della diffusione radiofonica. Dalla sua voce opaca, irrimediabilmente anarrativa, Johnny seppe così della liberazione di Mussolini sul Gran Sasso ad opera di Skorzeny (gliel’hanno strappato come una bandiera di palio, non sono nemmeno stati capaci di sparargli in extremis, nemmeno di nasconderlo sicuramente), della costituzione in Germania di un governo nazionale, fascista, dell’annuncio a Radio Roma restituitagli dai tedeschi fatto da Pavolini (Johnny vide con straordinaria chiarezza e vicinanza la faccia meteca del gerarca e pensò con gelida fulmineità alla sua eliminazione fisica), della strage di Cefalonia. In città, raccontava suo padre, non succedeva nulla, e proprio per questo la gente si fidava sempre meno, si chiudeva sempre più in se stessa, morbosamente".

 

 

 

 

 

Beppe Fenoglio
Il Partigiano Johnny (1968)
Einaudi, Torino, 2005
pp. 531

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