“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 07 April 2014 00:00

La frammentaria geografia dell'Oltre

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La sfiducia nei confronti del Positivismo e della quadrata e riposante visione del mondo che esso proponeva, la svalutazione di ogni filosofia "dai tetti in giù" operata da Schopenhauer, Nietzsche, Bergson e Freud, e la liberazione delle istanze irrazionalistiche cagionarono due rivoluzioni, volte a segnare profondamente la cultura primo novecentesca. La prima rivoluzione, che preannunzia la seconda, è la ‘scoperta’ della scissione del soggetto che fece desistere i romanzieri dalla rappresentazione di personaggi coesi, unitari, saldi, "di sagoma balzacchiana". La seconda, invece, riguarda il tema centrale del rapporto soggetto-realtà, poeta-paesaggio naturale. Il soggetto moderno si sente spaesato in un mondo che egli avverte come estraneo ed inconoscibile, giacché i codici ermeneutici tradizionali fondati sulla scienza si sono dimostrati inermi dinnanzi ai colpi dei succitati "maestri del sospetto" (e rubo l’espressione, allargandola, da Ricoeur).

Prima di questa perdita di coordinate fisse entro le quale muoversi, l’uomo aveva i mezzi per dominare il dato fenomenico e di inserirlo, quindi, nel suo progetto esistenziale. La realtà rimandava soltanto a se stessa, nulla celava di incognito e minaccevole e gli stessi narratori ottocenteschi erano, ad esempio, scientificamente filologici nel rappresentare città e strade, poniamo, fornendo dati precisissimi e riscontrabili fuori dal testo, allegando sovente testimonianze e fonti. Questa asettica fotografia dello scrittore-scienziato escludeva ogni interferenza soggettiva, ogni segreto moto dell’anima che rischiasse di intaccare l’esattezza dell’opera d’arte, così come è bene che mai un esperimento di laboratorio sia turbato da fenomeni esterni. Al fenomeno esterno che turbò la letteratura a cavallo fra i due secoli darò il nome di "Oltre", utile per compendiare a un tempo l’alterità e l’inconoscibilità della realtà e, pure, il suo carico di orfica fascinazione.
In Italia due poeti, baluardi della conservazione e, quindi, ancora profondamente ottocenteschi, hanno tentato di recuperare la conoscenza piena e rassicurante (e in questo tutta borghese) della natura: Pascoli e d’Annunzio. In Pascoli il tentativo fallisce perché nonostante lo sforzo di collocare la realtà in un piano cronotopo idillico-familiare, e a dispetto della dimestichezza che egli dimostra di avere coi nomi di piante e animali, il "fru fru" di un assiuolo gli rimanda inopinatamente tetre immagini mortuarie, che rappresentano l’"oltre" del dato naturale, l’invisibile nascosto dietro al visibile, il segreto ultimo che si epifanizza allorché la natura, in particolarissimi momenti, "si apre come una scorza" (come amò dire Debenedetti) e lascia intravvedere al poeta il suo cuore.
La dialettica uomo-natura appare, invece, risolta con facilità da d’Annunzio, il quale fa coincidere i due dati in grazia della sua eccezionalità di uomo e in virtù di un panismo superomistico che gli consente, secondo Roncoroni, "di eternarsi, facendosi divino, nell’abbraccio cosmico con le forze della natura". La soluzione del poeta abruzzese è ottimistica perché, ad un vigile ed onesto esame, tronca il problema alle radici. Senza il dubbio nelle proprie capacità non c’è senso di manchevolezza, angoscia, dolore. Anche quando d’Annunzio dà nomi ai dati naturali (ripescando, ad esempio, da inaccessibili limbi lessicali l’avellano, la stiancia, il fuco) lo fa non per cercare, come Pascoli, di dominare razionalmente la natura, preferendo un bruniano e neopagano dominio eroico-erotico, ma per finalità meramente estetizzanti. Ragion per cui la poesia dannunziana, segnatamente quella alcioniana, si configura come esperienza ancora tutta ottocentesca, non priva di reminiscenze romantiche. La realtà è ancora catalogabile, passibile di descrizioni ampie e precise, la sua geografia è ancora tracciabile in atlanti che trovano spazio nel labirinto dello scrittore naturalista, in cui siamo già indiscretamente penetrati. Non c’è ora più spazio per gli atlanti negli scaffali dei poeti che vivono la crisi delle certezze, come viene ormai stancamente definito il periodo che stiamo considerando. Agli atlanti onnicomprensivi si sono sostituiti frammenti sparsi e atomizzati in cui è palese il patetico tentativo da parte del soggetto di inserirsi nella realtà. Già la città industriale, spersonalizzante e tentacolare, aveva fatto smarrire nel suo labirinto il poeta, la cui ultima speranza rimane lo choc, parente prossimo dell’epifania proustiana e joyciana.
Lo stesso choc vissuto dal Baudelaire di Una passante – e di cui gran parlare ha fatto Benjamin, lettore accortissimo del grande poeta francese – e ripreso anche dal nostro Camillo Sbarbaro in Io che come un sonnambulo cammino. Sbarbaro ci interessa, però, per un motivo opposto. Egli sorvola su questi momenti di trascurabile felicità, su questi momenti in cui, ancora, la realtà vera si epifanizza (come in Talora nell’arsura della via) e denuncia la irredimibile aridità della condizione esistenziale, la sua "rassegnazione disperata" che gli fa constatare la mancanza di soprasensi simbolici della realtà, la sua desertificazione ("il mondo è un grande deserto"). Sbarbaro radicalizza la condizione di isolato del soggetto nella realtà, il suo status di sonnambulo e di ubriaco (figure topiche, utile ricordarlo, nella iconografia novecentesca, da Hermann Broch ai vociani). Col dire "tutto è quello/ che è, soltanto quello che è" il poeta ligure intende dare congedo ad ogni illuso simbolismo. Il mondo a perso ogni lusinga di "sirena" e il verso "io guardo con occhi asciutti me stesso" fa cadere anche la speranza, accarezzata dal Montale di I limoni, che le cose possano tradire il loro ultimo segreto e possano metterci in mezzo a una verità.
Il rapporto poeta-paesaggio, dopo l’addio alle spesso compiante corrispondenze, si fa improntato a malessere e a sconforto. La sete metafisica che l’uomo ha per l’"oltre" è frustrata, sì, ma, volendo cercare ottimistici margini di operatività, si può dire che l’uomo in questa realtà uguale soltanto a se stessa può invero trovare una dimensione. Quantunque si tratti di un deserto aridissimo, l’uomo può ricominciare a conoscerlo pienamente, senza vuoti dolorosi. Chissà che questo positivismo, tornato per vie indirette ed inopinate, non possa restituire al soggetto una rassegnata fiducia in se stesso.
L’uomo di oggi appare come un vecchio che, dopo la giovinezza spesa alla ricerca donchisciottescamente vana dell’oltre, trova un riposante giaciglio nel perimetro della prosa del mondo. L’uomo di oggi è tornato a sentire nel verso dell’assiuolo solo una generica emissione di suoni. Mangia le sue madeleines senza pensare a Swann e ad Albertine. Spreme limoni senza udire le trombe d’oro della felicità. La ricerca dell’"Oltre" ha dato risultati artistici altissimi, ma forse troppa infelicità. In questo deserto referenziale giova, forse, rassegnarci con Sbarbaro alla condizione di beduini.

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