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Thursday, 27 March 2014 00:00

Goffredo Parise e la controversa questione del reporter nel paesaggio

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Secondo Michael Jakob, il paesaggio − concetto largamente discusso nel corso dei secoli e apparso solo nel 1500 a designare un genere pittorico − è costituito da tre condizioni sine qua non: la prima è che senza natura non esista paesaggio. Se nel novanta per cento dei casi è così, è anche vero che esistono paesaggio interiori, immaginari, che poco hanno a che fare con la natura: basti pensare a quello di Mme De Scudéry, costituito dalla "collina della tenerezza", dalla "montagna della dolcezza", e così via. Oppure basta ripensare alla terminologia di Freud, dove i luoghi della psiche sono connotati fisicamente (subconscio, superio, etc).

Accettare l'assunto di Jakob è però funzionale al discorso che intendo portare avanti sul Parise reporter, quello di Guerre politiche, volume che raccoglie i quattro reportages sul Vietnam, Laos, Cile e sul Biafra, pubblicati su Il Corriere della Sera dal 1968 al 1976. Credo sia possibile identificare il rapporto di Parise col paesaggio basandosi sulle condizioni proposte da Jakob.
Riguardo la prima, negli scritti di guerra la natura è sempre presente, soprattutto in quelle zone impervie come Laos, il Vietnam e il Biafra. La natura è spesso distrutta dai bombardamenti e dal napalm, oppure offre rifugio alle popolazioni dilaniate dalla situazione conflittuale. Questo è evidente soprattutto a Laos, dove compare un paesaggio quasi meteoritico abitato da una popolazione che vi ha trovato riparo scavando caverne al suo interno.
La seconda condizione individuata da Jakob è la presenza di un soggetto: in altre parole, non esiste paesaggio se non c’è un soggetto che lo osserva. Subentrano qui questioni di tipo culturale, nel senso che la visione di uno specifico osservatore è per forza orientata, è per forza condizionata dal bagaglio di conoscenze, tanto che si parla di presenza-influenza.
In Parise questo è particolarmente evidente nel doppio passo che si snoda lungo tutto l’arco della narrazione, in particolar modo nel pezzo sul Vietnam: sebbene debba, per forza di cose, condannare i vietcong che li attaccano, o la prostituzione – anche minorile − delle ragazze vietnamite, non riesce a non ammirarne la vitalità. Ne è affascinato soprattutto perché essa è contrapposta all’artificialità dei soldati americani, troppo perfetti per essere veri, ed estremamente attenti alla facciata, come dimostrano i centri ricreativi a loro destinati, dove i soldati dovrebbero rilassarsi, ma dai quali invece fuggono per gettarsi tra le strade delle città alla ricerca dell’amore delle ragazze vietnamite, appartenenti alla razza che combattono quotidianamente.
Esemplare è la descrizione del generale Westmoreland, descritto come un prodotto perfetto dell’industria americana, in serie, un "atleta greco in technicolor".
Gli americani sono descritti come se fossero un quadro pop.
Pertanto Parise, pur riconoscendosi egli stesso come prodotto della cultura americana, non riesce a condannare la vitalità dei vietnamiti, proprio perché questa − rispetto all’artificialità americana − è qualcosa di reale.
In ogni caso, già il fatto che la narrazione sia in prima persona presuppone un punto di vista, una posizione, un’inquadratura particolare sugli eventi. Infine, secondo la terza condizione posta da Jakob, non esiste paesaggio senza l’incontro tra soggetto e natura. Contrariamente al senso comune, questa unione non consiste nella semplice contemplazione di una porzione di territorio, ma è spesso frutto di un’interazione con essa.
Nel caso di Parise questa seconda affermazione è vera più che mai: in quanto reporter alato in una terra flagellata dalla guerra, deve entrare in contatto con la natura per difendersi, per spostarsi, per cercare riparo, per capire le strategie militari.
Per dirla con le parole di Alberto Moravia, Parise è uno stuntman, uno che non riesce a stare fermo, forse perché ha ancora un ideale hemingwayano di scrittore. Non se ne può stare fermo a guardare, deve sfruttare il territorio, esaminarlo, un po’ come facevano i partigiani durante la Resistenza: la consapevolezza del proprio corpo nello spazio costituisce la chiave della sopravvivenza. Questa capacità cinestetica è spesso collegata ad uno sguardo – tipico del reporter − che si potrebbe definire come fotografico, perché composto da una serie di istantanee.
Seguendo la distinzione operata da Roland Barthes in La camera chiara. Nota sulla fotografia (1980), lo sguardo del Parise reporter è una perfetta fusione tra punctum e studium: se inizialmente viene sfruttato il punctum, ovvero l’aspetto emotivo dell’immagine, che è funzionale soprattutto ad una resa immediata atta a garantire la cattura del lettore (il quale quasi si immedesima nei panni del reporter), in un secondo momento subentra lo studium, grazie al quale Parise-spettatore si pone delle domande sulla vita, sugli usi e costumi che l’immagine che egli stesso ha fotografato mentalmente gli fornisce.
Nel caso di Goffredo Parise questo doppio processo si riproduce nella sua scrittura: se gli eventi sembrano frutto di una scrittura “a caldo”, quasi prodotta sul momento, in realtà gli scritti sono spesso rielaborati nel corso degli anni. Anzi, sembra addirittura che la prima versione fosse inviata privatamente alla sua compagna Giosetta Fioroni. Veniva poi l’articolo, e infine la pubblicazione in volume.
Non possiamo dire quanto si sia conservato della prima versione, probabilmente condizionata dal destinatario, in quelle successive.
Tuttavia è innegabile che la continua interazione tra reporter e paesaggio che lo circonda non faccia che aumentare l’impressione, da parte del lettore, di trovarsi proprio lì, partecipe degli eventi, tra i crateri lunari del Vietnam, tra i meteoriti del Laos, e tra i profughi morenti del Biafra.

Goffredo Parise
Guerre politiche
Milano, Adelphi, 2007
pp. 275

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