“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 17 March 2014 00:00

Gazza’s Superstar Soccer

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Un giorno noi amici d’infanzia ci trovammo tra le mani una cassetta con un gioco di calcio nuovo per il commodore 64. Si chiamava Gazza’s Superstar Soccer, dal soprannome di un giocatore inglese che non conoscevamo ancora. Era divertente perché potevamo scegliere le squadre di club europee più prestigiose e le nazionali che avevamo da poco visto nel mondiale italiano. I giocatori piccoli, il campo di calcio enorme, non c’era proporzione. Quando ti mettevi in posizione diagonale rispetto alla porta, poco prima dell’area di rigore, e caricavi il tiro, era sempre gol: il portiere che sembrava un granchietto era anche lui troppo piccolo per la porta, e la palla allora, se angolata, non la prendeva mai. Io giocavo col Real Madrid, perché il Napoli non aveva più Diego, perché Diego era scappato, perché vedevamo i suoi gol su VHS come piccoli new romantic del pallone: qualcosa, senza saperlo, era quasi finito.

Nel 1992 Gazza venne in Italia. Biondo, occhi azzurri e mascella larga da supereroe (proprio come l’avevamo visto, la prima volta, a 8 bit), costò 26 miliardi, però il nuovo presidente della Lazio era il re dei pomodori e così se lo poteva permettere. Giocò con i biancocelesti per due anni, ma fece poco. Due cose in particolare ce le ricordiamo ancora. A Pescara segnò un gol in serpentina partendo a diversi metri dall’area di rigore e battendo a rete dopo aver superato quattro giocatori. Sembrava Diego, e non più solo per quel ventre che si gonfiava e si sgonfiava senza controllo, o per la vita sregolata infestata di pub e donne varie. Poi in un’intervista alla rai fece un rutto. Era poco inglese Gazza, e faceva tutto quello che gli passava per la testa. Alla fine se ne andò, senza troppi rimpianti, in Scozia, per riprendersi la sua fetta di gloria in un campionato minore.
L’estate del 1996 tuttavia Gazza decise di irrompere nel nostro immaginario quando meno ce lo aspettavamo. Noi tutti eravamo nel principio dell’adolescenza ma continuavamo a giocare sempre col pallone, non il supersantos né il supertela, ma quello di cuoio o minimo il tango, perché i palloni si bucavano facilmente e se dovevamo spendere 2 mila lire al giorno per la fragile gomma rossa era meglio metterne insieme 10 mila per un pallone serio e duraturo. Quell’estate partecipammo a un torneo di calcetto su un campetto di terra battuta di un quartiere vicino e ce lo giocammo mentre in Inghilterra si giocavano gli europei. Il football era tornato a casa. In televisione seguimmo tutte le partite, anche se l’Italia non superò nemmeno il girone. Così dopo l’Italia tifammo Inghilterra e cambiammo l’azzurro col bianco e ci prendemmo ripetutamente a schiaffi dietro al collo: volevamo essere hooligans, non eravamo abbastanza cattivi.
I leoni inglesi quell’europeo dovevano vincerlo. I rivali maggiori erano i tedeschi che schieravano da anni sempre gli stessi giocatori perché la Germania aveva saltato qualche generazione e si ritrovava una squadra di vecchietti parecchi passati per il campionato italiano e mandati via per sopraggiunto limite di età. Gli inglesi avevano una squadra niente male con un centravanti del Blackburn che segnava gol a raffica e che sarebbe stato il capocannoniere. Ma gli occhi di tutti erano puntati su di lui, Gazza, giocatore talentuoso che non aveva vinto nulla e che alla soglia dei trent’anni e con un fisico già disfatto aveva l’ultima possibilità di dimostrare che il suo immenso talento era pur valso a qualcosa. La TV e i giornali su questo ci giocavano molto. La storia del calciatore maledetto è sempre di un certo impatto.
Gazza scelse una partita di quelle importanti per salire in cattedra a modo suo. La Scozia non era certo la squadra da battere ma per evidenti ragioni la sfida era sentita. Mi ricordo che a dieci minuti dalla fine l’Inghilterra vinceva 1 a 0 e noi mangiavamo patatine crick crock e bevevamo fanta col ghiaccio avidamente perché faceva caldissimo e dopo la partita dovevamo correre giù per giocare il nostro torneo. A un certo punto un passaggio a mezz’aria fu indirizzato a Gazza non ricordo da chi, Gazza stava al limite dell’area di rigore, sul lato sinistro, con davanti un roccioso difensore scozzese pronto a scagliarsi contro di lui. Ebbene Gazza pensò di inventarsi una giocata solitaria di quelle memorabili: col sinistro fintò il tiro di collo pieno e invece alzò la palla a campanile sopra la testa dell’avversario e poi, prima che la stessa toccasse terra, tirò a volo di destro infilando il portiere alla sua destra. Dopo il gol si gettò a terra con le mani alzate tra il delirio generale. Era sinceramente felice. E anche noi. Tutti insieme saltammo dalla sedia perché quella giocata ci aveva esaltato e ci aveva comunicato qualcosa di fondamentale. Gazza invece se ne stava schiena sul prato del wembley stadium a prendersi tutto quanto poteva dall’attimo.
Capimmo che il fuoriclasse non è solo quello che ti fa vincere tutto perché sta in campo e fa la differenza. O meglio non è semplicemente quello. Il fuoriclasse è uno che attinge a dei momenti folgoranti. Gazza era un fuoriclasse. Il suo gol non cambiò le sorti di una partita che si stava avviando stancamente al termine. Il suo gol non fece la differenza. Ma per gli inglesi che stavano sugli spalti a godersi una prevedibile vittoria contro gli eterni modesti rivali, e per noi che la guardavamo perché eravamo bulimici del pallone ma già lo sapevamo chi avrebbe vinto la partita, quel gol fu un momento di ineguagliabile fulgore. Quel gol rappresentò per noi quei campionati europei. Fu l’unico messo a segno da Gazza. Poi Gazza si riprese il suo destino di incompiuto.
L’Inghilterra, nonostante tutto, uscì nelle semifinali.
La Germania capitalizzò gli ultimi fuochi di una rosa di giocatori che aveva già vinto troppo. Alzò la coppa dopo un’agevole vittoria contro la sorprendente Repubblica Ceca.
France Football avrebbe assegnato il pallone d’oro a un difensore tedesco che ci ricordiamo in pochi.
Il nostro torneo invece, nonostante l’impegno, il sudore, il pallone vissuto come elemento totalizzante, lo toppammo.
Avevamo il giocatore più forte, quello che se tutto gira male sa segnare anche da solo. Ma lui, Gino, alla prima vittoriosa partita conobbe una ragazzina carina finta ingenua maliziosa.
Finì che lei gli diede solo un bacio sulla guancia.
E che noi perdemmo più partite delle altre squadre.
Non sapevamo che quello sarebbe stato il nostro ultimo torneo insieme, altrimenti, per una volta, l’avremmo vinto. E invece l’adolescenza si prende tutto dall’inizio.
E il gol di Gazza fu l’unica cosa memorabile di quella estate.

PS: pubblicato il 18 luglio 2012 sul blog www.scrittoriprecari.wordpress.com

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