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Wednesday, 19 March 2014 00:00

Sono occidentale e me ne vanto

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Mi domando spesso quali e quanti destini sarebbero confluiti nella mia persona se il caso non mi avesse scaraventato nella provincia italica. Potevo nascere in Africa o in Oriente ed era tutto un altro mondo. E poi quale Africa: nera, sub-sahariana, il Sahel? Quale Oriente: il Medio, l’Estremo, l’Orient-Express? Siccome le stelle mi hanno confinato a determinate latitudini, assumo il peso di queste coordinate geografiche e se devo appassionarmi di qualcosa lo faccio per alcune idee, e invenzioni, occidentali. Una, l’ho già detto in altri articoli, è il romanzo.

Dall’Oriente, è noto, vengono filosofie alla moda. Al netto dei due sopravvalutati Hermann Hesse − Siddartha − e Jack Kerouac − I vagabondi del Dharma − passo subito a quel periodo, saranno stati i primi anni Novanta, in cui, complici alcuni occidentalissimi intellettuali, artisti, uomini di sport e di spettacolo, pareva dovessimo diventare tutti buddhisti. Io sono un diesel, a bruciapelo stento e balbetto ma giungo alle cose, alle argomentazioni, alle repliche dopo attenta, potrei dire, meditazione. Sento tuttavia che in questa la mente adotta parametri, categorie per usare un termine kantiano, totalmente occidentali, illuministe in prevalenza, a volte perfino marxiane.
Se facciamo fatica a che non passi inosservata l’esistenza dei singoli individui, è perché siamo immersi fino al collo nello storicismo e idealismo hegeliani: la domanda principale, che è poi un gesto dostoevskiano di rivolta, è: ogni vita, ogni sofferenza, ogni morte influenza o perfino destabilizza l’intera collettività o siamo solo parte di un inesorabile corso delle vicende che ci annulla senza speranza? Per rispondere non ho bisogno di monasteri himalaiani, neanche di un albero sotto il quale sostare a gambe incrociate per giorni a digiuno. L’ascetismo non mi appartiene, sì ho letto pure lo Zen e tutto ciò che ne consegue, dagli aforismi alla manutenzione della motocicletta, ma rifletto profondamente, e senza vergogna, perfino bestemmiando a un semaforo, davanti a un goal fallito o godendomi un brasato e un barolo. O una fiorentina al sangue con il vino brunello. De gustibus
Ed eccoci al guanciale d’erba, il tipico cuscino utilizzato dai pellegrini giapponesi in cammino. Un giovane pittore è in viaggio verso una meta che pare indefinita. Compaiono viandanti solitari e silenziosi, contadini intenti a lavorare la terra, nobili a cavallo e le bellezze del mondo che regalano un’ispirazione mai del tutto completa. Tutto comincia a cambiare quando il protagonista, a causa di una pioggia insistente, trova riparo in un’abitazione sperduta sui monti. L’edificio è una casa da tè gestita da un’anziana signora che oltre a offrire ospitalità, comincia a raccontare storie sulla gente del posto. In particolar modo, sulla ragazza di Nakoi desiderata da due uomini, ma per sua sfortuna finita in sposa a quello che lei non amava. Il giovane artista rimane affascinato e colpito da questa vicenda. Siamo di fronte a un cliché letterario, un triangolo fra lei, lui e l’altro. Sono passati dei capolavori che ancora tramandano personaggi immortali lungo questa metafora della vita dove si cela il conflitto fra desiderio e destino − o singolo-nuda fatalità − come accennavo. Ricordo solo, per dovere di amore verso certi libri, Emma Bovary, la stessa manzoniana monaca di Monza o la Scarlett Johansson nel Match Point di Woody Allen. E Anna Karenina e Stella Raphael, devastante figura creata dalla Follia di Patrick McGrath…
Ecco, Guanciale d’erba di Natsume Sōseki conferma l’incapacità degli orientali di trasmettere gioie, dolori, sofferenze, insomma sensazioni e punti di vista nuovi. Il pittore troverà, dopo un ulteriore pellegrinaggio, il fuoco sacro dell’ispirazione per realizzare la migliore opera della sua vita ma anche l’agnizione più potente sfuma in un linguaggio elegante, delicato, in boschetti e ruscelli idilliaci, riti sui futon, pagine di una lontananza siderale dai tormentati capolavori occidentali.
Quello che è sorprendente è che il primo a mostrarsi d’accordo con il sottoscritto è proprio Sōseki! Spicca infatti nel suo romanzo una dichiarazione d’intenti che marca esattamente il territorio culturale e letterario dell’autore. Un libro trascurabile per chi condivide le considerazioni fin qui svolte − che risulterà tuttavia bellissimo, intendiamoci bene, per chi è innamorato dei vari Haruki Murakami e Banana Yoshimoto − Guanciali d'erba contiene pagine iniziali interessanti. Scrive Sōseki, tra le altre cose: "nel mondo umano non è possibile evitare il tormento, la furia, l’agitazione e il pianto. E poiché non li tollero più, guai se a teatro e nei romanzi mi si dovessero ripresentare i medesimi stimoli! Desidero una poesia che non evochi tali passioni umane. Una poesia che m’induca ad abbandonare gli affanni di questo mondo, che mi dia l’impressione di essermi allontanato almeno un po’ dalle impurità della vita. Ma non c’è opera teatrale, neppure tra i massimi capolavori, che esuli dai sentimenti umani, non un romanzo estraneo al bene e al male. È una loro caratteristica non riuscire mai ad allontanarsi dal mondo umano. Soprattutto la poesia occidentale, basata essenzialmente sulle vicende umane, non sa liberarsi e oltrepassare i limiti di questo mondo; non conosce il regno della purezza. Si accontenta solo di compassione, amore, giustizia, libertà: oggetti che appartengono a quell’illusoria fiera che è la vita".
Fa molto Zen, no? O Tao, o Confucio…
Se per Sōseki tali parole vengono usate per, implicitamente, affermare la superiorità di questo atteggiamento sospeso, a contatto con il divino e il meraviglioso sprigionato dalla natura, preferisco restare ancorato alla mia tradizione e pagare il conto, a ogni pagina che leggo, per avere accettato di correre su questa terra. Guidato da una memoria che da Antigone arriva a quello spirto foscoliano, guerrier ch’entro mi rugge.


Sōseki Natsume
Guanciale d'erba (1906)
traduzione a cura di Lydia Origlia
Milano, Neri Pozza, 2009
pp. 173

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