“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 07 March 2014 00:00

Quello spettacolo, ancora

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Il grande attore “isolato dal fascio di luci che piovono dai palchetti di galleria”, “spiato da innumerevoli occhi che lo scrutano nella semioscurità della sala”, avanza sul proscenio dalla quinta di sinistra, il volto “torturato e segnato da rughe simili a cicatrici”, le palpebre “abbassate e pesanti”, l’andatura regale. Addosso ha una vestaglia di scena, dal taglio perfetto, color verdescuro. “La prima impressione è che egli non stia recitando, ma che si appresti a farlo”. Attesa, silenzio, il respiro tenuto. “A un tratto ci accorgiamo di quanto la nostra attesa sia sciocca: il grande attore sta già recitando. Ma ci accorgiamo anche che non finiremo mai di aspettare: il grande attore non reciterà mai”.

Il grande attore recita ma sembra non reciti e, pur sembrando che non reciti, invece sta recitando. Si direbbe vita del teatro e teatro della vita in un corpo, che si fa assito carnale di un doppio spettacolo: quello annunciato dai cartelloni, dalle locandine, dai giornali stampati al mattino; quello che appare nel momento in cui avviene ma che sembra confondersi con ciò che è avvenuto prima, con ciò che avverrà dopo: oltre scena, lontano dal palco, al di là della platea.
“Ha i capelli arruffati, lo sguardo balordo di chi non si è ancora abituato al risveglio. Dunque la rappresentazione comincia insieme alla vita. E se recita, il grande attore sta recitando due volte: una per il pubblico, l’altra per gli attori-spettatori che gli girano intorno. Adesso gli è stata servita la colazione. Il grande attore afferra il pane, intinge il boccone nella tazza di latte. Poi allontana da sé i resti del cibo. Non ha fretta. Si alza, si toglie la vestaglia. Resta in mutandoni e maglia di lana. Nulla lo distingue da uno qualsiasi di noi”.
La testimonianza è di Cesare Garboli, la messinscena è Il Sindaco del Rione Sanità, il grande attore è Eduardo De Filippo.

È nello stesso articolo – datato 12 aprile 1973 e letto in Un po' prima del piombo (Milano, Sansoni, 1998) – che Cesare Garboli scrive: “Di tutti gli strumenti dell’arte, solo il teatro scrive le proprie rappresentazioni al presente, rinunciando a esprimere la realtà attraverso il ricordo, o, per meglio dire, attraverso il diaframma della reminiscenza, della contemplazione mnemonica, cioè attraverso il già visto. Gioia effimera di una sera, il teatro esiste, si sa, nel momento in cui esso avviene”.
Il teatro vive al presente ed il suo inizio è l’inizio della sua fine. Somiglia ad una candela il teatro, giacché si scioglie e si consuma della sua recita così come una candela della fiamma che emana. Il teatro vive al presente anche quando porta in scena il passato; quando immagina e anticipa inventando il futuro; quando pronuncia una data che non esiste, di un calendario che non esiste.
“Gioia effimera di una sera”, il teatro scompare la sera stessa in cui si è dato allo sguardo. Non ne rimane traccia, se non per coloro che sono stati presenti; non ne rimane ricordo, se non grazie a coloro che ne fanno analisi, testimonianza, memoria. Scritto nell’aria, privo di consistenza durevole se non quella manifestata nel tempo dello spettacolo, il teatro scompare: scompare per tornare, leggermente diverso, la sera seguente; scompare per tornare – più diverso ancora – dopo una settimana, dopo un mese, dopo un anno; scompare per non tornare mai più.
Ecco: scompare, il teatro e, sovente, scompare per non tornare mai più. Di certo – per non tornare mai più – scompare questa messinscena, avvenuta questa sera, in questo luogo, in questo momento, al cospetto di questo pubblico.
Sparisce, scolora, langue, svapora. Lascia pulviscolo, il ricordo di qualche battuta, alcune immagini e la leggera patina di calore sul palmo delle mani, se le mani hanno applaudito.

“Pur quando una commedia nuova era stata scritta, il lavoro non si poteva considerare terminato. V’erano delle modifiche che nascevano alla prova dei fatti. Infine, neanche alla rappresentazione quel testo restava quello dell’ultima prova; alla luce della ribalta, durante la recita, alla prova della magica atmosfera che proveniva dal calore del pubblico, qualche battuta e perfino qualche scena intera poteva denunciare la necessità di dover essere rimaneggiata oppure, da una semplice battuta detta fuori testo, se ne poteva trarre un appropriato leit-motiv di sicuro successo”. Così Peppino De Filippo ricorda la propensione eduardiana ad aggiungere o togliere, rifinire e rammendare, modificare, mutare ciò che era stato scritto o ciò che era stato provato mentre – ciò che era stato scritto e provato – avveniva sul palco. “Non mi portate il copione definitivo, perché nemmeno quando va in scena una commedia il copione è definitivo: nemmeno quando va in scena!” Eduardo era solito urlare ai suoi allievi.
Un gesto compiuto all’improvviso; la maniera diversa di rendere una parola; il prolungamento di uno sguardo, di una posa, di un silenzio. Eduardo ricomponeva in scena ciò che sembrava composto definitivamente durante le prove, accentuando così il carattere instabile, precario, passeggero e momentaneo del fatto teatrale.

Il risultato ottenuto da Giulio Baffi non è solo di aver proposto all’attenzione una nuova versione di Sik-Sik, l’artefice magico; una nuova versione meritevole – chissà – di integrare i "Meridiani" della Mondadori o i quattro volumi pubblicati dall’Einaudi. È più importante, è più profondo, è dotato di maggior unicità il risultato ottenuto da Giulio Baffi: aver dato consistenza durevole a ciò che è accaduto e che, probabilmente, è accaduto, in questa forma, soltanto una sera.
Baffi ha registrato furtivamente (“Non registrate niente, non registrate niente perché non so cosa ne fate, dopo la mia morte” rimproverava Eduardo) il sonoro di un Sik-Sik, andato in scena nel maggio del 1979 presso il Teatro San Ferdinando di Napoli. Gesto nascosto, compiuto di sbircio, stando fissi ed immobili nella propria poltrona; gesto compiuto per il desiderio di possedere un lembo di ciò che passa, si disfa, scompare. Questa registrazione sonora è finita poi in un cassetto e lì s’è data al silenzio per più di trent’anni. Adesso questa registrazione è un CD, a corredo di un libro che riporta il testo di ciò che è stato registrato (a cura dello stesso Giulio Baffi) e le recensioni di quei giorni (a cura di Emanuela Ferrauto e Vincenzo Albano).
Non si tratta – sia chiaro – dello studio di un copione ulteriore o improvviso, effettuato magari nel silenzio di una biblioteca confrontando scrittura e scrittura, battuta e battuta, parola e parola. Il recupero operato da Baffi è invece teatro (nel senso più pieno, nel senso più vero) sottratto all’oblio; è un momento presente che sembrava disperso ma che rivive; è ciò che è stato e che non sarebbe stato mai più ma che, invece, ritorna ad essere ancora. È un furto compiuto al consumo del tempo; è un furto compiuto alla naturale scadenza della recita; è un furto compiuto al Teatro, in nome del Teatro stesso.
Registrando (e registrando in segreto: senza un accordo stabilito, senza una preparazione apposita) ciò che è davvero accaduto in ribalta, Baffi riesce, dunque, a mettere in pagina e in CD “la gioia effimera di una sera” di cui parla Cesare Garboli: quella messinscena avvenuta quella sera, in quel luogo, in quel momento, al cospetto di quel pubblico.

(dalla prefazione)
“La miseria, la necessità di sopravvivenza, l’eroismo della bugia, la confusione dei linguaggi, l’incapacità di gestire una estraneità sociale discriminante, e il racconto degli espedienti truffaldini di un uomo incapace di parlare alla gente. E allo stesso tempo la tenerezza e le smargiassate da mettere in campo, saccheggiando la memoria che ora si faceva viva e sapiente”.
“Quella giovanissima invenzione tornava a brillare come percorso agrodolce, irresistibile per comicità e amarezza, racconto di un ennesimo fallimento d’attore, cui Eduardo aveva messo mano ancora una volta, per riscriverne intere battute, aggiungendo qualche soggetto, da fissare a copione”.
“Così ‘il primo Sik-Sik’, in quell’aprile del 1979 era cresciuto sulle tavole del palcoscenico del San Ferdinando per diventare, a distanza di cinquant’anni, la rappresentazione di un percorso ben più amaro e consapevole, luogo critico di una città crudele, pronta a ridere delle proprie miserie, testimone di un fallimento inevitabile per tradimenti e bugie insostenibili, e dell’incapacità di comprendere e di comprendersi”.
“Tutti al San Ferdinando aspettavamo l’arrivo di Eduardo da giorni. Agli inizi di aprile iniziarono le prove. Eduardo non era di buon umore, le articolazioni gli dolevano e i postumi di una bronchite lo affaticavano”.
“Mi occorre un catenaccio per fare il gioco della cassa, ma un catenaccio di quelli vecchi”.
“Facciamo otto repliche a settimana, una doppia di mercoledì ed una di sabato, come ho sempre fatto”.
"Essere ancora in scena alla mia età, chi l'avrebbe mai detto".

Due piccoli ambienti tappezzati da una carta-parato beige a fiori minuscoli; una poltrona di legno nero; una dormeuse ricoperta di raso marrone. Una piccola toletta color burro, con tre cassetti per lato ed uno, più grande, nel centro. Due sedie, un tavolino, qualche locandina fissata a parete. Un grande specchio, con attorno le lampadine accese e, d’avanti, una tovaglietta bordata di merletto. Una scatola di fazzoletti, un paio di forbici, un pettine, alcuni pennellini, gli occhiali con montatura in metallo e un vassoio di porcellana con, dentro, le matite per arrossare il contorno degli occhi, per sottolineare lo sguardo, per colorare le labbra. Lo stick del fondotinta, la cipria, il borotalco, qualche boccetta di medicinale.
Un tocco nel punto esatto in cui c’è una ruga; il nero steso per ingrandire le sopracciglia, l’appoggio dei baffi sul labbro superiore. Un ultimo sguardo. Poi il “chi è di scena”. Si comincia. Di nuovo, ancora. Per poi sparire: questa volta per sempre.
“Così una sera mi sembrò impossibile pensare che, terminate le repliche di quello spettacolo, non avrei potuto più riascoltare quella voce meravigliosa dire le sue battute fulminanti. Qualche giorno ancora e il volto di Eduardo Sik-Sik sarebbe rimasto nella memoria e nelle fotografie, ma senza la sua voce che pronunciava le parole straziate di un italiano bastardo. Quella non l’avrei più sentita” scrive Giulio Baffi. E continua: “Un piccolo registratore portato in sala, in mezzo al pubblico che rideva beato e applaudiva alle battute fulminanti di Eduardo e dei suoi attori, compì il miracolo. Sarebbero stati vivi ancora e ancora, con quel loro spettacolo”.
Il teatro vive al presente ed il suo inizio è l’inizio della sua fine. Il teatro scompare, per sempre. Questa volta, tuttavia, il teatro ritorna perché torna vivo un suo spettacolo.
Quello spettacolo ridiventa questo spettacolo. Ancora e ancora.

 

 

 

Eduardo De Filippo
Sik-Sik, l'artefice magico (messo in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli nel mese di maggio del 1979)
a cura di Giulio Baffi
contributi di Vincenzo Albano, Emanuela Ferrauto
Napoli, Guida Editori, 2013
pp. 119, con CD audio

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