“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 02 March 2014 00:00

“La ianara” di Licia Giaquinto: una tregenda senza fine

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In principio c’è una lettera dell’ANAS, destinatario Conte Aurelio Tancredi, poi un postino inquieto per la lettera e le dicerie di paese che riguardano il destinatario della lettera. Poco dopo, una bambina morta.
Siamo in Irpinia e i tempi ci sono vicini.
Quando finalmente appare Adelina, la protagonista del romanzo, ha inizio un viaggio a ritroso, in tempi ottenebrati da credenze, superstizioni, riti e magie.


“La notte ha voci che, di giorno, la luce rende mute.
Adesso che più nessuno parla, sono le voci che Adelina ascolta.
[…]
Adelina non sa dove vanno, quelle voci. Se avrà una fine il loro andare. E non sa da dove vengono. Sa solo che appartengono ai morti”

Ianara è Adelina perché ianare sono la madre e la nonna.
Ianare (o janare) sono le streghe seguaci di Jana (Diana): hanno poteri magici, conoscono incantesimi, sanno utilizzare perfettamente le erbe, possono trasformarsi in animali.
Le ianare esistono, la gente ci crede, le ianare sono odiate perché creature diaboliche ma poi spesso servono, come quando si deve abortire e le uniche che lo sanno fare sono loro.
Le ianare agitando bacchette di salice di tufo nero parlano coi morti e riferiscono, ma la madre e la nonna di Adelina non dicono tutto, che certe cose fanno paura, troppa paura. La gente dai morti vuole sapere pure il futuro, e loro, le ianare, fanno quello che possono, anche perché “ciò che sanno le anime si ferma nel punto esatto in cui l’angelo della morte gli ha staccato il filo che le legava al corpo” .
Adelina, figlia e nipote di ianare, è sottoposta a un’educazione stregonesca faticosa. Cresciuta senza padre e con una madre additata e insultata sempre (salvo essere utile nelle situazioni più incresciose), la bambina odia sommessamente il suo paese e a un certo punto non ce la fa più e va via, via da quel mondo gretto e bigotto. Non che abbia deciso di dare una svolta alla sua esistenza: “Adelina ha fatto solo quello che andava fatto. Ha seguito il filo del destino che si srotolava giorno dopo giorno come un piccolo gomitolo tenuto in mano da chissà chi”.
Il destino è quell’elemento-cardine che rafforza la struttura circolare del romanzo di Licia Giaquinto, in ottemperanza ai ritmi ciclici di queste terre tanto distanti dalla modernità. E infatti certe superstizioni sembrano essere ancora lì a germinare in maniera sotterranea e poi, quando meno te l’aspetti, a venire fuori e a sconvolgere le vite anche di chi non vi avrebbe creduto mai. Siamo nei pressi di quei luoghi leggendari in cui si ergeva l’albero di noce sotto il quale si tenevano consessi stregoneschi:

“Vicino alla città di Benevento
[…]
Una gran noce di grandezza immensa
Germogliava di estate e pur d’inverno;
Sotto di questa si tenea gran mensa
Da streghe, Stregoni e diavoli d’inferno.
A far del male solo ivi si pensa,
Approssimare niuno si può sino all’intorno.”
(Storia della famosa noce di Benevento, cito da Giuseppe Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Boringhieri, 1980, p. 188)

Giaquinto ci mostra il cortocircuito in atto tra realtà e substrato folklorico (le ianare sono entità tipiche dei luoghi da lei descritti) attraverso la storia di Adelina che non sembra una strega ma semplicemente un essere selvatico, di poche parole e tante, troppe emozioni represse. Ella è una sguattera, ma presto diventa la regina di un palazzo in cui lei e il Conte sopravvivono - seppur in un loro modo cupo, da estranei al mondo - mentre, col tempo, muoiono moglie e discendenza di lui e servitù seguendo il corso di una decadenza tremenda. Questo “diavoletto del focolare”, come l’avrebbe definita Jules Michelet, difetta in contatto, in empatia, ma forse ama, a modo suo, e a un certo punto sembra cader vittima di un ritorno di femminilità, proprio lei che mai avrebbe voluto essere donna:

“Adelina era certa che non sarebbe diventata mai donna, che non sarebbe cresciuta. Perché aveva capito che diventare donna significava sangue.
Succederà pure a te, le disse un giorno sua nonna, che come sempre sapeva ogni suo pensiero.
E infatti successe anche a lei.”

Emerge una visione della femminilità totalmente negativa: le donne sono vittime delle loro ataviche debolezze di genere e del “dominio maschile” (che poi, Bourdieu insegna, è il “dominio maschile” ad aver segnato i limiti tra/de i generi); tra streghe e bigotte, donne violente e violentate, non si salva nessuna.
Poi c’è il ritorno al principio. Dobbiamo sapere del postino, della lettera, del paese dopo tutta questa storia. E della bambina morta, le cui tracce sono ripercorse come in un romanzo noir: c’è un assassino da scoprire e una tensione gestita dalla scrittrice con rara efficacia.
Ma il ritorno al principio è soprattutto il ritorno a un mondo perduto che ancora pulsa, come se sempre, la modernità, dovesse fare i conti con lucertole a due code: che sia impossibile spezzare il cerchio? La risposta è nella fine, simbolica, del postino che reca con sé la lettera dell’ANAS: laddove l’autostrada dovrebbe decretare il mutamento sociale e culturale, il postino, una sorta di testimone della modernità, si ferma nel palazzo del Conte, dove tutto è immobile, incluso il tempo.

 

 

 

Licia Giaquinto
La ianara
Milano, Adelphi, 2010
pp. 193

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