“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 22 February 2014 00:00

“Il messia” di Ennio Flaiano

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Gli italiani, un popolo di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori.
Una boiata, ho sempre pensato (e l’ho scoperto da poco che tale adulante definizione è l’iscrizione posta sulla facciata del Palazzo della Civiltà Italiana a Roma, esemplare fulgido dell’architettura fascista e della sua retorica visiva e verbale) a cui, per dare un minimo di completezza, bisognerebbe aggiungere anche “di pazzi [e di pecore]”.
La frase mi è venuta in mente leggendo Il messia di Ennio Flaiano.

Don Oreste D’Amicis, vanto e lustro del comune di Cappelle di Tavo, in Abruzzo, luogo che gli diede i natali, era un pazzo, ma in qualche modo un artista, un eroe e forse un santo.
Flaiano recupera le notizie biografiche da un opuscolo scritto nel 1890 da un folklorista, Antonio De Nino, citato anche nel racconto, ma immagina che sia il nipote di Don Oreste, anche lui parroco di paesello, a raccogliere informazioni e a raccontare le gesta del suo consanguineo.
È una voce melanconica e ironica, quella del narratore in prima persona, la voce del vecchio parroco:
“Sono talmente vecchio che, per dirvene una, stamattina tirando i piedi fuori dal letto sono rimasto incantato, non saprei dirvi per quanto tempo, a guardare la quercia del mio orto che protende i suoi rami più alti verso l’unica finestra della mia stanza […]. E così mi sono accorto che un albero può assumere la stessa importanza di una persona viva. Io sento per questa quercia, che durante settantadue anni ho visto fiorire e rassodarsi, una venerazione familiare, e tra noi un legame tenace, un amore completo, vivo e cupo come le sue foglie e, purtroppo, come i miei rimorsi: una reciproca fiducia senza reticenze.
Sarei rimasto a meditare sulla natura di quest’albero se un primo starnuto non mi avesse avvisato del pericolo che corre un vecchio a stare coi piedi nudi sul pavimento.”
Sembra quasi voler giustificare la consegna ai posteri della figura del suo zio, un pazzo (“Probabilmente oggi Don Oreste verrebbe messo in un manicomio”) ma anche un eroe, in qualche modo, di fronte al quale la sua vita sembra come quella della quercia.
“Ma quel che si richiede maggiormente ad un messia è che abbia tempo da perdere; voglio dire, che sia capace di astrarsi dalla sua realtà per servire quella degli altri. E invece io fui abbastanza pavido e non negai la mia realtà.”
Il resoconto della vita del messia, che si dipana su due terzi del volumetto, è un pretesto − con tono garbato, misurato ma sottilmente sarcastico e caustico −, per mettere alla berlina un certo modo di vivere la religione: straordinarie in questo senso sono le pagine sulla preparazione dei miracoli, o quelle sui consigli impartiti ai discepoli.
In fondo, ha ragione lui, il nipote di Don Oreste: almeno fino al 1900 “soltanto nelle chiese si poteva soddisfare la disposizione allo spettacolo che l’uomo ha innata”.
Poi, hai voglia.
Mica solo televisione.


 

 

Ennio Flaiano
Il messia
a cura di Emma Giammattei
Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1982
pp. 79

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