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Thursday, 13 February 2014 00:00

La festa dell'insignificanza

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Milan Kundera è oramai considerato tra i maggiori romanzieri europei degli ultimi cinquant'anni. L’interesse internazionale nei suoi riguardi iniziò ben prima dell’Insostenibile leggerezza dell'essere, un vero e proprio cult, ai tempi de Lo scherzo, il libro da lui pubblicato in patria e tradotto in Francia all’indomani della primavera di Praga. Il trasferimento definitivo a Parigi consumerà la… europeizzazione di Kundera. Siamo nel 1975: da allora i suoi romanzi, banditi in Cecoslovacchia, vedranno la luce in francese sotto la supervisione dell’autore.

Mi pare che sia necessario, per ragionare attorno all’ultima fatica, La festa dell’insignificanza ( Adelphi, 2013), partire da questi accenni. Intanto perché, costruita come una pièce teatrale, senza essere pièce, con le tipiche digressioni metaletterarie che avvicinano l’opera dello scrittore di Brno alla saggistica, La festa dell’insignificanza è un divertissement. Uno scherzo, volendo.
Veniamo alla europeizzazione: bisogna essere precisi. Non è che la Cecoslovacchia, oggi Repubblica Ceca, all’epoca dell’esordio letterario di Kundera fosse catapultata geograficamente in Asia o Africa ma sappiamo del suo destino geo-politico. L’essere Stato satellite dell’Unione Sovietica aveva conseguenze, come noto, militari e di sovranità (limitata). Meno noto è che ne aveva anche artistiche: chiunque doveva piegarsi al cosiddetto realismo socialista, il metodo di una letteratura comandata, intesa a ricoprire di uno strato di consenso un regime oppressivo. Lo chiarì in maniera adeguata il dissidente Andrej Sinjavskij: "Per impedire agli uomini di guardarsi dentro o di guardare indietro, è necessario costringerli a guardare avanti, verso lo Scopo". Anche se lo Scopo, magari nobile, dell’uguaglianza fra gli uomini e di una società senza classi imperniata sulla giustizia distributiva, era stato contraddetto dallo stalinismo e rimpiazzato dal culto del Mezzo.
Il grigiore burocratico, la seriosità, la pesantezza dell’arte socialista erano l’esatta contraddizione di quella creatura singolare e grandiosa che è il romanzo, nato "come eco della risata di Dio", lo definisce Kundera. Oppure, nel Sipario: "Solo il romanzo ha saputo scoprire l’immenso e misterioso potere della futilità". Una creatura, oltre che delicata e leggera, eminentemente europea. Ecco perché Kundera scrittore, quando emigra a Parigi, può recuperare questa dimensione estetica che è pure geografica.
Il romanzo lo abbiamo inventato noi europei, si inserisce in un solco preciso, da Rabelais a Cervantes per arrivare a Kafka, Broch, Tolstoj, Gombrowicz, Flaubert, Musil, Sterne. Kundera stesso. Il quale ricorda che l’opera d’arte, qualsiasi testo, in fondo non è che un testamento che l’autore fa oggetto di un losco tradimento. Il romanzo è qualcosa di cui si può rivendicare il valore filosofico ed esistenziale. Quando Kundera risponde "No, sono un romanziere" a tre domande − "Lei è comunista?", "Lei è dissidente?", "Lei è di sinistra o di destra?" − rivendica la sua essenza e torna nel seno della tradizione, abbandonando la deriva politico-realistica che pare produrre romanzi ma in realtà li rinnega. A tale proposito si leggano I testamenti traditi e L’arte del romanzo.
Io credo che Kundera, che ammetto di amare più come interprete teorico di questa nostra eredità culturale piuttosto che come artefice della stessa, abbia comunque una grande padronanza della tecnica ed è attraverso artifici costruttivi, sintattici, che arriva a dirci quello che vorrebbe. Il protagonista della narrazione ne La festa dell’insignificanza è un uomo, Alain, che, attraverso l’osservazione dell’altro e l’analisi approfondita di alcune situazioni della quotidianità, arriva alla sua teoria: "gli esseri umani si dividono in due grandi categorie: chi chiede sempre scusa e chi non fa altro che accusare gli altri". Alain è affascinato e turbato dall’ombelico esibito dalle ragazze e medita su questo particolare anatomico concludendo che mentre culo, tette e cosce sono diverse per ogni donna, gli ombelichi tendono meravigliosamente a somigliarsi, dunque a uniformare la bellezza, di conseguenza la seduzione e di riflesso il sentire umano.
Alain, mentre è alle prese con questi ragionamenti, vive con lo spettro di sua madre che lo ha abbandonato da piccolo e che prima di partorirlo ha tentato di suicidarsi gettandosi da un ponte, uccidendo addirittura chi si era tuffato per salvarla. Una cosa atroce che la donna farà di tutto, riuscendoci, a celare al mondo.
Gli altri protagonisti, Ramon, D’Ardelo, Charles e Caliban, sono avvolti da una certa mediocrità. Dentro il testo nel frattempo trova spazio una feroce parodia dello stalinismo da cui Charles vuole ricavare uno spettacolo di marionette: Berija, Zdanov, Kaganovic, Krusciov, Breznev, Kalinin emergono nella loro ridicolaggine, costretti a esprimere il risentimento verso Stalin solo davanti a orinatoi personalizzati. Il più insulso di tutti, Kalinin, è scelto dal capo per ribattezzare niente meno che Königsberg, patria del padre della filosofia occidentale contemporanea: Immanuel Kant. Mentre Leningrado è ritornata a essere San Pietroburgo e Stalingrado Volgograd, Königsberg è rimasta Kaliningrad. Un nome così idiota, originato da un idiota, che peraltro è l’unico del gruppo di fedelissimi a farsela addosso perché ha una prostata come un cocomero, deve nascondere qualche ragione segreta. Ovvero che Stalin, che nel frattempo tiene dissertazioni su Kant e Schopenhauer, sul mondo come rappresentazione e come volontà, prova per Kalinin tenerezza, parola che pare impossibile ricondurre al despota georgiano. Siamo dunque dinanzi a un paradosso utilissimo, atto a dimostrare come sia la più piccosa delle arbitrarietà a dare la misura del potere assoluto. Ecco che si sta scivolando nel comico, nello scherzo.
Ma andando a fondo, se passiamo dal totalitarismo che tentò di schiacciare anche Kundera, caratterizzato da estemporanee volontà e pensiero unico, al mondo libero, lo scenario mantiene le sue crepe: almeno, oltre cortina all’individuo restava la sofferenza, che dai greci in poi è la più alta forma di individualità. Oggi, qui, non resta neanche quella: nell’uniformità globale che Kundera scherzosamente fa scaturire da un omogeneo erotismo ombelicale, trova spazio un sentire opaco che tutto accoglie, l’insignificanza appunto. Prendiamone atto, non ci resta che "imparare ad amarla". Chi può escludere poi che a una festa, dove prevale la massa degli invitati e nessuno spicca, fra un capannello e l’altro, un bicchiere di vino e una donna, o un uomo, disponibile non si finisca non dico a letto ma almeno per divertirsi?

 

 

 

Milan Kundera
La festa dell'insignificanza
traduzione a cura di Massimo Rizzante
Milano, Adelphi, 2013
pp. 128

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