“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 08 February 2014 00:00

Un pieno di dubbi

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Racconto di sé per interposto se stesso. Autobiografia in prima persona ma operata per rimando. Ricordo d’insieme costituito per frammenti, che vengono offerti tra fondo teatro e ribalta. Padre, infanzia, studi, amicizie, esperienze giovanili, primi lavori, prime mortificazioni, prime umiliazioni. La perdita della propria dignità, il desiderio di evasione, di cambiamento, di fuga. L’azzardo dell’Arte, la creazione di una figura, la funzione di una maschera. La malattia. L’amore e la stanchezza per il teatro. La caduta, il recupero, di nuovo l’amore per il teatro. Una vita da clown: prima a Napoli, poi a Parigi. Col senso allegro della differenza, dello scarto, della lontananza. Col senso amaro della differenza, dello scarto, della lontananza.

Bastavamo a far ridere le mosche è un monologo plurivocale; è una tentata esposizione della propria esistenza; è una trama che si compone per lacerti o brandelli segreti, tenuti al buio o sul fondo del proprio cassetto e adesso dati alla luce e posti in sequenza per farne collage, mostra, messa in evidenza sul palco. “Poi sono diventato un regista/ ho cominciato a costruire immagini/ creare spazi/ storie/ visioni laceranti/ visioni poetiche” dice ad un punto Sergio Longobardi, quasi offrendo esegesi del suo stesso spettacolo, composto proprio da immagini, spazi, storie e visioni incastonate nel nero di sala, nel vuoto di scena, tra silenzi prolungati che rendono il ritmo blando, rallentato, quasi strisciante.
“Papà/ ti dirò/ quello che per orgoglio/ non avrei mai osato dirti”. Comincia così Bastavamo a far ridere le mosche. Comincia dichiarando il proprio intento: parlare a chi non c’è, parlare allo spettro passato, parlare al volto trascorso, alla persona ora assente, al genitore che sfuma e che lascia, parlare a colui al quale non si è parlato ed a cui ci si rivolge adesso, in ritardo, aiutandosi col proprio trucco, il proprio ruolo, il proprio mestiere.
“Papà/ ti dirò/ quello che per orgoglio/ non avrei mai osato dirti”, dice senza dire Sergio Longobardi, poiché noi udiamo le parole ma le labbra rimangono ferme, immobili, chiuse. Pensiero, intenzione, desiderio privato ma urgente, espresso coi gesti, la micromimica del volto, una voce registrata a fare da coniugazione sonora tra prima e terza persona, a fare da racconto mediato di un racconto diretto, a fare della condivisione tra Io ed il pubblico una traduzione al pubblico di ciò che Io ha esigenza di dire.
“Papà/ ti dirò/ quello che per orgoglio/ non avrei mai osato dirti”. In questa prima frase e nel come essa viene resa vi sono, ad un tempo, il tentativo e i suoi limiti, le ipotesi e gli esiti, le urgenze e gli intoppi.
Da un lato comincia un’offerta privata fatta per condividere e per coinvolgere, attirando “il silenzio del pubblico/ che ti guarda attento”; dall’altro – tuttavia – si ha l’immediata percezione di una freddezza di metodo, di una stilizzazione pantomimica, di una ricercata espressione formale che rifinisce ed inquadra, talora appiattisce e allontana, impedendo partecipazione emotiva, contatto, comprensione. Il racconto rimane un racconto, ma come svolto senza fiato, senza guardarsi davvero, senza mai avere la sensazione che la distanza tra la platea ed il centro del palco sia accorciata o ridotta.
Io mima, accenna, riduce esperienze e ricordi in piccoli sketch, in episodi minuscoli (la sparatoria cui ha assistito, la barzelletta di un amico, la scuola ridotta a diplomificio); ricama queste esperienze giocando con le cianfrusaglie (la tromba, il naso rosso, il cappello, il fumetto silenzioso, gli occhiali a più vetri, la valigia, il piumino); le rifinisce poi componendo smorfie fisse o movimenti appena iniziati (“Ho dormito in discesa”: la mano sinistra in verticale; “Sono andato al Consolato per farmi consolare”: un’austera parodia d’espressioni dopo la coreografia braccio-gamba-piede) ma chi assiste sembra rimanere inerte, passivo, lontano quanto si è lontani dal fatto quando, al fatto, non si assiste direttamente ma si lo si apprende da un testimone.
Per questo usiamo la parola “straniamento”: perché Bastavamo a far ridere le mosche non appare davvero la condivisione di una vita, pur narrata in forma pulviscolare, ma un’esposizione alla seconda, una resa obliqua, quasi indiretta, in differita. Non è un caso che a dare forma/sostanza al tentativo di scena intervengano una pluralità di elementi altri dalla parola e dal gesto attoriale: le voci fuori campo; le proiezioni di contributi in primo piano; le composizioni musicali (esempio: Ottocento di De André).
Volendo forzare la recensione e cercando (per chiarire) un paragone teatrale possibile, viene in mente – per questo clochard/vagabondo/pagliaccio – l’ostentazione intimo-teatrale di Pippo Delbono (l’insistere biografico, la documentazione in accumulo, la tortuosa resa acronologica e l’offerta del privato, la testimonianza del particolare e l’uso di pause, lentezze, calme cadenze) di cui sembra riprendersi certa fattura di base (si pensi all’impiego dei video, ai passaggi danzati, a certa frontalità da confessione o dialogo) senza che se ne ripeta la capacità di generare immediatezza partecipata, com-patimento, assenza di filtro.
Non è un caso che i momenti più caldi di Bastavamo a far ridere le mosche siano le proiezioni dei brevi filmati paterni nei quali, chi parla, davvero parla in prima persona.
Non è un caso che il momento più riuscito, sul piano testuale, sia quello nel quale il rapporto/confronto col padre diventa un contrasto (tra la generazione che deve alla DC un lavoro, uno stipendio, la stabilizzazione di sé e del proprio tenore di vita, e la generazione di chi deve alla DC – ed agli anni della DC – la propria impossibilità a vivere: “Gava ‘a buonanima” dice il padre; “Corruzione, clientelismo, abuso di potere, mafia di Stato/ Era la DC/ La balena bianca che comandava tutto” dice il figlio).
Non è un caso che, proprio in questo punto dello spettacolo, lo stesso Sergio Longobardi senta l’esigenza di rompere l’invisibile parete che lo separa dalla platea aggiungendo, al testo, un inciso imprevisto (“Quando racconto queste cose a Parigi non ci credono; so che a Napoli sembra la normalità…”): come a voler stabilire una confidenza; come a voler incrociare lo sguardo; come a voler finalmente sentire un contatto, un pulsare vivo e in comune, una conferma di presenza e attenzione.
E se il finale rende Bastavamo a far ridere le mosche anche una dichiarazione di naturale fallibilità paterna (chi è stato figlio del proprio padre diventa padre della propria figlia: subiti i rimproveri per il suo darsi al teatro, adesso si scopre a rimproverare chi vuol darsi all'osservazione delle nuvole) rimane la sensazione che – testo e sua dimensione/spettacolo – abbiano i pregi e i difetti di certa produzione lirica: capacità allusiva, propensione simbolica, gusto aforistico, certa moralità condivisibile data in una forma emblematica, allegorica, figurata ma anche la forzatura dei suoni e delle immagini, l’oscurità di certi passaggi, l’assenza di subitaneità, alcune incertezze nella funzionalità del meccanismo e nel suo andare spedito, naturale, senza difficoltà.
Crogiuolo di figurazioni, puzzle di momenti, concatenazione di fisime e di dolori, di gioie e di assilli, di tormenti e ricordi, lascia chi scrive con un pieno di dubbi, tra il desiderio di comprendere ancora e l’ansia di non aver compreso abbastanza.
Capita con certa poesia, talvolta capita anche a teatro.

 

 

Bastavamo a far ridere le mosche
di Sergio Longobardi
traduzione Celine Frigau ed il collettivo "La langue du Bourricot" de L'Université Paris 8
regia Sergio Longobardi
con la collaborazione di Mirko Artuso, Costantino Raimondi
con Sergio Longobardi, Michael Nick
voci off Agata Nunziante, Sergio Longobardi
in video Salvatore Longobardi
musiche di scena Michael Nick
luci Manon Geffroy
editore del testo PUM de Toulouse Nouvelles scenes-Italien
fotografie di scena Hind Oukerradi
produzione Compagnia Compagnie Babbaluck/ Theatre du Parc de la Villette
durata 1h
Napoli, Galleria Toledo, 6 febbraio 2014
in scena dal 6 al 9 febbraio 2014

 

 

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