“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 07 January 2013 14:12

Incubo partenopraghese

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“I nostri tribunali non cercano la colpa, sono attratti dalla colpa”. Ma qual è il tribunale che perseguita Josef K.? Chi risiede al vertice di questa piramide ordalica che pare aver emesso sentenza inappellabile (e caliginosa) prima ancora di qualsivoglia istruttoria?
Inutile affannarsi ad imbrattar risposte, ad imbastir ragionamenti sul filo della logica, a meno che per logica non si voglia assumere quella che, con l’aggettivo “kafkiano” apposto di fianco, assume di per sé i connotati tipici dell’ossimoro.

D’altronde, mettere in scena Il Processo – o sue libere rivisitazioni – non è operazione che si effettua al servizio della verità, non si istruisce messinscena per giungere a sentenza con tanto di dispositivo. Mettere in scena Il Processo – in questo caso semplicemente, metonimicamente K., sua libera, sintetica e raffinata rivisitazione – vuol dire filtrare Kafka attraverso il setaccio dell’arte teatrale, offrirne un punto di vista “artistico” e “deformante”, laddove arte e deformazione altro non sono che specchi plastici attraverso cui l’occhio contemporaneo ridisegna il classico. E lo fa in una messinscena di grande acume drammaturgico, di notevole impatto scenografico, sintesi pregnante che nulla tradisce del testo di partenza, ma che ha il pregio di reinventarlo, riplasmarlo sul proprio contesto di riferimento, trasformando i meandri praghesi degli asfittici cunicoli tribunalizi negli altrettanto suppurati vicoli napoletani, rigurgitanti di strepiti e vocalismi neomelodici.
Il tutto incastonato in una scenografia surreale, che intabarra tutta l’azione teatrale nel filtro opaco di un impianto che invade la scena con una bianca piramide di parallelepipedi velati; un impianto che nasconde nitidezza alla visione, suggerendo invece il senso di un che di schermato, inaccessibile alla piena intelligenza e comprensione (e potremmo avocare a ciò testimone il signor Josef K.). Perché mai troppo districabile è ogni dedalo onirico.
K. è costruzione che nega evidenze, in tutto il suo svolgersi, nascondendo se stessa dietro mai violati paraventi e nascondendo i suoi personaggi dietro uniformi, travestimenti e maschere, addirittura trasformando taluni di loro in pupazzi di pezza.
K., ovvero la trasformazione del Processo kafkiano in una allegoria ulteriore, in una grande mascherata teatrale; teatro dell’incubo, in cui gli incubi prendono corpo e si disegnano entro un paesaggio surreale e claustrofobico, che la candida piramide scenografica contribuisce ad illustrare con la veridicità propria di quei sogni vividi che scuotono i sensi al risveglio, lasciando chi li ha fatti sospeso tra la sensazione d’aver sognato ed il timore d’aver realmente vissuto, nella frastornazione che sfuma i contorni fra verosimile ed assurdo.
La claustrofobia mostrata in tralice illustra un mondo distopico, in cui è sinistro riconoscere realtà contigue al presente, in cui si realizza una materializzazione di spettri onirici riscontrabili nelle spaventose mascherate del presente, di ogni presente.
Il tribunale che non c’è, che è dedalo inestricabile dissimulato tra anonimi casermoni, in cui si aggirano figuri improbabili, tipi ridicoli, legulei di oscura fama, faccendieri bislacchi e meschini impiegatucoli, è luogo-non luogo in cui prendono corpo i fantasmi della psiche, le paure più recondite dell’animo umano.
Un animo umano che consuma la propria malattia, che è consumato dalla propria malattia, un destino segnato che volge rapidamente, compulsivamente, ineluttabilmente a sentenza. E a nulla vale l’inane affannarsi alla ricerca d’una scappatoia: come un magnete, la colpa attrae non solo i carnefici, ma anche la vittima, sballottolata tra incubi e sogni ingannatori, ansante in una donchisciottesca lotta contro le leggi oscure di una società perversa, le cui pale mulinano abiezione come mannaie senza posa.
Dalla platea, a consolar l’infelice destino segnato di Josef K., l’univoca sentenza della giuria popolare saluta l’ultimo colpo di mannaia, a coronamento dell'ottima mascherata, col fragore dell’applauso.

 

 

K.
di Roberto Solofria

liberamente ispirato a Il Processo

di Franz Kafka

regia Roberto Solofria

con Ilaria Delli Paoli, Antimo Navarra, Francesco Magliocca, Roberto Solofria

scene Antonio Buonocore

costumi Ortensia De Francesco

maschere Vesna Sansone

musiche Paky Di Maio

luci e foto Marco Ghidelli

Caserta, Teatro Civico 14, 4 gennaio 2013

in scena dal 2 al 4 gennaio 2013

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