“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 29 January 2014 00:00

Maurice Blanchot: l’eterna ripetizione e la lunga morte

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Maurice Blanchot è un pensatore, scrittore e critico letterario francese che in Italia ha avuto scarsa fortuna. Poche opere edite, qualche libro fuori commercio da anni, la speranza ancora vana di sfogliare titoli − Lo spazio letterario (Einaudi, 1967) e La scrittura del disastro (SE, 1990) su tutti −  che si negano anche al costante impegno dei più determinati cercatori di libri.
Blanchot si cela, non si fa conoscere, si ignora.

Della sua opera, in commercio, restano briciole: il meglio, in Italia, è come sparito. La strana selezione naturale della nostra editoria costringe all’oblìo una delle voci più interessanti, per quanto complessa e sfaccettata, del panorama culturale francese del Novecento. Avesse avuto il fascino maledetto di un Bataille, per fare un nome non a caso (c’è stata amicizia tra i due, e tanto vicina è stata la loro opera), fosse stato più presente nel dibattito culturale e/o politico (eppure ha appoggiato la contestazione del ’68), non saremo qui a parlare di un Blanchot ai più sconosciuto.
Nel 2003, Blanchot, classe 1907, muore come per progressivo indolore impercettibile svanire, seguendo il percorso della sua scrittura sempre più oscura e frammentaria, e Jean-Luc Nancy ci dona il ritratto di un uomo che si è come ritirato nella morte molto prima della fine: “Morendo in un simile ritiro, Blanchot ha prolungato nella sua morte il ritiro della propria vita; ne ha mantenuto la spoliazione, senza drammatizzarla ma senza cedere in nulla rispetto alla sua semplicità lineare né a quanto, in essa, confina con la povertà e l’anonimato. […] Si tratta di considerare che Blanchot nella sua morte ha tenuto e tiene teso per noi questo morire, parola che definisce per lui il lavoro sconfortante della scrittura e del pensiero: ‘morire’, passare senza sosta oltre il limite del senso significabile, lasciare così illimitarsi la finitezza senza peraltro riappropriarsene”.
(La mort de Maurice Blanchot, in “Libération”, 5 marzo 2003).
Andando a ritroso, ci ritroviamo dinanzi a due racconti giovanili editi nel 1996 e, per fortuna, riediti nel 2010 da parte della casa editrice Cronopio: L’idillio (1935) e L’ultima parola (1936), raccolti entrambi ne L’eterna ripetizione (1983).
Nel primo il protagonista è uno “straniero” – colui che “viene da fuori”, come lo definisce l’autore in Après coup, breve saggio che chiude il libro – ante litteram (Lo straniero di Albert Camus è stato pubblicato pochi anni dopo, nel 1942): un immigrato, Akim, che viene accolto/recluso in un ospizio gestito da una giovane coppia infelice e incompresa. Nel secondo invece si narra del “naufragio totale” del linguaggio e, di conseguenza, del mondo partendo dalla privazione delle “parole d’ordine”.
L’idillio in particolare pare prefigurare l’orrore dei campi di sterminio, ma Blanchot a tal proposito con sconcertante lucidità dice cosa che ne limita la portata oracolare a favore di una verità sgradevole: “se l’immaginario rischia un giorno di diventare reale, è perché ha esso stesso limiti abbastanza angusti e prevede facilmente il peggio perché il peggio è sempre la cosa più semplice, che sempre si ripete” (p. 84).
In Après coup Blanchot, prendendo le mosse proprio da L’idillio, si sofferma sull’impossibilità di narrare dopo Auschwitz in quanto la sopravvivenza dei testimoni dell’impossibile “non è più vita, è rottura dell’affermazione vivente, è prova che quel bene che è la vita ha subito il danno decisivo che non lascia più nulla intatto” (p. 86). In fondo la šo’ah, come hanno concluso S. Felman e D. Laub in una ricerca presso l’Università di Yale, è un “evento senza testimoni”: “di essa è impossibile testimoniare tanto dall’interno – perché non si può testimoniare dall’interno della morte, non vi è voce per lo svanire della voce – quanto dall’esterno – perché l’outsider è escluso per definizione dall’evento” (Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, 1998, p. 33).
Giunto quasi alla conclusione, Blanchot usa una formula che ha il peso di un giudizio definitivo ed ineludibile: “in qualunque data vanga scritto, ogni racconto precederà Auschwitz. Forse la vita continua” (p. 87), e cosa voglia intendere lo scrittore, con quel “forse la vita continua”, è cosa che ha forse trovato una risposta nel suo lento peregrinare verso una sommessa fine.


Maurice Blanchot
L’eterna ripetizione e “Après coup”
(1983)
traduzione di Marina Bruzzese
Cronopio, Napoli, 2010 (I edizione, 1996)
pp. 90

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