“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 31 January 2014 00:00

Una scalata verso il paradiso

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Prima di iniziare vorrei menzionare brevemente Tommaso Pincio, lo scrittore che si è occupato della bellissima prefazione al libro di cui parlerò: Prigionieri del Paradiso (1966). Se non fosse stato per lui, probabilmente non l’avrei mai portato a termine. Pincio, infatti, nella prefazione ha inserito una lettera di incoraggiamento indirizzata ai lettori, o meglio agli acquirenti del libro (che possono essere molto più numerosi rispetto ai primi), in cui ci mette al corrente di un aneddoto. William H. Gass prima di questo romanzo aveva scritto una raccolta di racconti, Nel cuore del cuore del paese (pubblicato poi nel 1968) il cui manoscritto, attraverso un giro tortuoso, arrivò nella mani di Raymond Carver; ebbene, pare che a Carver non solo non piacque, ma non lo finì nemmeno “perché non riuscì a capire cosa volesse dire l’autore”. Il primo avvertimento di Pincio al potenziale lettore è proprio questo: “Evitate di commettere lo stesso errore di Carver: ve lo dico unicamente per il vostro bene”.

Subito dopo fa un secondo appello e così, sforzandosi di essere più rassicurante, dice che ‘probabilmente’ (e lo sforzo lo si coglie proprio nel tono dubitativo), si incontrerà ‘qualche’ difficoltà nella lettura, ma “non desistete!”. Bene, questo aneddoto iniziale è più che determinante come incentivo perché costituisce il pingue montepremi della vincita che spetterà al lettore che taglierà il traguardo del libro: battere Raymond Carver sul suo campo e con lui che giocava in casa. Non so se è poco. Anche se poi, vi assicuro, quando taglierete il nastro, di Carver ve ne sarete già dimenticati, mentre avrete ben chiaro quale fosse il vero premio. Il romanzo “è” il Premio.
Prigionieri del Paradiso è un libro che si presenta come una vetta da affrontare in verticale più che una passeggiata in collina; voi siete alle sue pendici con zainetto Invicta e scarpette da ginnastica e l’ombra minacciosa della montagna di fronte vi costringe ad alzare lo sguardo e subito dopo a deglutire pensando: “forse sarebbe stato meglio se avessi indossato gli scarponcini da trekking o di pelle di foca”. Al primo passo si stacca una valanga di nomi e avvenimenti giusto accennati, come quando si ricordano vicende a cui abbiamo assistito o che conosciamo benissimo, e che quindi è possibile rievocare per sommi capi e con poche parole chiave. Peccato, però, che il libro sia appena iniziato… ma niente, lui, Gass, che dovrebbe farci da guida, procede con l’andatura implacabile di un Reinhold Messner: chi non è all’altezza della scalata viene lasciato agonizzante lungo il cammino. “Only the brave”, doveva essere il motto che continuava a ripetersi mentre buttava giù le prime quaranta pagine. Nel mio procedere arrancando, in effetti, mi è sembrato di scorgere qua e là i cadaveri di quelli che si sono arresi, forse perché facevano parte di quella categoria di lettori che, per evitare ogni sorta di spoiler, le prefazioni le leggono solo a libro terminato, oppure perché non sono riusciti ad arrivare alla pag. 40, quando Israbestis Tott spicca il volo – e noi con lui – perdendosi con i suoi pensieri in una carta da parati che diventa una cartina geografica, le cui pieghe e linee disegnate dall’usura e dall’umidità formano una debole traccia di una geografia misteriosa: scoloriture che diventano campi di frumento, una crepa che sfocia in un vasto mare e uno strappo nella carta da parati che richiama, inconfondibilmente, una linea ferroviaria. Nelle giornate migliori, Tott riesce anche ad abbandonare la parete, dalla quale tutto sempre comincia, per andare a fare una bella pescata in una scheggiatura di intonaco.
Già da questa altitudine è possibile intravedere il paradisiaco panorama che si potrà scorgere sulla vetta, e da questo momento in poi il passo del lettore si fa, finalmente, più sicuro.
Quello di Israbestis Tott è il primo dei tre punti di vista a cui corrispondono le tre parti del libro: tre modi di parlare, sentire, pensare e raccontare la stessa cosa, ossia come si svolge la vita a Gilean, una sperduta cittadina lambita dal fiume Ohio, prima, durante e dopo l’arrivo di un personaggio di nome Omensetter che, inconsapevolmente, con la sua sola esistenza, ne ha stravolto gli equilibri in maniera anche drammatica. Sebbene Omensetter fosse un uomo onesto, sembrava essere sprovvisto di una qualche vita interiore, il suo modo di vivere in perfetta armonia con la natura gli forniva una dose di fortuna talmente alta da fuoriuscire da ogni spiegazione probabilistica ed era questa sua fortuna a calamitare su di lui le attenzioni, non sempre benevole, dei concittadini. Omensetter era un uomo che generava interesse così come generava un’ombra.
Israbestis Tott è un 'raccontastorie' fenomenale, uno di quelli che ti siederesti ad ascoltare per giornate intere, non si ferma mai, è inarrestabile, e la fine di una storia gli fornisce sempre lo spunto di un nuovo inizio. La sua versione dei fatti del giorno dell’arrivo di Omensetter è come tutti gli altri suoi racconti, al limite del lisergico: “Brackett Omensetter. Non è un nome che possa significare qualcosa per voi, immagino, ma alcuni di noi sono ancora al mondo, come foglie secche, immagino – chiocciò Israbestis disperatamente – che erano qui quando Omensetter arrivò con il suo carro in paese. Non era mai accaduto niente di simile. Non qui. Niente di simile accadrà mai, credo io. Omensetter, dunque... era...".
In Omensetter vedeva un uomo grosso e felice, e riteneva che la sua fortuna, probabilmente, consistesse nell’essere in grado, nonostante la sua mole, di perdere la pesantezza della vita.
Anche Henry Pimber diceva che Brackett Omensetter fosse un uomo robusto e felice, e che in tutto quel che faceva si percepisse tanta semplicità da sembrare un miracolo. Quello straniero era nudo dinanzi al cielo, “sapeva fischiare come fischia il cardinale sulla neve o ciurlare come il timido culbianco che si alza dal nascondiglio, o essere l’allodola che trilla nel cielo. Conosceva la terra. Immergeva le mani nell’acqua. Aspirava l’odore pulito del pino. Ascoltava le api. E rideva di una risata profonda, sonora, ampia e felice ogni volta che poteva... vale a dire spesso, a lungo e con gioia”.
Henry Pimber, invece, era un uomo debole e infelice, non rideva mai perché non aveva nessuna valida ragione per farlo, non aveva figli ma aveva una moglie caustica con un ruolo determinante per la sua infelicità. Decise però di non lasciarsi prendere dall’invidia per il fortunato forestiero, scelse piuttosto di lasciarsi dominare dalla sua presenza: più che un modello ne fece un sogno nel quale era intenzionato ad entrare. Ma quel sogno fu la sua rovina.
Il reverendo Jethro Furber, il predicatore, non aveva né invidie né sogni sulla fortuna di Omensetter. Lui si limitava ad odiarlo.
Il reverendo, era stato un bambino che “cercava il terrore come se fosse stato un fiore dal profumo soave”, e così i genitori avevano cercato di allontanarlo dalle sua abitudini atroci e innaturali, vietandogli tutti i luoghi pericolosi o che in qualche modo potevano agire sulla sua indole malata come un ricostituente; quindi, niente stazioni, muri, dirupi, funerali, cimiteri e, soprattutto, niente letture devianti. Una sola lettura gli fu lasciata, forse per ignoranza o forse per buona fede. Ma come potevano sapere quei poveri diavoli dei genitori di Furber che, nelle mani del loro figliolo, la Bibbia sarebbe stata la fonte generosa dalla quale abbeverarsi del male più puro, antico e legittimo? E fu così che Jethro Furber era diventato uomo di chiesa. Blasfemo, corrotto e bigotto come solo un colto teologo riuscirebbe ad essere, perché non è necessario credere per essere bigotti e Gass ce lo ricorda: “poiché in nome del cielo era stato intollerante con imparzialità, puritano per il proprio piacere, e zelante per noia”.
Dopo aver costretto la sua voce a genuflettersi con umiltà davanti ai fedeli, si garantì il loro ascolto perpetuo e indiscusso, ottenendo il dominio e il comando a furia di  fissarli “come si faceva con i cani”, e da quel pulpito cominciò a predicare il male, esercitando la sua arte su una moltitudine di argomenti sacri, e servendosi della parola si avvinghiò ai loro cuori come edera astiosa. Tempo fa mi persi nella riflessione su una frase bellissima riferita ad un grande scrittore (David Foster Wallace): “La sua unica religione restava il linguaggio. Nient’altro infatti aveva il potere di plasmare e controllare le masse. Il potere di Dio, in confronto al linguaggio, era modesto”. Bene, credo di aver capito a pieno quello che intendeva dire solo dopo aver fatto la conoscenza di Jethro il predicatore e del suo potere oscuro.
Furber ama la parola più di ogni altra cosa: “notate con quanta soavità e musicalità la pronuncio, la mia lingua sonora. Perché non dovrei ammirare la mia abilità come una bagascia qualsiasi? Non sono disonesto in tutta onestà?”. Ma quell’uomo, il forestiero, era l’unico ad essere immune alle sue parole, nessun discorso umano avrebbe potuto scalfirlo e privarlo della sua fortuna, e questo pensiero lo avrebbe condotto alla pazzia.
Un libro sulla religione del linguaggio e sul potere della parola e dunque, come in effetti già ci aveva avvertiti Wallace, “un libro religioso”. E non c’è dubbio che sia Wallace che Gass avessero aderito allo stesso credo, con idee molto interessanti riguardo al paradiso.


 

 

 

William H. Gass
Prigionieri del Paradiso
(1966)
traduzione di B. Oddera
Minimum Fax, Firenze, 2008
pp. 395

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