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Wednesday, 25 May 2022 00:00

Fondamenti del Teatro: il doppio ricordo di un critico

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(un ricordo)
I legami d’affetto e di stima per Roberto De Monticelli probabilmente non daranno un tono obiettivo alle mie parole. Non mi interessa esserlo.

Mi interessa soltanto testimoniare una lunga amicizia teatrale, un continuo lavoro comune che ha unito Roberto De Monticelli a me, seppur a distanza, uno al di qua della ribalta, uno al di là, in una passione esclusiva per entrambi.
Ciò ce ha dato un tono forse unico alla nostra storia è la fraternità di un amore di palcoscenico – gli amori del palcoscenico sono i più tenaci tra tutti, sempre – che sono la scomparsa di De Monticelli ha potuto rendere ricordo e rimpianto. Una certa sera il sipario si è aperto, io ero là, in quinta, gli attori recitavano come sempre sul palco e la poltrona di Roberto, nel caldo misterioso della platea, era vuota. E tutto continuò come sempre, tutto continua anche adesso come sempre, perché il teatro è impietoso: vita riassunta che si rappresenta e si rappresenterà finché esiste l’uomo. Non ho mai avuto dubbi sulla perennità del Teatro. Lo amo perché è effimero ed immortale. Di noi due dunque, ancora per qualche attimo, io solo continuo adesso a ripetere il rito. Altri nel mondo lo ripetono e lo ripeteranno. Ma questo non basta a lenire un sentimento di mancanza umana, nella glorificazione di un’arte che è così tenue, così indecifrabile.
Roberto, figlio di attori, parve condannato subito a questa avventura dello spirito che è il Teatro. Si trattava semplicemente di vocazione, che lo portò, lui letterato finissimo, a tradire in un certo senso la purezza della letteratura per il torbido mestiere del critico teatrale, scelto come atto d’amore, appena appena cosciente. Eppure il lavoro di De Monticelli è comunque un insieme di critica e di scritto letterario – parlo qui di stile, di grazia, di luce, che nessun critico della sua generazione ha conquistato così pienamente quanto lui.
Parlare di un critico per un teatrante, eternamente criticato, vissuto anche per il giudizio, l’amore e l’indifferenza, ance l’odio talvolta, degli altri, è quasi contro natura. Non perché non possiamo essere obiettivi – amiamo quelli ce scrivono bene di noi, non amiamo quelli che parlano male o peggio, non parlano affatto di noi – ma perché il critico di teatro è (dovrei dire, per il più delle volte, “dovrebbe essere”) – una nostra testimonianza, una nostra presenza. Perché alla critica e dunque al critico noi leghiamo il senso di tante nostre avventure di scena e, assieme a quel che resta negli occhi degli spettatori (se qualcosa gli resta), la memoria di noi stessi e del nostro lavoro. Ed è molto difficile guardare se stessi, parlare di sé, capire di sé veramente, approfonditamente. Per il teatro e i suoi servi c’è una specie di vaneggiamento, più o meno lucido, nell’atto teatrale. Ma sappiamo poco della “nostra” teatralità. Ci sfugge tra le dita. Ed ecco allora che il critico ce la trattiene, talvolta ne svela un senso a noi sfuggito, ci aiuta a sapere ciò che non sappiamo coscientemente. Qui la responsabilità del critico è grandissima (io non so quanti ne siano consapevoli) proprio nei riguardi del teatro vivo e di quelli che vi dedicano l’esistenza. Tanti colleghi di Roberto De Monticelli molto spesso scrivono peggio e con volubile incoscienza. L’atto critico invece è un atto severo, approfondito, non un esercizio ludico, un divertimento a lato delle cose serie. Per quanto mi riguarda, i miei primi anni di critico teatrale (sì, anch’io lo fui, per poco) sono ancora il ricordo di molta angoscia e di una scuola di umiltà da conquistare, sera per sera. De Monticelli era questo insieme di scrittura, di responsabilità, di onestà e, seppur a distanza, stando dall’altro lato, di umana fraternità con tutto il mondo che vive il teatro e lo fa. Un essere “con” pur guardando da fuori l’evento del teatro. Mai nel gelo. Mai.
Ed a proposito della completezza critica, c’è una cosa che mi colpisce oggi, a distanza, rileggendo le sue pagine. Roberto scrive meglio e più alto quando deve parlare di cose alte e difficili. C’è una recensione di un Re Lear, ad esempio, che mi pare come uno dei più grandi saggi sul Lear di Shakespeare che siano stati scritti in Italia. Un punto di arrivo della critica teatrale, studio del testo e analisi dello spettacolo, che richiedono impegno, dedizione, conoscenza e amore per la scena. Ebbene, per lui scattava sempre una lucente chiarezza e perentorietà nell’avvicinarsi ai capolavori. Critiche come quelle de La tempesta, de I giganti della montagna, di molto Goldoni, mi pare quasi ce non si scrivano più. Probabilmente non è vero. Ma vero è che certamente le righe concesse al teatro sono ormai poche, anche da parte di certe riviste specialistiche. E che la confuzione aumenta., Tutto appare convulso, nel teatro e nella vita. Ma non dimentichiamoci che De Monticelli scriveva, come tutti i critici di allora, la notte dopo lo spettacolo, un’ora o due prima che il giornale andasse in macchina. E che solo nell’ultimo decennio al critico fu concesso, finalmente, più tempo, anche se meno spazio. Il teatro aveva cessato di essere un avvenimento di cronaca importante. Era diventato un’occasione di trattenimento da consumare nel tempo, senza troppa curiosità. Accanitamente De Monticelli difese questo spazio per il teatro. Le sue recensioni continuavano ad essere lunghe, in caratteri più piccoli per guadagnare spazio e, nel limite del possibile, esaurienti. Fino a quando ce l’avrebbe fatta? Fino a quando avrebbe resistito? Me lo sono chiesto più volte. Ciò che il teatro stava diventando era sempre più contro “quel teatro” che i teatranti sognano e che vogliono. Lui continuava, vorrei dire disperatamente, a scrivere. Io continuavo ad allestire spettacoli. Il nostro dialogo, intermittente e sporadico, continuava così. Perché tra me e lui non ci sono state molte parole. La nostra vicinanza non si è infatti nutrita di gesti conviviali [...].
Caro Roberto, avrei voluto scrivere, almeno di te, meglio. Meglio avrei voluto scrivere questo ricordo. Meritavi molto, non so quanto hai avuto da una vita dedicata tutta al teatro. Penso che in fondo non te ne sia importato molto. Hai fatto – il tuo dovere teatrale, l’hai compiuto con umiltà e senza cedimenti. Questo conta veramente, assai più degli applausi reali o metaforici che diventano sempre più fiochi e poi non si sentono più.
Giorgio Strehler

 


(una recensione)
Il velo-giardino, il velo che è insieme spazio e tempo, stagione, cielo e foglie, il velo che dal fondo della scena sale sull’arco della ribalta e di là si protende, membrana leggera, ala di gigantesca farfalla, sulla platea: questa è l’invenzione di base, strutturale, del nuovo spettacolo di Strehler, di questo Giardino dei ciliegi andato in scena ieri sera. È una di quelle immagini, semplici e potenti, che sono destinate a restare, e che non solo fanno da sigla a una serata di teatro, all’interpretazione registica di un testo; ma che valgono di per sé come condensazione di elementi figurativi e lirici appena suggeriti, soffiati attraverso il varco stretto, irripetibile di un’intuizione. Elemento poetico e scenografico, cifra di un0interpretazione emblematica, questo velo-giardino, questa sintesi di spazio-tempo, è anche il risultato più sensibile – e vistoso – del rinnovato incontro tra Giorgio Strehler e Luciano Damiani, cioè del ricostituirsi di un binomio che ha dato molte di queste indimenticabili metafore visive.
Naturalmente, da una simile invenzione condizionante tutto lo spettacolo deriva; ma non al punto da non differenziarsi in una varietà complessa di temi, di filoni di allusioni e di suggerimenti. Strehler, come già s’è detto, affronta i grandi testi del tatro nella globalità dei loro differenti piani; tenta di darne la versione classica, totale, ma andando sotto i significati delle parole, collegando la sua ricerca a ogni minima indicazione dell’autore, rompendo le parentesi in cui sono chiuse le didascalie per immetterne la descrittività non soltanto negli elementi scenografici (interpretati, naturalmente; stilizzati ed astratti) ma anche nella recitazione e negli atteggiamenti mimici degli attori.
Così questo Giardino nasce, col ritorno di Ljubòv Andreevna Ranevskaja alla casa natale, dopo che una vita di passioni disperse è passata, come rientro in un grembo materno, attraverso il limbo bianco dell’infanzia. Non per nulla Čechov fa avvenire tale ritorno in quella che è stata sempre chiamata la camera dei bambini. Ingigantendo l’indicazione e rivestendola anche di un suo personale sentimento del tempo perduto, Strehler immerge questo primo atto nell’albume della memoria, fra mobili minuscoli, lillipuziani banchi di scuola, un sofà e il grande armadio secolare, davanti al quale Gaev tenta una delle sue patetiche variazioni oratorie.
Siamo come dentro un uovo, in una sostanza cieca e abbagliante, nella patetica e un po’ dolciastra indistinzione dell’infanzia, un prolungamento dell’inconsapevolezza prenatale. A un certo punto, il vecchio armadio scoppia: le ante si aprono e in una nuvola di polvere – i giorni macinati – ne scaturisce una cascata di antichi giocattoli, di globi colorati per l’albero di Natale e una carrozzina da bambini, forse quella che servì per il piccolo Griša, il figlio morto di Ljubòv. Ma sbaglierebbe, a nostro parere, chi volesse da simili immagini dedurre che tutta questa rilettura del Giardino dei ciliegi si svolga sotto il segno, psicanalitico, di un regresso all’infanzia. Certo, il lirismo tinnulo e crepuscolare dei giocattoli, la musica da carillon che echeggia in un’altra soffitta della memoria fra le spoglie smesse del tempo che fu si prolungano con un po’ di compiaciuta insistenza nello spettacolo. Ma diventano tema di fondo solo nella misura in cui riescano ad esprimere il rifiuto della società di Ljubòv e di Gaev, la società degli oziosi ricchi al tramonto, a inserirsi nella realtà nuova, che non è solo quella del mercante Lopachin, il figlio di antichi servi che acquisterà il giardino dei ciliegi.
E infatti i temi interpretativi si moltiplicano nel secondo e terzo atto in cui, su una sorta di astratta piattaforma bianca, rilevata sul fondo a fungere da prato in salita, in un’aria da colazione sull’erba si gioca la partita dell’apatia turbata ma non riscattabile di Ljubòv e Gaev, dell’amaro attivismo di Lopachin, della speranza giovanile di Anja, della fiducia indistinta e febbrile di Trofimov. E allora il treno che passa sul fondo, immagine come evocata in un sogno ma reale, e il suo doppio in primo piano, il trenino-giocattolo che scorre traballando ai piedi dei personaggi, diventano il segno che fa da cerniera fra la realtà del presente, il futuro in cui scava quel roco fischio perduto nelle distanze e la memoria del passato, arrotolato su se stesso in una posizione fetale.
A quel punto il tempo dello spettacolo e il tempo storico sono maturi per il sobbalzo profetico indicato nel testo da quel rompersi come d’una corda di violino, di una sillaba musicale; che Strehler rende con un silenzio lungo, un soprassalto rabbrividito dei personaggi e il palpitare e il gonfiarsi del velo che è insieme spazio e tempo, cielo e stagione. Poi il regista fa passare il viandante-mendicante in tuta operaia; e lo fa parlare, melodico e come ebbro, in russo. È un messaggio affondato negli anni a venire, che nessuno di quella gente può ancora comprendere. Alto momento di teatro, uno dei culminanti della serata.
Allo stesso livello diversi punti del terzo atto, tutto preso nel vortice – un/due/tre – di quel valzerone inventato da Carpi, simile a uno spumante da pochi soldi ma che basta all’oblio di chi vuole per forza stordirsi nell’attesa dell’evento temuto; e dove strazio-riso, quell’altalena di angoscia autentica e di assurda allegria che Čechov intendeva per vaudeville, si esprimono in una recitazione nevrotica, frusciante, volubilissima. Il mormorio nella foresta: una foresta di nervi. Poi, a conclusione di uno spettacolo che i suoi momenti migliori li ha nel secondo e terzo atto, il finale vagamente beckettiano del quarto, col vecchio Firs già avvolto nei sudari della casa-tomba.
Strehler ha voluto una recitazione immedesimata ma non naturalistica, onirica ma reale, “buttata via” ma sedimentata nei suoi umori patetici e grotteschi; che forse una traduzione del testo più leggera, allusiva, menoesplicita e sottolineata nelle intenzioni, avrebbe maggiormente favorito. Valentina Cortese assorbe su di sé come Ljubòv il carico più pregnante ma anche più impegnativo, di questa ipotesi di voce-vita, di parola-istante; e lo rende altamente nei molti momenti felici, anche se ogni tanto cede a un’ombra di manierismo (che forse è, visto criticamente, anche il manierismo che si è voluto attribuire a questa figura). È perfetto Gianni Santuccio nella presenza-assenza di Gaev, in quel suo inerte constatare e nel desolato rifugiarsi nel piccolo tic-evasione del personaggio: lo schiocco della stecca sulla palla da biliardo. Franco Graziosi è un Lopachin nuovo, dolce e sovraeccitato insieme. Il Trofimov di Pietro Sammataro, così vibratile e intenso, è una prova dell’alta maturità ormai raggiunta da questo giovane atttore; e la deliziosa, musicalissima, Lazzarini, come Varja, è un soffio di vane lacrime, un arruffo di gesti nevrotici. L’esordiente Monica Guerritore, Anja, riesce a trasformare quasi sempre la sua acerbità d’attrice in freschezza e immediatezza d’istinto.
E bisogna ricordare l’umorismo indispettito di Gianfranco Mauri, la patetica comicità di Enzo Tarascio, la souplesse mimico-vocale di Claudia Lawrence e Marisa Minelli, Cip Barcellini, Vladimir Nikolaev. A parte, perché davvero se lo merita, Renzo Ricci, che è un Firs indimenticabile, fantasma della fedeltà e della tetra dolcezza, con nella voce, al finale, l’umile indifferenza dell’eterno. E infatti il pubblico lo ha acclamato a lungo, quasi avesse riscoperto lo straordinario attore.
Quanto all’esito dello spettacolo, del resto, sia all’anteprima che ieri, un trionfo.

 

 

 

Giorgio Strehler
Come lo ricordiamo
in Per Roberto De Monticelli. Per il Teatro
Lupetti Editore, Milano, 1997
pp. 42-45

 

Roberto De Monticelli
Alla ricerca del giardino perduto
Corriere della Sera, 23 maggio 1974

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