Extra La locanda delle chiacchiere
«Il viaggio s’arresta in una locanda: scoppietta la fiamma, una musica dice il suo tono, il bisbiglio di voci vi domina legando i tavoli ai tavoli, gli uomini agli uomini. È qui che i racconti s’incontrano».
– Beh, dài, adesso non esagerare. – Si aggira nervosa in cerca di un angolino ben protetto dove posare tutto quanto hanno portato lì per farsi un tranquillo picnic e discutere – dopo aver ottenuto da pochi giorni il tanto atteso dottorato – sul modo di organizzarsi in tempi brevi dove completare gli studi con le necessarie esperienze sul campo. Lei è Flora, ventitré anni. Mavis è la sua amica di sempre, stessa età, porta un nome canadese perché quando è nata suo padre lavorava come project manager in quel Paese per conto della casamadre italiana. In quell’angolo per così dire protetto. Le due, che abitano a Torino, ci sono state più volte. Da sole, quando avevano bisogno di isolarsi, o in intima compagnia di ragazzi occasionali e non. La folta vegetazione su quell’argine della Dora Riparia è sempre stata per loro un sicuro rifugio lontano da occhi indiscreti.
Siamo all’ottavo piano di un nuovissimo grattacielo, qui alla porte di Milano, al confine laterale destro della Tangenziale Est. Poco più avanti lo osservo dall’alto – il viale Forlanini, attraversato da un indolente flusso di auto dirette all’aeroporto di Linate. Quella lentezza è dovuta ai lavori per costruire un nuovo tratto della metropolitana che si colleghi al passante ferroviario e alle altre linee già attive. Un’operazione programmata per l’Expo, come uno dei concreti lasciti dello spirito della grande manifestazione internazionale che ha elettrizzato milioni di visitatori.
Il bambino raggiante
Non trova padre
Inizia il viaggio
Fabbrica insegne
Le scale mobili diventano sabbie
Ma il contatto cercato è attivo
Il luogo in cui ogni cosa attende la sua fine
Written by Dario La Mendola"Sono le istruzioni per muovere le mani".
(Valeria Rossi)
"Ci sono storie che muoiono prima di nascere: e somigliano all'estate".
(Tè alla pesca con vodka)
Più passa il tempo, peggio vanno le cose.
Sarà anche l'amore a decidere tutto.
Eppure, a mio avviso, è la matita della solitudine che disegna la nostra vita.
Mi trovo qui, in questa età, né giovane né vecchia.
Ciò che mi accade intorno la chiamano storia.
1.
– Così lo chiamano.
– Chi? Ma prima dimmi, Bruno, che ci fai disteso nel mio letto? Lo sai che in camera mia non devi mai metterci piede. E poi, cosa direbbero i nostri se ci trovassero qui seminudi?
– È quasi l’alba, Mimma. Non ce la facevo più a dormire. Avevo bisogno di parlare con qualcuno. Mi viene quasi da sorridere: Call It Sleep, si chiama così quel romanzo che mi ha tolto il sonno. In America è talmente famoso che per tutti è un acronimo formato dalle prime iniziali del titolo. La critica lo ha subito valutato come un capolavoro. Da noi, come è giusto, l’hanno tradotto in Chiamalo sonno. E anche qui l’entusiasmo non è mancato.
– Dunque, CIS, per gli americani. Ma chi l’ha scritto?
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- CSI
- minnie
- Legàmi
- Una roccia per tuffarsi nell'Hudson
- Requiem per Harlem
- Chiamalo sonno
- Un tipo americano
- Una stella sul parco di Monte Morris
- Enrico Brega
- Il Pickwick
Poi d’improvviso te ne accorgi. Quella domanda è per me un bizzarro rovello, poiché non mi è del tutto chiaro in quale prospettiva narrare con la scrittura mimetica l’insieme di stati reali – se tali si possono considerare – per consegnarli alle suggestioni del ricordo.
Dunque, la domanda: ho vissuto sin qui attraversando una sequenza di contingenze o scalando percorsi di progetti personali? E che fare, adesso?
Stiamo scendendo per un pendio coperto di aghi di pino color ruggine.
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Ray si inumidisce il dito con la saliva, lo infila con attenzione sul fondo della busta dove al tatto si avverte la presenza di un sottile strato di polvere, poi si passa il dito sulla punta della lingua. Gira lento la testa verso gli altri due seduti per terra nella stanza – è una loro usanza – e le sue labbra s’increspano come a simulare uno stentato sorriso difficilmente interpretabile. – È coca – dice.
Sono passati tre anni da quando è cominciata la loro storia. Allora erano in quattro, ragazzi prossimi ai vent’anni. Quel giorno, per loro così importante, seduti su una panchina dei Giardini Pubblici di Milano discutono sprigionando un entusiasmo incontenibile. Stanno per dare vita a una rock-band. Sono l’inglese Ray, figlio di un manager della filiale italiana GPS Foundation, e Antonello, Luca, Lele. Abitano tutti nel capoluogo lombardo dove si sono diplomati nello stesso liceo classico.
Lo ricordo. Saranno state le 07:30. Alla bottega di piazza Dante erano appena arrivate le calze, quelle di fibra sintetica. La signora Dorni, di ritorno dal mercato, notando la novità, con in pacchi in mano, affannata, bensì eccitatissima, lo urlò dalla strada a tutte noi del quartiere, che stavamo in cucina a bere il primo caffè. Affacciammo alla finestra impaurite, ritenendo ci fosse un incendio o un terremoto. Ma dopo i primi attimi di smarrimento, mentre la donna si dimenava e le uova, le patate e le mele le cascavano sull'asfalto, ci bastò ascoltare queste parole, le uniche pronunciate chiaramente, per comprendere cosa stesse accadendo: "Sono arrivate!".
Pochi chilometri, una vita. Ha impiegato quasi tre ore, Marcello, per raggiungere Milano, quando di solito gli bastava metà di quel tempo. Montù Beccaria, paese dalle radici antiche che si trova in cima a una collina dolcemente ondulata dell’Oltrepò Pavese, in valle Versa.
Alice, di famiglia benestante, si era trasferita lì, nella casa di campagna dei genitori che vivono a Milano, perché pensava che isolandosi dal frastuono e dai ritmi convulsi della città poteva trovare la necessaria concentrazione per fare quello che da tempo aveva in mente. C’erano alle sue spalle due anni di confusione esistenziale che rischiavano di portarla alla depressione se non le fosse capitato di leggere un libro che le era stato consigliato da Mariella, l’amica del cuore e complice delle prime trasgressioni sin dagli anni dell’adolescenza.
Gli anni trascorsi al di qua e al di là della cattedra sono valsi a comporre un quadro vivido, che spesso è sconosciuto nei dettagli a chi la scuola poco la conosce.
Da incosciente e male armato, invece di rivendicare i propri diritti, si scaglia su quelli degli altri.
Apparecchia la tavola al potere, che manco più si sporca le mani.
A lui sono rivolti questi versi.
A chi parla senza sapere. A chi sa e non parla. A chi non ascolta. A chi distrugge con metodo.
A chi non sfida la corrente per risalire. A chi è dentro e a chi è fuori.
In un città della Sicilia, nel 1998
Io so che lo chiamavano Falco.
E lo so perché frequentavamo lo stesso bar, quello di Piero, in corso Umberto.
Scendevo lì in pigiama, a leggere il giornale, a cercare qualcuno con cui parlare.
Ho sognato se potrò mai guardare il cielo senza dover ritrarre lo sguardo.
Giugno, l’anno scolastico è finito. Cristina e nostro figlio Roby di otto anni sono nel buen retiro, sulle Dolomiti Bellunesi, una spiritosa casetta di tre piani ereditata dalla madre di mia moglie. Per me sarà un’estate di lavoro, il Direttore del giornale ha deciso di assegnarmi la responsabilità di coordinatore delle pagine di cronaca nazionale, sta riorganizzando l’intera redazione, e il mio posto, dice, deve essere quello. Lascio la rubrica politica, che tenevo da tre anni, e del resto non mi dispiace. Lascio un certo grigiore, deboli gli sprazzi di luce in quell’ambiente, e troppe le interferenze nel lavoro di giornalista.
Filtra timido dalle persiane un velo di luce mattutina. Ha gli occhi socchiusi, Alex, avverte nell’intimo segnali emotivi che ben conosce. Gli capita con l’approssimarsi di possibili scosse del suo quadro di vita difficilmente controllabili. Non ama farsi sorprendere impreparato. Lei dorme.
Quella nuova macchina del caffè a cialde è davvero comoda e veloce, se ne fa uno doppio e cremoso come piace a lui. Pochi attimi dopo è sotto la doccia.
Io e Andrea siamo cresciuti così, su una poltrona di ricordi, spesso a rimuginare i giochi antichi e le risate bambine mentre le nostre gambe si allungavano e la schiena si faceva più salda nella nostra giovinezza. Con le mie dita ormai sfilate come disegni a china non ebbi mai paura di carezzargli i capelli ricci e nodosi, ribelli, e non ebbi mai nemmeno la vergogna di guardarlo negli occhi e stringerlo al mio petto che ancora non cresceva. Ci incastravamo sull’unica poltrona di casa sua, quella dove suo padre era solito trascorrere le ultime ore della giornata, dopo cena.
"Un libro dev'essere un'ascia per il mare ghiacciato che è dentro di noi".
Franz Kafka
Come te lo spiego il momento esatto in cui i bambini diventano grandi e i grandi ritornano bambini? Mi sembra di non poter raccontarti quel momento con parole umane, sensibili, ho paura che tutto quello che possa dire sia alla fine troppo lungo o troppo breve, della misura sbagliata. Io ho visto una volta quest'attimo accadere, un adulto e un bambino davanti a un libro. Erano entrambi distanti, trasparenti, pronti a cambiarsi i panni di dosso per indossare qualcosa di nuovo. Il bambino leggeva e nel leggere non si distraeva, non c'erano immagini che potessero divertirlo, solo parole una dietro l'altra, in fila indiana, come soldatini in marcia e perfettamente allineati.