“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Davide Di Falco

Una scontrosa grazia. La poesia di Umberto Saba

Un cantuccio pensoso e schivo, solitario come una casupola su un’erta, è riservato nella nostra popolosa storia letteraria all’originalissima esperienza di Umberto Saba. Leggendo il grande triestino si ha più che mai la sensazione di spogliarsi dei propri abiti e di infilarsi nei suoi, logori e sofferti, per poi comprendere che, in fin dei conti, gli abiti di tutti gli uomini sono irrimediabilmente resi stinti e lisi dagli affanni della vita e dal peso della storia.

La frammentaria geografia dell'Oltre

La sfiducia nei confronti del Positivismo e della quadrata e riposante visione del mondo che esso proponeva, la svalutazione di ogni filosofia "dai tetti in giù" operata da Schopenhauer, Nietzsche, Bergson e Freud, e la liberazione delle istanze irrazionalistiche cagionarono due rivoluzioni, volte a segnare profondamente la cultura primo novecentesca. La prima rivoluzione, che preannunzia la seconda, è la ‘scoperta’ della scissione del soggetto che fece desistere i romanzieri dalla rappresentazione di personaggi coesi, unitari, saldi, "di sagoma balzacchiana". La seconda, invece, riguarda il tema centrale del rapporto soggetto-realtà, poeta-paesaggio naturale. Il soggetto moderno si sente spaesato in un mondo che egli avverte come estraneo ed inconoscibile, giacché i codici ermeneutici tradizionali fondati sulla scienza si sono dimostrati inermi dinnanzi ai colpi dei succitati "maestri del sospetto" (e rubo l’espressione, allargandola, da Ricoeur).

Ebrei piangenti e ridenti

Come ha fatto il popolo ebraico a tollerare millenni di angherie e sopraffazioni, culminanti con l’orrore della Shoah? Oltre alla estrema coesione, che ha ad esso consentito di rimanere politicamente e culturalmente forte pur nella diasporica frammentazione, tra le armi di difesa va contata una straordinaria arguzia, interessante per la complessità di fondo che la caratterizza.

D’Annunzio e la lingua. Un gioco aristocratico

Se addentate un tramezzino e poi vi concedete (magro lusso, lo riconosco) un Oro Saiwa; se andate con la automobile (attenzione, sostantivo di genere femminile) a fare compere alla Rinascente; se tutto va in fumo e siete costretti a chiamare i vigili del fuoco; se la ragazza di cui amate tutto – specie il nome – si chiama Ornella, non sarà fuori luogo, tanto più perché quest’anno ricorre il centocinquantenario della nascita, rivolgere un pensiero al coniatore di queste parole, espressioni, nomi propri: Gabriele d’Annunzio.

Poche pesate parole per Gozzano

Una poco appariscente, appartata parentesi, appena da appuntare, fu la permanenza del poeta su questo piccolo pianeta politico, questo periclitante patrimonio, questo pittoresco palcoscenico pieno di persecutori e repleto di pittime.

Le signorine di Avignone

La gatta di Petrarca

Petrarca non amava soltanto donne eteree e spirituali, come siamo abituati ad immaginarlo, facendo a tempo anche stereotipi raffronti con un Boccaccio che si presume più focoso, meno metafisico. Petrarca amava moltissimo i gatti. Forse perché discreti e silenziosi, elitari e decorosi. Soprattutto quelli dal miaomiao sottile, perché si sa, il poeta aborriva il vocione grosso. Se fosse dipeso da lui, anche la Commedia dantesca sarebbe stata meno sanguigna, più controllata, meno tracimante, meno virulentamente espressionista. E allo stesso modo detestava che i lettori (e declamatori) delle proprie composizioni fossero incolti: non poté mai perdonare a Dante di aver scritto il suo capolavoro nella lingua dei pizzicagnoli e dei bottegai, lasciando loro la possibilità di storpiare e balbettare la teologia. In latino andava scritta la Comoedia!, sicché potesse venire adeguatamente miagolata da chi poteva, e non ruspantemente abbaiata dal vulgus profanum, come usava chiamarla Orazio, un altro cui la folla faceva girare la testa con tutto l’alloro.

il Pickwick

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