“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Francesco Pisano

Sulla dismisura

Con quale bilancia, dunque, peserai la verità della conoscenza? [...]

La stadera è un tipo di bilancia e il bilancino del saggiatore un altro tipo. Anzi di più: l'astrolabio è una bilancia per misurare le distanze lineari, e il filo a piombo una bilancia per accertare la perpendicolarità e la curvatura. Questi strumenti, sebbene differiscano per forma, hanno in comune il fatto che per loro mezzo si conosce che cosa è l'eccesso e cosa il difetto. Invero la prosodia è una bilancia per la poesia, per mezzo della quale si conosce la metrica della poesia e si distingue il verso zoppo da quelle corretto. Essa è la più spirituale delle bilance materiali, sebbene non sia esente dal contatto coi corpi: soppesa infatti i suoni e i suoni non sono separabili dai corpi.

(al-Ghazālī, La Retta Bilancia)

Sulla meditazione o diario filosofico 5

Uso, di tanto in tanto, andare a correre. È un tramonto più o meno scuro, a seconda della stagione, quello che ritrovo di fronte alla mia porta; i rumori seguono invece il profilo del paesaggio, della campagna piena d'ombra e del centro urbano, fino al mare che ancora si vede dal marciapiede. Il gesto del mio movimento è, del resto, tanto ripetitivo da farmi dimenticare l'asfalto. C'è soltanto il suolo: una stabilità pura, secca, dove poggiare il piede. Tallone, punta e slancio, mentre l'altra gamba comincia già a distendersi. Agito le braccia per dedicarmi alla percezione: soprattutto vento, qualche volta mattoni o ringhiere che sfioro – una volta, quasi, una macchina in corsa.

Città, via, interno

[…] È questa la pietas verso l'intenzionalità, l'accettazione
del misterioso piacere che ci lega alle cose, nel quale
vibra sempre la ricerca dell'essenza,
della continua correzione, dell'armonia.

(Enzo Paci, 15 aprile 1956)

 

 

 

Città

 

 

Vetro, vetro,
interrompi la discesa
nel calice trasparente.
Sopra, niente. Assemblaggio di nuvole.
Uovo spettrale, sul mare,
hai già tutto generato?
Scorticato, aleggi senza ora,
e io, granello, pure non sono figura.
Vetro, dammi lo spazio
e il mio riflesso:
la pelle si piega e il cemento non si sfilaccia.
Perciò, io e questi miei compagni di ora camminiamo in esso.
Sul suo sfondo sfumato,
l'autobus è già lontano.
Vado nella tromba del suo rumore.
Questa discesa è già il fondo eterno.

 

 

•••

 

 

La palma, dov'era la mia casa,
descrive archi di circonferenza,
produce rumori compositi:
come tutto.
Tutto è in questo blu convesso,
concavo è l'umido dove calco le mani.
I colori non sono delle cose,
sono delle vernici, e ogni settore,
comunque, ricorda l'arancione.
Sotto, forse, c'è il fondo
che Prometeo ha nascosto,
l'amaro eterno naufragio di questo giorno.

Con questo libro aperto
evangelizzo i lampioni e gli agri strascichi.
Pure, versi screpolati,
taciuti e consegnati a questo organo.
Pure, un'eco selvaggia si frange
(non so dove):
pure, questo non sono io - forse sono lei.

 

 

Via

 

 

La forma
della mia mano?
Chiedendo andavo,
scuotevo corpi,
occhi invetrati
d'uno stupore solo antico.
Tra aria verde o grigia andavo.

Ora la mia domanda è come pietra
e il cielo è come stagno.
Sgorga sorgiva fino a te,
o altro fertile di luce.

La tromba dei simboli
si chiude vorticando
sulle nostre spalle.
Qui possiamo sentire
acqua ampia, fuoco pieno,
tempo aperto.

 

 

•••

 

 

Andavo per strada, in antica trasparenza.
Così antica com'è antico sorgere,
e le foglie accanto alla strada sorgono perché tremano.
Nascono, come sgorgare:
vengono dall'ombra che non dico, forse tornano.

Allora nascono,
e lo spazio s'è ammaccato
come un imbuto o altri squilibri.
Allora la strada non è pittura:
ci sono, vivo nei muri duri e nelle macchie nuvolate.

 

 

•••

 

 

Non toccare il mare.
Lascia che s'acchittino steli neri,
travi e profili, e
lascia nell'occhio bianco spirare
cementi severi.

Ma già è sera.

 

Interno

 

 

Più non rammemoro,
sfugge alle mie labbra ferme
il movimento, il vascello divino delle orbite e dei pianeti.
L'ombra inceppa i meccanismi
(dove sono? non più al centro)
e quasi a lato, fuggitivo,
guardo un pianto al muro che scanso.
Ma tutto è aderente sull'occhio,
sul corpo fermo già via da lì
(dove sei, mia grazia?).

Piange.
Un altro piccolo buio la scuote,
la supplica senza saperlo
(forse foglie volano rotte?).
Sono arreso,
impolverato e incartato dal cemento.

Ma bianca stridi e giungi dove non sono,
mi generi senza sforzo allo spazio, al tempo,
al fiore che lontano
esplode or ora dalla terra.

 

 

•••

 

 

Metafisico,
tendi lo sguardo sul mare.

Pensi alla sera,
quando il fabbro ha deposto il martello
e con mani grezze riposa, cinge altre spalle
nel letto bianco.
Quando il mondo s'è stretto nella notte,
solo respiri e circolazioni,
dispersi frinii;
chi pensa, chi lega,
chi vedrà il giorno nuovo?

Scuotiti per scacciare
le sfere luminose.
Forse ribolle,
l'intelletto, acqua, o forse
è questo vento, quello che respiri tu,
respiro io,
respira esso.

Metafisico,
cerca il respiro più fresco.
Sorridi alla tua notte e torna a scrivere.

 

 

 

 

 


NB. Immagine di copertina: Edward Hopper, Night Windows (part.)

 

Sull’origine o diario filosofico 4

Il problema dell’origine è un problema immediato. Mi sta davanti, cioè, senza mediazioni: non c’è niente tra me e ciò che mi è gettato davanti, come dice anche l’etimologia. Problema è infatti ciò che insiste e persiste sullo spazio del mio cammino, ostacolandolo: mi sta di fronte (pro) come se qualcuno ce l’avesse messo d’improvviso (-blema  viene da ballein, mettere, porre, gettare). Buffo che questo problema mi stia sempre davanti all’improvviso, come se dovessi inciamparvi: il carattere di sorpresa si mantiene nel tempo, finché il problema è problema. Non possiamo ancora lasciarlo andare: il cammino è bloccato da una presenza inesorabile. Il problema rimane tale, cioè, fino a quando mi è presente, fino a quando impegna la mia coscienza e la mia attenzione.

Sole

Il fumo s’agita nel vento caldo, massa densa premuta dalla polvere, dilatata in macchie infauste. Il Cielo non vuole questo olocausto, il Cielo è inclemente e ci fa tossire sui nostri stessi incensi, che ci tornano in volto mischiati alla polvere. Il Lume divino è oggi forte e grande: l’ira lo gonfia e lo allarga e noi non ne guardiamo i confini, per timore del fuoco nei nostri occhi.

Anabasi

Ok, bravo latte. Vieni qui, vieni qui. Così. Il manico automatico si chiude sulla mano con uno scatto. Il ferro del cestino è freddo, e io rido, rido piegandomi all'indietro e torcendo la gola nello spasmo. Dolce, dolce soluzione di caseina e lattosio! Calmerai quest'arsura che punge la mia bocca. I tubetti lucenti esplodono in un tintinnio metallico mentre mi getto nell'ascensore pneumatico. I riflettori ad ogni piano passano e se ne vanno, senza ferirmi. Cado anch'io in un tubo finché tutto non si ferma con un dolce pfsst.

Sulla scrittura o diario filosofico 3

Cosa faccio quando scrivo? Non so, eppure continuo. In effetti, tutto ciò è forse un insieme disperso di azioni separate: battere sulla tastiera, guardare lo schermo, sillabare parole a mezza voce. Sì, ma io dico scrivere, con una sola parola, con un suono fluido e un’immagine che si delinea. Il concetto si organizza e si incarna attorno a un centro, mi sembra: il senso di libertà che provo scrivendo. Scrivere è un atto perché io posso scegliere di farlo, trovando il principio di quest’impresa in me stesso. Atto perché non muove da un fatto a me “esterno”, ma lo pro-duce, “davanti” a me e in un mondo.

Che filosofare è imparare a morire o diario filosofico 2

A Miriam

 

 

Chiamo filosofia il discorso dell’universale. Il nome, in effetti, non importa. Non importa nemmeno il modo: l’essenza è lo scopo.
Ecco qui. Ecco che comincio a imporre, a tracciare linee e confini. De-finisco: con quattro icastiche sentenze ho già imbottigliato l’imprevedibile, il contraddittorio, l’opaco vortice della vita nel quale tutti noi ci agitiamo in cerca di un buon appiglio.

Adversus relativismum o diario filosofico 1

Cominciamo questo discorso con un'immagine. Cominciamo, dico, quasi mi volgessi a voi riuniti in assemblea, su gradini di marmo o sotto il fresco di un platano, poco lontano dalle mura d'Atene. Imperdonabile furberia. Artificio retorico tanto più grave, se mi propongo di rubare il mestiere ai poeti. L'immagine è la loro casa, certo. Aristotele diede loro le chiavi, nella Poetica. Porre davanti agli occhi è, mi sembra, il modo più schietto di scavalcare il problema dell'inizio. L'incipit è il passare dal silenzio al rumore, dall'assenza alla presenza. Ogni incipit è zoppo, è un salto che non poggia da nessuna parte. Questa snervante premessa avrebbe a sua volta bisogno di un'altra premessa, di dieci, cento e mille premesse fino alla parola che spiegasse l'inizio dei tempi e il sistema di tutte le cose. Ma non temete, non abbandonate i gradini, rimanete su questo prato: questo discorso comincia – è già cominciato – con un'immagine. Il discorso, dunque.

Legge e segreto: spunti di riflessione

Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero,

né l’abitudine, nata da numerose esperienze, su questa via ti forzi

a muovere l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba

e la lingua, ma con la ragione giudica la prova molto discussa

che da me ti è stata fornita.

 

(Parmenide, Sulla natura, Frammento 7)

 

 

Conviene, a volte, iniziare dall’epilogo. A partire dalla parola che traccia i confini, infatti, ci si pone implicitamente al di fuori del fenomeno che si va indagando. Ci si pone, diciamo, al di sopra di esso: e si sa che dall’alto la vista (che non a caso in greco è θεωρία, theorìa) è migliore, più bella e più ampia. Delineare la teoria di un oggetto significa dunque coglierlo nel panorama complessivo di tutti i suoi sviluppi. Non possiamo, qui, tracciare una teoria della legge e dei suoi rapporti col segreto, negli sviluppi del pensiero occidentale. Possiamo pensare, al massimo, di inquadrare dei nodi focali, dei casi esemplari: a partire dunque dal tragico epilogo (Kafka), per tornare al trionfo (Hegel) e, da qui, tentare un approccio genealogico. Il senso di questo percorso torna, infine,  ancora una volta sui suoi confini e sull’altezza del nostro sguardo, per capire se davvero possiamo dirci esterni a certi paradigmi di pensiero.

il Pickwick

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