“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Primi appunti su Quotidiana.com

Non si chieda cosa ho fatto in tutto questo tempo.
Resterei muto;
e non direi perché.
E c'è un silenzio da far esplodere la terra.
Neanche una parola che abbia colpito;
si parla solamente nel sonno.
E si sogna di un sole che rideva.
Svanisce;
il dopo non ha più importanza.
La parola si è spenta, quando quel tempo si è svegliato.
(Karl Kraus, Non si chieda)


Premessa
Sala Ichòs, confermandosi spazio che tenta di ospitare e proporre compagnie che fanno dell'innovazione del lessico teatrale la propria ragion d'essere, offre la possibilità di assistere – in giornata unica – alle prime due opere che compongono un trittico ancora incompleto, intitolato Tutto è bene quel che finisce: L'anarchico non è fotogenico, Io muoio e tu mangi. Li considero perciò un tutt'uno di un progetto più ampio, ancora in via di definizione.
In passato ho solo visto, in video, due dei tre spettacoli che compongono la Trilogia dell'inesistente e ne ho letto i testi, pubblicati da L'alboreto: incontro dunque e davvero per la prima volta i Quotidiana.com.
Ne viene adesso questo diario d'appunti: una sorta di taccuino messo in pubblico, in cui ci sono approfondimenti dubbiosi e ragionamenti su qualche dettaglio più che la recensione della doppia messinscena.
Così va, questa volta, in attesa del prossimo incontro e del terzo episodio.

Fine di una storia d'amore (europea)

Fine di una storia d'amore
La reciproca conoscenza, l'affetto, l'entusiasmo, la passione, l'amore. Quella sera, per noi così importante da dover essere immortalata in una foto. La scelta di vivere assieme. I sacrifici, condivisi e indolori perché animati da una speranza in comune. La fatica e la capacità di accontentarsi, rimandando l'idea del benessere ma facendone comunque una prospettiva ancora possibile. Il tempo che corre, i volti che cambiano, la stanchezza che inizia a farsi sentire, quotidiana. Gli anni che all'improvviso – semplicemente passando – si mostrano pesanti come zavorre: i sacrifici sono gli stessi di prima; è la speranza tuttavia che è mutata e che, sempre di più, somiglia a un'illusione. Le mani in tasca, per contare quanto ci rimane. La povertà – non posso permettermi di comprarlo – e il nervosismo, la rabbia, l'insopportabilità verso le parole, le scelte o i gesti dell'altro. Le tue colpe, che sono maggiori delle mie. Cambia tono quando parli con me. Ti rendi conto di cosa hai fatto? È inaccettabile. Mi hai tradito. Dobbiamo dividerci. Non possiamo più stare uniti, non possiamo più essere una cosa sola. In fondo che cosa siamo stati davvero? L'addio e, dopo l'addio, un ultimo istante di nostalgia – solo il momento per un pensiero, un cenno, un saluto – per quel che sarebbe potuto essere e che non è stato.
Storia di un amore finito, ma tra chi?

Retorica e resistenze (ai tempi di Achille Lauro)

Nel 1952 Luchino Visconti mette in scena La locandiera cancellando il presunto “stile goldoniano” e individuando nei giochi erotici della protagonista e nella sua condizione di lavoratrice pre-borghese gli elementi fondanti dell'opera. Nel 1952 Squarzina realizza, con Gassman protagonista, la prima versione integrale dell'Amleto. Nel 1952 Giorgio Strehler ha già inaugurato il filone dedicato a Goldoni (Il servitore di due padroni, L'amante militare), ha iniziato il percorso shakespeariano (Riccardo II; La tempesta; Riccardo III; Enrico IV), si è dedicato alla grande drammaturgia borghese dell'Otto/Novecento (Gorkij; l'Ibsen di Casa di bambola; il Čechov de Il gabbiano), si è interrogato pirandellianamente sulla creatività teatrale (I giganti della montagna, Questa sera si recita a soggetto) e si appresta a pensare, studiare e approcciare Bertolt Brecht.

Ho visto un'attrice

Sentivo che una parte della popolazione era di anime ritornanti. Se nella realtà fisica ritornanti, oppure in quella generazionale, o nella realtà fisica soltanto, io non sapevo. Solo sapevo che il popolo dei vecchi-piccini, degli inutili, i deformi, gli abbandonati, gli antichissimi, appariva e scompariva, scompariva e riappariva (Anna Maria Ortese).

L'incontro (mancato) tra la poesia e la vita

Avevamo la sensazione che la vita
sarebbe stata una gran cosa.
(Appunti di un suicida potenziale)

 

 

In tutte le recensioni che mi è capitato di leggere, prima di assistere a Blue Bird Bukowski (testo di Riccardo Spagnulo, regia di Licia Lanera), c'è scritto che torna in vita il poeta, che – per poco meno di un'ora – il pubblico assiste alla sua rinascita: eccolo Bukowski, col suo desiderio ancora inesausto di “cosce piene” e di birra, di alcol e di pelle, di schiuma e contatto; eccolo, incapace (o impossibilitato) com'è di finire davvero: non prima, almeno, di aver bevuto ancora, di aver sbraitato ancora, di aver scopato ancora.

Pensieri al cospetto di una marionetta

I primi cinque minuti di Out raccontano di quando proviamo la paura di vivere davvero; raccontano di quando ci sembra che meglio sarebbe se la realtà che abbiamo d'intorno si limitasse alle quattro pareti di una stanza, di quando non ce la sentiamo di sfidare lo scorrere del tempo o il corso degli eventi e facciamo fatica ad accettare che il fallimento sia possibile; i primi cinque minuti di Out – con questa marionetta manovrata all'interno di una camera da letto più piccola del palco del Nostos, baracchino arredato con uno specchio, due quadri, una sveglia, un letto con la coperta, una finestra con la tenda – raccontano di quando preferiamo non compiere scelte, magari standocene muti, senza dire (né dirci) quello che stiamo pensando; raccontano di quando ci adagiamo – insomma – nella tiepida condizione dell'esclusione, della solitudine, dell'esistenza laterale: che accada pure di dover esistere, se proprio deve accadere, ma che almeno avvenga senza che sia notato dagli altri.

Il testo, lo spettacolo, Eduardo e Pirandello

Il testo
L'abito nuovo fu composto in quindici giorni, dalle cinque del pomeriggio alle dieci di sera, trascorsi sempre allo stesso scrittoio. Da un lato un Pirandello ormai stanco nel corpo e ferito nell'anima dall'imperterrita negazione d'amore di Marta Abba e dall'altro Eduardo De Filippo che, pur non rinunciando al repertorio scarpettiano da bassa partenopea, aspirava a rendere il suo teatro nazionale.

Primi appunti su "La nostra classe"

Forse è vero che il Novecento è il secolo senza tragedia, o meglio: è il secolo nel quale la tragedia – intesa come genere teatrale – diventa impossibile per il teatro. Non perché manchino eventi individuali e collettivi nei quali se ne ravveda la totalità dello strazio o l'assurdità del dolore né perché non vi siano storie, più o meno conosciute, che gridano il loro essere avvenute fino a spaccare i timpani della memoria, pretendendo d'essere messe in scena, come narrò per metafora (i personaggi) Pirandello nelle sue novelle. Ma la tragedia, trama che ha un inizio e una fine tra due schiere di quinte, in uno spazio chiuso tra quattro pareti, di cui tre toccabili con mano ed una invisibile ma esistente, svilisce fino ad essere un esercizio di stile, la riproposizione di un repertorio, un'offerta di maniera.

La rivolta, sedata, di Caterina

Però mi vuole bene, tanto bene,
bene da morir
(Quartetto Cetra)


(una commedia?)
Se si ha un briciolo di onestà si può ammettere che collocare gli scritti di Shakespeare nei reparti stagni della catalogazione critica e accademica è un'impresa ridicola, destinata al fallimento. C'inventiamo, infatti, una serie di parametri e di formule per separare la grande Opera in più volumi, perché contengano ognuno cinque o sei testi – comodi da portare in borsa, ordinati da tenere a scaffale – e ci sforziamo di fingere che questa sistemazione divisoria abbia coerenza e legittimità. Poi emettiamo un respiro e ci diciamo “In fondo ho fatto un buon lavoro”, sapendo di mentire a noi stessi.

La commedia di Zeno Esposito

Occorre scriverlo subito: non c'è alcun legame con Svevo e La coscienza di Zeno (se si eccettua il fumo di una sigaretta), non c'è alcun tentativo (nuovo) di rendere il tema (vecchio) della conoscenza psicanalitica, non c'è un approfondimento ulteriore rispetto alla frantumazione dell'Io: questo “bastardo e porco di un pronome”, per dirla con Gadda.

il Pickwick

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