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Sunday, 19 January 2014 00:00

Cataratta

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Alla terza mano non ne aveva già più voglia.
Guardò sua madre mischiare le carte, con quel suo modo di spingerle le une dentro le altre come se le infilzasse, come se volesse polverizzarle, e si chiese chi fra i due tenesse veramente a quel rito. Se non fosse un altro malinteso dell’amore filiale, come quello che li aveva portati per anni a mangiare padellate di alici fritte, impanate e fritte.
Tutto poteva cambiare, gli anni, le stagioni, i governi, una cosa sola era sempre uguale: una volta arrivato sull’isola, sceso dal traghetto, Paolo telefonava alla madre per comunicarle lo sbarco, e lei non gli lasciava neanche il tempo di fare il biglietto del pullman per il paese che aveva già messo sul fuoco la padella con l’olio. Le alici, si sa, si devono mangiare ben calde.

Paolo non ricordava come fu che arrivò quel momento, fatto sta che un giorno, alla quarta alice che apriva per togliere la lisca, alzò la testa dal piatto, e con le mani unte disse: “Mamma, senti, io detesto le alici. E ancora di più detesto le alici impanate e fritte”.
La madre, anche lei intenta a deliscare un pescetto, lo guardò interdetta, e per questo lui si sentì in dovere di proseguire: “Alla povera, marinate nell’aceto con la cipolla rossa, con l’uvetta e i pinoli a condire la pasta… Ma impanate e fritte proprio no. Se le ami tanto impanate e fritte, mangiale quando non ci sono io, per favore”.
Dopo qualche istante di silenzio la madre replicò piccata: “Meglio così. Anche io le detesto. Le cucino solo perché piacciono a te! Me lo hai detto tu, non ricordi?”.
Era vero, ci mancherebbe. Ma a Paolo non sembrò il caso di puntualizzare che era successo tanti anni prima, in un giorno un po’ speciale, e precisamente il giorno che il padre se n’era andato – finalmente, nell’opinione di Paolo – un po’ meno in quella di sua madre, che nonostante il carico di ossa rotte e umiliazioni piangeva in silenzio, seduta davanti al caffè, la mattina dopo, in cucina. E così, quando dopo qualche ora, per pranzo, lei gli aveva messo davanti un enorme piatto di alici impanate e fritte, Paolo si era sperticato in lodi entusiaste.
La madre spinse il mazzo di carte verso di lui, squartato e ricomposto come un cadavere dopo un’autopsia. Mentre smazzava cercò di ricordare l’origine di quelle partite. Se ci fossero alla base ossa rotte, partenze improvvise, lutti, cavallette, o qualche altra varietà di disgrazia.
Aveva imparato a giocare a carte in ospedale. Nei lunghi mesi di degenza era l’unica cosa che riusciva a fare con serenità. Leggere gli piaceva tanto, ma il suo amore per la lettura gli aveva subito portato guai con gli altri bambini del reparto, che avevano cominciato a sfotterlo, prima allegramente, poi in maniera sempre più aggressiva, fino a quando una mattina aveva trovato il libro che stava leggendo tutto strappato, le pagine sparse per il pavimento del corridoio. Si trattava dell’Isola del tesoro. Lui amava quel libro, e adorava il pirata Long John Silver. Da quando era arrivato in ospedale, aveva deciso di diventare come lui. Trovare il suo libro preferito strappato in quel modo lo aveva reso furioso, gli aveva fatto diventare le orecchie rosso fuoco e i pensieri nero pece, ma non aveva fatto una piega. In quei lunghi mesi aveva imparato come gli ospedali siano delle caserme, specie i reparti di pediatria. Corrergli dietro per gonfiarli di botte gli era impossibile, e i piccoli bastardi se ne approfittavano.
Così cominciò a giocare a carte, coinvolgendo quegli stupidi animaletti in piccoli giochetti d’azzardo che si inventava sul momento. Nel giro di qualche settimana li aveva ripuliti di tutto, figurine, giornaletti, costruzioni, caramelle. Lo fermò solo la dimissione: aveva già in mente di cominciare ad accettare dei “pagherò”. Long John sarebbe stato fiero di lui.
Guardò sua madre intenta a fissare le carte, mentre lui era indeciso su cosa scartare, e si voltò verso il mare. Quel pomeriggio tirava un po’ di vento, si stava proprio bene. Andavano alla pinetina ogni giorno, per tutto il mese che Paolo passava al paese, per le ferie estive.
La madre si occupava di tutto. Scesa dalla macchina gli apriva lo sportello, poi apriva il portabagagli, tirava fuori il tavolino, le sedie, la borsa frigo con la merenda. Sistemava tutto al loro posto, poi tornava alla macchina, apriva lo sportello posteriore, dietro al sedile di Paolo, prendeva le stampelle e gliele porgeva. Mentre lui si sistemava sulla sua sedia, sempre rivolto verso il mare, lei valutava il vento con piglio da uomo di mare. Se lo giudicava troppo intenso, tirava fuori un materassino di gommapiuma a quadretti scozzesi, e lo sistemava davanti al tavolino, a fare barriera. Lo tirava fuori quasi sempre, a dire la verità.
“Poi il vento ci ruba le carte” argomentava lei, e Paolo era certo che lo facesse per proteggere la gamba assente da sguardi indiscreti. Ma non glielo aveva mai chiesto.
Chissà, magari lo faceva per lui, come le alici e il gioco delle carte, pensò con lo scarto in mano, ma Paolo era grande abbastanza per sapere che le cose non si fanno mai solo per gli altri, non fino in fondo, quantomeno.
Trascorrevano quel mese di ferie così, a giocare a carte nella pineta del paese, giusto alla foce del fiume, dove il dolce si mescolava al salato. Per quel mese Paolo non portava con sé neanche un libro. I libri lo aspettavano a casa, pronti per il suo ritorno. A lui non piaceva leggere in giro, in treno, in aeroporto, in una sala d’aspetto, come vedeva fare spesso. Lui amava leggere a casa sua. Sdraiato sul letto, con una bottiglia d’acqua poggiata per terra, poteva passare così giornate intere, e le passava, in verità, quando era libero dai turni.
La lettura a letto era un’abitudine che aveva preso da piccolo, al ritorno dall’ospedale, quando fu chiaro a tutti che il suo posto in famiglia non sarebbe più stato lo stesso. Con quel moncherino, era finito per lui il lavoro nei campi, erano finite le lunghe giornate passate con il fratello Francesco dietro al mietitrebbia, a raccogliere fieno e parolacce, a sputare sudore e a inghiottire veleno.
Il padre poi, dal giorno dell’incidente non gli rivolse più la parola se non per lo stretto necessario. Quel giorno in cui il sangue pioveva a scrosci, le urla della madre, della nonna e del padre lo avevano tramortito. Urla tutte diverse fra di loro, di rabbia, di rassegnazione, di colpa, ma tutte uguali nel volume. Urla assordanti, che si erano assiepate strette, urla cieche, che avevano riempito il cielo sopra la campagna fino al limitare delle nuvole.
Lo avevano portato in casa e poggiato sul letto in attesa del dottore. Era arrivato dopo una decina di minuti, e dopo una sola breve occhiata lo aveva dato per spacciato. Per questo la nonna aveva chiamato il prete, e la majara. Immerso in un lago di dolore appiccicoso e denso, dal quale riaffiorava a tratti sputando rosso e passato, Paolo se li ricordava bene. Il prete alto e corpulento, triangolare nel suo abito nero, agitava una specie di martello, mentre gli dava l’estrema unzione appestando la stanza di incenso. La majara, piccola e grinzosa, tonda nel suo scialle ricamato, anche lei tutta in nero, faceva oscillare davanti a lui un piccolo ciondolo, una rana d’argento, mormorando frasi sconnesse. Il rito quattro stagioni era stato interrotto dallo zio, fratello di sua madre, che era entrato nella stanza di forza, sfondando quasi la porta, e di forza l’aveva preso e caricato sul trattore, puntando dritto verso il paese.
Tornato a casa, la madre gli ricavò uno spazio nello stanzino, quello dove si conservava l’olio e si mettevano a seccare i pomodori. Ci mise un letto, e una lampadina. Sdraiato su quel letto, immerso fra quei profumi, Paolo divorò libri su libri, che la madre gli andava a prendere silenziosa alla biblioteca comunale. Troppe scale per lui.
Risparmiato alle preoccupazioni della campagna, era arrivato prima il tempo del liceo, poi quello dell’università, infine della laurea e della specializzazione. Dottore. Dottore come quello che lo aveva dato per spacciato.
A quel punto aveva lasciato l’isola, aveva preferito andar via, aveva lasciato la madre e il fratello, ed era partito per la terraferma, per la grande città, per il grande ospedale. Da anni ormai tornava solo per quel mese, d’estate.
Francesco invece era rimasto al paese. Aveva un paio d’anni più di lui, e si era sempre atteggiato a fratello maggiore. Prima dell’incidente avevano un buon rapporto, una loro vita piena di piccoli segreti e complicità. Era stato un bambino molto buono, docile, con la carnagione chiara e la lacrima facile. La sua tendenza ad ingrassare, unita a una certa predisposizione al fantastico, lo avevano reso il naturale bersaglio della ferocia della strada. Francesco reagiva agli attacchi aumentando le dosi di dolci e di amici immaginari. I primi gli avrebbero conferito poteri eccezionali, i secondi lo avrebbero difeso dalle ingiurie.
Il padre faceva finta di niente, osservava gli amici immaginari del figlio come se non esistessero, rivolgendo tutte le attenzioni a Paolo, fin da piccolo più assennato, più sicuro delle sue cose, più interessato alle sue attività. Era Paolo che il padre si portava in campagna al pomeriggio, era a lui, e solo a lui, che spiegava gli innesti, il funzionamento della trivella, i rimedi per le malattie degli alberi.
L’equilibrio già precario si incrinò dopo l’incidente di Paolo, quando Francesco dovette diventare, volente o nolente, due fratelli in uno. Così ora era lui a seguire il padre, al pomeriggio, innestando le sue fantasie sul mondo agreste, con tutti i dubbi che ne conseguivano: “Ma babbo, ma quando verranno a prenderci da Marte, è più importante che io mi porto la motozappa o un sacchetto di semi di peperone?”
L’equilibrio già precario si spezzò definitivamente la sera in cui bussarono alla loro porta. Stavano cenando, e fu proprio il padre ad andare ad aprire. Il primo a palesarsi fu il maresciallo dei carabinieri. Subito dietro si intravedeva Francesco, mezzo nascosto dalla figura abbondante. Dal nero e rosso dei severi pantaloni d’ordinanza, faceva capolino un piccolo triangolo di stoffa, azzurro e lucido. Il lembo di un mantello. Aveva attraversato il corso principale del paese al tramonto, all’ora in cui i vecchi si sedevano fuori dai bar a bere una birra e fare una partita a carte, in costume da Superman. Aveva attraversato il corso principale del paese correndo con il braccio destro alzato, tutto teso in avanti, come se dovesse prendere il volo da un momento all’altro, urlando “Ora vadooooo”.
Urlava così tanto e così forte, che alla fine il maresciallo dei carabinieri si era deciso a lasciare il suo tavolino, le sue carte e il suo bicchiere, e lo aveva acciuffato e riportato a casa. Il padre ascoltò il racconto del maresciallo, invitandolo a entrare per offrirgli almeno un bicchiere di vino, per risarcire quello rimasto a metà sulla piazza.
Poi fece entrare Francesco, e lo mise a sedere a tavola, in costume da Superman, senza dire una parola. Senza dire niente né quella sera né dopo, senza dire niente mai più.
Con Paolo non parlava già più dai tempi dell’incidente. Per una strana capriola del pensiero, odiava il figlio monco, che non gli permetteva di sentirsi in colpa come si deve, di odiarsi fino in fondo. Era ancora vivo, era rovinato per sempre.
Dopo la sera del maresciallo prese a comportarsi come un uomo senza figli, senza nessuno a cui tramandare la sua vita. Nel giro di qualche anno si accordò per affittare la terra a una famiglia di indiani, per poi vendergli infine l’azienda: l’indiano sì che aveva figli, tanti, dieci, di cui ben sette maschi, tutti felici di aiutare il padre in campagna, tutti con tutte due le gambe, e senza costumi da Superman.
Fece passare ancora qualche tempo, e infine sparì. Uscì una sera dicendo che andava al bar e non tornò più, senza dire una parola di troppo, senza lasciare un biglietto, una traccia, niente. Solo una montagna di alici impanate e fritte.
“Uno non corre e l’altro corre troppo” questo fu l’unico commento che fece la sera in cui il maresciallo riportò a casa Francesco, prima di andare a dormire, alla madre. Paolo lo sentì di sfuggita, mentre passava davanti alla porta della cucina per andare in bagno, ma a Francesco non disse mai nulla.
Suo fratello crebbe, e restò in paese. Fece tanti lavori, tutti lavoretti, cameriere al bar della piazza, magazziniere alla ferramenta. Anche aiuto edicolante per un po', ma per poco, leggeva tutti i giornaletti stropicciandoli e macchiandoli con le sua mani appiccicose, così fu cacciato via.
Diventò un ragazzone abbondante, come il maresciallo, al quale assomigliava anche un poco. Non si sposò mai, e nessuno lo vide mai con una ragazza, anche se a volte alla terza birra biascicava qualcosa di bionde formose che lui rifiutava. Viveva ancora con la madre.
D’estate, quando Paolo tornava al paese, non si faceva vedere quasi mai. Millantando fantomatici impegni, usciva quasi ogni mattina prima di loro, per rincasare quando loro erano già andati a letto.
Alla terza scopa si risvegliò dai suoi pensieri. La madre lo guardava sospettosa, odiava pensare che il figlio la facesse vincere apposta. Paolo le sorrise affettuoso. E se fosse stata lei che in realtà faceva finta di essere sospettosa, solo per compiacerlo? Si mise a contare i punti per segnarli sul foglietto.
Fu allora che lo vide. Dietro gli spessi occhiali da ipermetrope, dietro il velo di una cataratta incipiente. Un battere di ciglia un po’ tremulo, un movimento degli occhi rapido e inconscio, prima a destra poi subito a sinistra. Uno sguardo diverso, un lampo di luce. Uno sguardo mai visto. Era sincerità, era purezza, quella che vedeva negli occhi buoni di sua madre.
Ma non guardava lui. Guardava oltre la barriera del materassino, pochi metri più in là. Guardava una coppia arrivata da poco, che stava seduta su un grande telo di cotone marrone. Ma non guardava loro. Guardava il bambino che era con loro, un bambino di circa un anno, che si divertiva a giocare con una pigna e qualche ago di pino.
Il bambino la vide, e le sorrise. Lei rispose facendogli ciao ciao con la manina, gli occhi ora umidi dietro le lenti. Paolo sentì l’aria mancare, sentì quella coda ridicola da cane da salotto che portava attaccata all’anca destra, fremere nervosa.
Ma non guardava il bambino. Guardava il suo desiderio di essere nonna, un desiderio che aveva coltivato per anni, in silenzio, fra alici impanate e partite a carte, un desiderio che né lui né suo fratello avevano soddisfatto, e, oramai era chiaro, avrebbero soddisfatto mai più. Guardava la sua stanchezza, i suoi capelli sempre più grigi, guardava la sua voglia di smettere con quell’eterna matritudine, fatta di riti e infingimenti.
Paolo allungò il collo oltre il materassino di protezione per osservare meglio il bambino, che sorrise anche lui, cercando di tirarsi in piedi, e lo trovò grasso e con la testa a ogiva.
“L’estate prossima”, pensò scartando un re di coppe, “me ne vado in vacanza a New York”.

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