“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 09 December 2013 00:00

Fitzwilliam Darcy

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Quando, dopo tanti anni, incontrai quello che oramai chiamavo Fitzwilliam Darcy, il tempo era discreto, era una di quelle giornate di fine estate in cui l’umidità non sa più se appartenere all’estate o all’autunno. Via Toledo era affollata come al solito, nugoli di persone come strambe nuvole di passaggio. C’era confusione intorno a me, ma io ero immerso nel silenzio delle mie considerazioni. Il sudore mi bagnava lievemente la fronte mentre l’umidità divenuta fredda come una vecchia lama arrugginita aveva deciso di scavarmi le ossa. Camminavo a testa alta (perché sono abituato così) e con le mani conficcate in profondità nelle tasche del pantalone di lino. E pensavo. Pensavo, poi. Diciamo che contavo i soldi.

Non che li contassi effettivamente, sfogliando le banconote e umettando con foga l’indice della mano destra, li contavo mentalmente, rispondendo a me stesso con l’autorevolezza di un ragioniere. I lavoretti che facevo mi permettevano di pagare l’affitto e le bollette, di mangiare tutti i giorni qualcosa, ma poco più di questo. Contavo i soldi che avrei guadagnato a fine settimana e sottraevo i soldi dell’affitto, delle bollette e delle spese alimentari. Dopo aver fatto il calcolo due volte: un sorriso. Mi accorsi che quella settimana sarei potuto uscire ben due volte. Uscire e bere, si intende. Non che fosse la mia unica attività, il bere, ma era quella per la quale avevo bisogno di soldi. Anche fare una passeggiata fantasticando sui regimi di probabilità del passato e del futuro o ragionando sulle articolate aporie delle democrazie occidentali è una cosa che amo fare, ma non bisogna sborsare nulla.
Sorridevo perché soltanto se lo avessi voluto, sarei potuto andare a bere per ben due volte. Bere, poi. Occorre una precisazione. Diciamo che a quel tempo frequentavo solitamente:
1) una piccola cantina dei quartieri spagnoli dove nel terzo millennio e in pieno occidente ti puoi ubriacare con molto meno di 10 euro – la cifra dipende ovviamente dalla capacità di assorbimento da parte della mucosa dello stomaco;
2) alcuni baretti del centro storico che ti vendono i cicchetti di whisky a 2 euro. Cicchetti, poi. Anche in questo caso occorre una precisazione. Diciamo che si trattava di roba contraffatta. Non credo che il sapore del Jameson possa cambiare se bevuto a un bar dove lo paghi 4 euro o a un altro dove lo paghi 2, ammettendo che entrambe le volte lo si beva con il culo ben assestato su una poltrona, dunque con il servizio compreso. Le cose hanno un valore e questo si calcola in denaro, ma le proprietà organolettiche di un medesimo prodotto non si misurano a suon di soldi. In più le poltrone avevano grossomodo lo stesso valore e il medesimo livello di comodità. E così quando dico cicchetti contraffatti intendo dire che il barista, a torto o a ragione, versava all’interno della bottiglia di Jameson un whisky di pessima qualità, quelli da 4 euro al discount. Si potrà anche dire che a Napoli gli intenditori di whisky sono pochissimi e quei pochissimi non hanno bisogno di bere cicchetti da 2 euro, ma si dovrà anche ammettere che i non intenditori hanno bisogno di bere cicchetti da 2 euro perché
1) vogliono ubriacarsi,
2) hanno pochi soldi,
3) subiscono il fascino estetico del whisky.
Altri bar invece usano una tecnica diversa. Versano un po’ d’acqua all’interno della bottiglia. Il whisky ovviamente cambia colore e il sapore è sicuramente più leggero ma in un certo senso puoi dire di aver bevuto Jameson.
Ero contento, comunque. Contento, poi. Occorre una precisazione. Diciamo che assaporavo già il saporaccio del mio caro Jameson da 2 euro. Mercoledì e/o giovedì, dovevo soltanto decidere. Poi all’improvviso un pensiero come un'ape che si poggia sul fiore sbagliato e rimane appiccicata: la mia compagna mi aspettava a casa, forse stava già cucinando. Mentre giravo per una di quelle strade che da via Toledo salgono nei quartieri spagnoli, come piccole venuzze azzurrognole e sfasciate sulla coscia della vecchia e sfatta puttana Napoli, mi sentii chiamare. Di solito non mi giro mai quando qualcuno mi chiama. Non so perché, non ho traumi né infantili né adolescenziali né giovanili. Non lo faccio punto e basta. Poi se capita che insistono, ma devono proprio insistere, mi giro. E allora posso farlo anche con cordialità. Cordialità, poi. Anche ora occorrerebbe una precisazione. Diciamo che accolgo la persona che ha tanto insistito per salutarmi con un sorriso non proprio di circostanza ma neanche di benevolenza. Continuai allora a camminare, secondo le mie abitudini. Non passò neanche un istante che mi sentii chiamare di nuovo. Feci nuovamente finta di nulla. Ero oramai dentro il mio vaso sanguigno azzurrognolo e accogliente quando quella voce chiara e potente mi afferrò per il braccio. Vorrei dire che riconobbi la stretta, ma non fu così, anzi mi infastidì. Fui costretto a girarmi. Era Fitzwilliam Darcy. Quella volta il mio sorriso fu qualcosa in più di quello di compiacenza e qualcosa in meno di quello di stupore. Mi accolse con un diluvio di parole, non sapevo dove ripararmi. Mi raccontò che la sua esperienza nell’esercito era finita già da un bel po’, che non voleva fare più missioni di pace. Si fermò soltanto per un attimo per vedere se sul mio volto che lui considerava da perfetto intellettuale fosse comparsa complicità per quella parola “pace”. Io sorrisi e basta. Non di gusto, ma sorrisi. Intanto guardavo a terra e riconoscevo il viscido colore del mio quartiere. Mi raccontò subito che usciva con una bella ragazza, di quelle che escono fuori da (o che vorrebbero entrare in) Uomini e donne di Maria De Filippi. Lo so, mi disse, che tu non avrai la televisione, perché sei intellettuale etc. etc. e gli intellettuali etc. etc., ma ti posso assicurare che è proprio una bella guagliona, tette non troppo grandi ma non piccole e culo di pietra, cosa vuoi di più dalla vita? E scoppiò in una risata isterica, soltanto un attimo e proseguì. Forse non è troppo intelligente o più semplicemente ha pensato che l’intelligenza non è poi tanto utile di questi tempi. Perché secondo te è utile l’intelligenza? disse allegro e facendo una sorta di occhiolino. Ai suoi ammiccamenti continui, io sorridevo e basta. Sorridevo, poi. Occorre una precisazione: un sorriso che è qualcosa in più di una smorfia della bocca, e qualcosa in meno di un sorriso di imbarazzo. Intanto guardavo talvolta le mie scarpe: avevano delle strane macchie che assomigliavano a nuvole che assomigliavano a strani animali. Poi mi raccontò che un paio d’anni prima era stato con una ragazza brutta, proprio il cesso e quando dico il cesso… D’accordo, lo fermai. Ma poi cambiò umore e mi bloccò con un braccio, voleva che io lo fissassi dritto negli occhi mentre mi raccontava questa storia. E io lo fissai con attenzione: il suo volto era molto cambiato da allora, gli zigomi si erano allargati e tendevano come un tamburo la pelle secca della faccia, le labbra erano due moncherini, gli occhi due lamiere opache. All’inizio mi sembrava timidezza, e io amo la timidezza, disse, ma poi si rivelò paranoia. Era una paranoica. I suoi occhi erano un fondo di bicchiere in cui non fa bene specchiarsi, disse (respirando profondamente, come se stesse aspettando di dire quella frase da un pezzo). Mi raccontò poi che lui la prendeva per mano e a volte lei piangeva senza motivo. Era come una bambina ma il suo sorriso era di madreperla spaccata. Un giorno lei gli aveva confessato di essere stata violentata quando era piccola. Non una violenza vera e propria, precisava. Nessuna penetrazione di nessun pene maschile. Due dita conficcate proprio là. Le aveva sentite fin dentro lo stomaco. Era anche uscito un po’ di sangue, ma poco. Chi è stato? le aveva chiesto Fitzwilliam. Questo non te lo posso dire, aveva risposto. Non ne avevano parlato più. Poi chissà come si erano fidanzati. Comunque a letto c’era una grande intesa. Non sempre, ma quasi. Ma perché tu con la tua ragazza fai sempre l’amore con la medesima intensità? (a proposito stai ancora con “come si chiamava”? certo, risposi, abbozzando un sorriso che era qualcosa in meno di un sorriso di complicità e qualcosa in più di un sorriso di fastidio). Poi mi raccontò che le aveva dato tutto, le aveva pagato una casa di cura, aveva conosciuto subito i suoi parenti, aveva parlato con il prete della parrocchia, andava a mangiare a casa dei genitori di lei tutte le domeniche. Mi disse ancora che in lei vedeva il segreto del dolore umano. Un piccolo e opaco verme della sofferenza. Verme della sofferenza? mi scappò. Sì, non bella ma affascinate. Riesci a capire? mi chiese. Io sorrisi per non dire no. Sorrisi, poi. Occorre una precisazione. Diciamo: una specie di smorfia che era qualcosa in più della compassione e qualcosa in meno della partecipazione emotiva. Mi disse poi che il suo “verme della sofferenza” stava migliorando e proprio quando aveva ripreso a uscire e lo psichiatra le aveva comunicato che si trovava a buon punto sulla strada della guarigione e che le avrebbe abbassato la dose di quelle maledette gocce che la rincoglionivano e manco sesso le facevano fare, aveva tentato una prima volta il suicidio, si era tagliata le vene male e non in profondità, aveva avuto paura ed era stata salvata dal padre. Una seconda volta aveva preso l’auto ma non aveva avuto il coraggio di buttarsi nel Tevere (questo, Fitzwilliam Darcy, l’aveva saputo da lei, il giorno prima che morisse, mentre lo guardava con occhi di pietra mal sbozzata). Infine ce l’aveva fatta: impiccata in casa con un foulard che gli aveva regalato. Aveva sofferto molto, disse il medico legale, e aveva tentato disperatamente di liberarsi. Doveva aver scalciato a lungo. Un calcio aveva fatto volare la lampada del comodino. Un altro un mappamondo a puzzle che le aveva portato Fitzwilliam. Il padre voleva strapparsi i capelli per non essersi accorto di nulla. Io pensavo che fosse soltanto senso di colpa. La madre mi disse che era morta anche lei quel giorno. Non le credetti. I vivi sono vivi, mentre i morti sono morti. Il resto è filosofia (a proposito studi ancora filosofia? mi chiese allegramente, certo, risposi abbozzando un sorriso che era un po’ meno di un sorriso confidenziale, un po’ più di un sorriso di noia). Forse si era pentita, concluse, o forse la morte dovrebbe sempre arrivare quando noi non ci siamo più.
Lo presi sotto braccio e ci andammo a sedere in quella cantina dei quartieri spagnoli che con pochi soldi ti fa ubriacare. Fitzwilliam voleva parlare, anzi voleva ricordare. E voleva bere, ovviamente. Fu il momento del nostro ricordo preferito. Quando arrivò quel momento, eravamo al terzo bicchiere di vino. Fortunatamente voleva offrire lui, sennò addio alle due uscite settimanali. Insistetti poco e sorrisi molto. Non te la passi benissimo, eh? mi chiese. Non benissimo, ma bene direi di sì, risposi. Io ho da parte un bel po’ di soldi, sai, le missioni di pace fanno guadagnare bei soldi. Avevo quasi pensato di sposare la pazza, ma poi si è ammazzata. La guerra lascia sempre uno strano doppio fondo, disse poi all’improvviso come perdendosi all’interno di collegamenti neuronali a me sconosciuti. La morte è sempre qualcosa di strano, e lei, il mio verme, mi ricordava un pezzo di cadavere saltato su una mina. Poi all’improvviso cominciò a eccitarsi. Le persone normali non capiscono, questa è la verità. Sì, fai i soldi, è vero e uno lo fa pure. Ma la gente comune non capisce. Poi mi fissò con gli occhi di fuoco. Il vino rosso cominciava a dare i suoi frutti. La gente comune non capisce, ripeté. Io accesi una sigaretta e dissi: cosa devono capire le persone normali? Che forse in determinate circostanze è meglio saltare su una mina o impiccarsi oppure godere sfrenatamente con la puttanella di turno, no? Non lo so, è tutto troppo facile così. Facile? Io ho fatto la guerra, mica la pace. Beh, io no, gli risposi a questo punto feroce. Appunto, lui disse. Rimanemmo qualche attimo in silenzio. Uno strano uccello sembrava volteggiare sulle nostre teste, alzai anche la testa per vedere che cosa fosse, poi uno strano vento di maestrale attraversò la nostra discussione sospesa, stava cambiando il tempo e forse cominciava a fare freddo. All’improvviso, l’uccello si posò da qualche parte e Fitzwilliam ordinò ancora da bere e riprese a sorridere. Il suo sguardo era di nuovo quello del ragazzino di vent’anni fa. Lui non lo sa probabilmente, ma è stato uno dei miei maestri. Negli ultimi quindici anni ci siamo visti sette otto volte. Non capisco cos’è che mi lega ancora a lui e soprattutto cosa lega lui ancora a me. Non abbiamo condiviso nulla nell’età in cui si comincia a condividere con gli altri, non siamo diventati uomini insieme e cose del genere. E così mentre io mi perdevo, un po’ per l’alcool un po’ per la malinconia, negli stretti vicoli della mia mente, lui intanto cominciava il suo ricordo preferito e ordinava ancora da bere. Erano gli anni del rinascimento bassoliniano (ma noi non ne capivamo molto, anzi proprio nulla) e stavamo a piazza Plebiscito liberata dal parcheggio. Avevamo dodici anni o forse tredici, non ricordo più. Scendevamo di casa con il pallone sotto braccio, da Montesanto giù per via Toledo fino a piazza Plebiscito. Eravamo ragazzini mal cresciuti, per noi le femmine non esistevano ancora, anzi era da ricchioni pensare alle femmine. Vestivamo in maniera improvvisata, l’unica cosa decente era la tuta, perlomeno aveva un senso. I capelli poi erano una zazzera sporca e confusa. Non esisteva ancora la moda per i dodicenni. All’epoca i dodicenni (o tredicenni) erano dei bambini di dieci anni troppo cresciuti. Niente di più. Noi giocavamo a pallone sempre e comunque e ci lavavamo poco. E puzzavamo, ovviamente. Puzzavamo, poi. Occorre una precisazione. Diciamo che eravamo adolescenti ed è normale, di lì a poco ci saremmo fatti anche le prime seghe – con colpevole ritardo, dice qualcuno. Quando giocavamo a pallone Fitzwilliam era quello forte, io quello scarso. Fitzwilliam era quello alto, io quello basso. Fitzwilliam quello magro, io quello burroso e grassottello. Fitzwilliam aveva deciso di fare il calciatore da grande, di lì a qualche mese avrebbe fatto un provino con il Parma, io stavo decidendo (inconsapevolmente) che avrei fatto l’intellettuale e forse lo scrittore, cominciavo a leggere i primi libri e a scribacchiare le prime frasi. A Fitzwilliam non lo prese nessuna squadra perché anche se fortissimo non era integro fisicamente, a me nessuno badava perché divenivo un adolescente che leggeva, che si faceva le seghe con i sensi di colpa, che non riusciva a intrattenere rapporti con l’altro sesso. Fitzwilliam si infortunava spesso, la maledetta cartilagine del ginocchio, io non potevo amare lo sport perché avevo cominciato a leggere Baudelaire troppo presto. Il padre puntava tutto su di lui, e lo massacrava di allenamenti. Io di lì a un paio d’anni cominciai a bere le Peroni. Lui cominciò a bere con me, perché eravamo inseparabili in quel periodo e perché bere fa divertire. Ricordo anche che lui sapeva essere eccezionalmente brillante e arguto, era più dotato di me anche in quello. Poi il padre riuscì a impedirgli di frequentarmi, la mia famiglia era atea e comunista, il padre era credere obbedire combattere. Da allora ci siamo rivisti pochissime volte, ma mi è sembrato di capire che l’amicizia è una cosa strana, quando nasce a undici anni. Per accontentare il gusto del padre scelse poi di fare il soldato. Scelse, poi. Anche in questo caso occorrerebbe una precisazione. Diciamo soltanto che sono quelle scelte che maturano marce su determinati alberi familiari. Ti ricordi i tizi che ci fermarono? mi chiese all’improvviso. Certo, dissi. Fitzwilliam aveva gli occhi lucidi. Non potevo abbandonarlo lì, a Napoli in quella giornata umida di fine estate a macinare i suoi ricordi da solo. E poi Fitzwilliam voleva che io gli regalassi una serata come quelle dei vecchi tempi che però non ci sono stati mai. Chissà quanto dolore del presente ci vuole per inventarsi i vecchi tempi del passato. Comunque erano due tipi loschi. Loschi, poi. Ancora una precisazione. Diciamo due tipi che, poi, vivendo e crescendo nei quartieri spagnoli non sono altro che la fauna comune, gente che deve portare i soldi a casa. Gente che poi ne vuole portare sempre di più perché i soldi fanno godere. E il godimento eccita. E così poi capita che tra una masturbazione e l’altra si ammazzano a vicenda.
Ci fermarono e con un tono imperativo della voce ci obbligarono a prendere parte a una partita di pallone undici contro undici (o forse eravamo di meno, ora non ricordo). La partita si giocava lungo tutta l’orizzontale di piazza Plebiscito. L’obbligo non riguardava soltanto il fatto di partecipare a questa partita insieme a una marmaglia informe di ragazzini di tutte l’età, l’obbligo era quello di vincerla perché vedete bene voi siete un po’ più grandi degli altri e capite certe cose, questa partita la dovete vincere e poi sapete giocare a pallone, no? Io intanto fissavo un blocco di banconote nella sua mano sinistra (e di caravaggi ce n’erano eccome), nella destra aveva un pezzetto di carta e una penna. Lo sguardo di quello grosso e con la gelatina era abbastanza eloquente, l’altro era distratto da qualcosa. Fitzwilliam Darcy (che all’epoca non usava ancora questo nome) scoppiò a ridere. Poi mi guardò. Io ero cupo (come al solito) ma dovemmo accettare. Non ti preoccupare, disse Fitzwilliam, tanto vinciamo. I due tipi loschi poi ci dissero di aspettare e di fare due passaggi come riscaldamento. Io ero tesissimo, Fitzwilliam Darcy era allegro e cercava di mettersi in mostra facendo un numero incalcolabile di palleggi. Poi vennero altre persone, i volti non li ricordo, certi volti non si ricordano perché, credo, sono tutti uguali, poi quella è l’età delle generalizzazioni e delle astrazioni metafisiche, e così per me erano tutti un unico essere vivente, robusto, feroce, opprimente. Ma lo sai che ogni tanto ti leggo? disse poi Fitzwilliam Darcy, cambiando improvvisamente discorso. E dove? Il tuo nome è unico, basta cercare su google e il gioco è fatto. Chiariamoci, non sono come te, a me non piace leggere, è una cosa che non faccio mai, ma a te ti leggo. Io non risposi e sorridevo. Provavo ancora lo stesso imbarazzo di vent’anni prima e poi una strana impressione, come se uno straccio da cucina avesse cancellato tutto il mio passato dal momento della partita di pallone fino a quando c’eravamo seduti. Due persone dalla solitudine densa come un vecchio vino di paese, seduti attorno a una botte che funge da tavolino, e che bevono tutta la notte e cercano invano di ricordare l’unico ricordo che posseggono. Roba da scriverci un racconto, pensai. Veramente ti leggo, se vuoi ti racconto quello che scrivi così mi credi, ed esplose in una risata eccessiva. Un gatto nero che stava attraversando la strada fece un salto e il pelo sulla schiena divenne una sorta di piccola cresta. I nostri vicini di botte ci fissarono. Fitzwilliam chiese allegramente scusa, è che non ci vediamo da tanti anni e poi da quanto tempo non ridevamo così, eh? Non risposi e soprattutto non seppi ricostruire quand’è che avevo smesso. Ora sorrido, pensai, ma soltanto sorrisi che hanno una semantica ben precisa. Ci misero entrambi in attacco. Eravamo la coppia del gol, soltanto che Fitzwilliam era forte, io no. La partita cominciò non appena quell’unico essere vivente robusto, feroce, opprimente si accordò. Due tempi di trenta minuti e senza riposo tra un tempo e l’altro. Semplice. Che senso hanno due tempi allora? stavo per chiedere, ma preferii tacere. Il primo gol lo prendemmo quasi subito, ricordo soltanto la mia gioia per non esserne stata la causa, azione centrale (io giocavo chissà perché in attacco ma spostato un po’ sulla fascia sinistra), passaggio sulla sinistra poi di nuovo al centro, un bambino piccolo piccolo che giocava con noi fu spazzato via dal fuoriclasse della squadra avversaria, un ragazzone grasso e grosso, poi il tiro di una potenza incredibile. Gol: 0-1. I due tipi loschi ci fissarono e Fitzwilliam fece un cenno con la testa come a dire “tanto vinciamo lo stesso!”, loro non credo apprezzarono. Ricordo ancora la puzza di sudore di alcuni di quei bambini che mi giravano intorno. Durante il primo tempo, Fitzwilliam mi fece saltare i nervi. Si divertiva a scartare tre quattro avversari, poi cercava un passaggio difficilissimo e perdeva la palla. A causa di una sua leggerezza stavamo per prendere il secondo gol, il ragazzone questa volta aveva sparato talmente forte e (probabilmente) alto che, non esistendo pali e traverse, gli arbitri (che poi era il solito essere vivente robusto, feroce, opprimente) dopo litigi che mi fecero sudare freddo decisero che non era gol. Il pareggio arrivò proprio alla fine del primo tempo. Come una libellula dal volo potente e rumoroso, Fitzwilliam, dopo aver scambiato con qualcuno a centrocampo, si era involato sull’out di destra, poi aveva passato al centro, tesissimo, quasi un tiro, io arrivavo dalla sinistra e svirgolando clamorosamente mi capitò di fare una sorta di pallonetto che ingannò difensori e portiere e si insaccò (in realtà il sacco non c’era, i pali erano delle buste dell’immondizia, abbastanza alte e resistenti) con mio grande stupore. L’unica cosa che ricordo è la risata di Fitzwilliam Darcy, una risata di cuore, piegato in due. Un sorriso si compose anche sul volto dei due tipi loschi. Così finì il primo tempo. Io volevo andarmene.
Ma poi perché hai scelto di rimanere a Napoli? mi chiese Fitzwilliam, come se fosse la più normale prosecuzione del discorso. Non riuscii a sorridere quella volta, non abbozzai neanche un sorriso che fosse qualcosa in più di un sorriso di circostanza, pur restando qualcosa in meno di un sorriso di complicità. Le motivazioni sono tante, sai com’è, e poi in definitiva mi piace stare qui. Lui intanto seguì un suo pensiero attraversare la strada e perdersi dietro Vico della Tofa. Non dire cazzate, ma che fai dalla mattina alla sera? mi chiese con gli occhi stravolti. Poi immediatamente: devo andare a pisciare. Scappò via mentre stavo per dirgli che dovevo pisciare anch’io. Buttò per l’aria inciampando un paio di sedie, ma scoppiò a ridere e nessuno se la prese. Aveva voluto lasciarmi il tempo per pensare alla risposta oppure semplicemente doveva pisciare e non ce la faceva più. Quando tornò, barcollava di qua e di là e il barista (barista, poi, diciamo cantiniere), sorridendo, disse che li avrebbe portati lui i due bicchieri. Perché bevi tanto? lo aggredii senza motivo. Lui rimase a fissare qualcosa sul bordo esterno della botte, poi un colpo secco con la mano sinistra. A qualcuno cadde un bicchiere di vino e si rovesciò sulla botte che fungeva da tavolo. Mi mostrò fiero quello che rimaneva di una zanzara. Perché non pensavo di incontrarti e tenevamo un’ubriacata in sospeso da un po’, non credi? E scoppiò a ridere. Poi divenne cupo. Io bevevo e fumavo. La percezione del tempo, quando si è ubriachi, è particolarmente ingannevole. All’epoca mi sembrò che avessimo trascorso almeno una mezzoretta senza parlare e del resto leggevo Dostoevskij, ora credo non fossero più di massimo quattro cinque minuti. Il 2-1 fu un gioco da ragazzi. Fitzwilliam aveva cambiato espressione, aveva preso palla a centrocampo, io stavo defilato sulla sinistra anche per non stare troppo nel vivo dell’azione, avevo fatto un gol e bastava, non dovevo fare cazzate. Aveva scambiato due volte con il nostro minuscolo compagno di squadra. E che tocco che aveva quel ragazzetto! E poi Fitzwilliam si era involato verso la porta, aveva messo a sedere prima due difensori (e quando dico a sedere, non lo dico per ripetere un modo di dire) poi aveva sbilanciato con una finta di corpo il portiere (senza neanche sfiorare la palla mentre come guidata dal suo pensiero la palla proseguiva nella perfetta direzione) e aveva segnato appoggiando la palla in porta e fermandola qualche centimetro più in là dell’immaginaria linea. Qualcuno gridò e mormorò qualcosa, lo ricordo benissimo. Fu interpretato come un gesto che umiliava l’avversario. Ci fu un litigio da qualche parte. Fitzwilliam sorrideva e chiedeva scusa. Non era un tipo con il quale era facile incazzarsi. Io rimasi in disparte mentre i nostri compagni di squadra urlavano impazziti. 2-1 e palla al centro. Mancava però praticamente tutto il secondo tempo e io non ce la facevo più. Che bel gol che ho fatto, eh? disse Fitzwilliam mentre buttava giù l’ennesimo bicchiere di vino. Io feci un cenno con la testa che intanto sbatteva tra le pareti immaginarie della mia ubriacatura. E poi non ho capito cosa volevi dire con questa cosa del “bevi sempre tanto”, ti sembro una persona depressa, una di quelle persone che raccontano la propria miseria soltanto con lo sguardo, vero? Ed esplose a ridere. I suoi occhi avevano cambiato luce e le palpebre ne coprivano oramai più di metà. Non era abituato a bere, del resto. Un personaggio da mettere nei tuoi racconti, eh? disse con tono di voce squillante e mimando con gesti qualcosa di ridicolo. No, risposi conficcandogli senza pudore gli occhi sul volto scarnificato. Che poi manco ti pagano per scrivere, ma che cazzo scrivi a fare? Poi, d’improvviso, lasciò cadere la testa penzoloni, aveva gli occhi chiusi. Sì, il suo cuore era in frantumi e non era per nulla abituato a bere. Mi si avvicinò il barista. Dissi che non era niente e che bastava aspettare un po’ e che comunque me ne sarei occupato io. Passò un bel po’ di tempo. Io ero imprigionato in quel bar, con Fitzwilliam Darcy completamente ubriaco, e la mia testa che non riusciva a inseguire nemmeno le lettere dell’alfabeto di un libriccino che tenevo fra le mani (dove l’avevo preso?). Ricordo che fumai un numero irrazionale di sigarette, rullandone una dopo l’altra e rullandole sempre peggio. Avevo la bocca impastata e la gola quasi stretta in una morsa. Pensai alla mia compagna, stava a casa a poche decine di metri da quella cantina e già mi mancava il suo focolare.
Poi alzò la testa. Ti ricordi che cazzata che feci e prendemmo il secondo gol? La partita era quasi finita quando Fitzwilliam mi disse che avrebbe preso palla e sarebbe andato a segnare. Semplice. A Fitzwilliam piaceva molto la scena di quel film, Fuga per la vittoria, quando Pelè, che non voleva seguire gli schemi del mister, impugnava il gessetto e su una lavagnetta disegnava un ghirigoro e faceva capire quale sarebbe stata l’azione da gol, avrebbe preso la palla, avrebbe scartato tutti e avrebbe segnato. Semplice. Poi accadde che il portiere gli passò la palla, io gli chiamai l’avversario che stancamente gli veniva addosso, lui fece un saltello sulla palla, cercò di alzare il pallone e fare un pallonetto all’avversario, la palla, che era più leggera di un pallone di cuoio, gli scappò via, nel rincorrerla inciampò ridicolmente, l’avversario prese palla e a occhi chiusi tirò, fu il 2-2. Te la sei goduta all’epoca quella cazzata, eh? Le paranoie non erano sfumate, la sua testa ciondolava, i suoi occhi faticavano a mettere a fuoco qualcosa che si trovava sui suoi pantaloni. No, direi di no, risposi con tono di voce insulso. Fitzwilliam alzò la testa, aveva la faccia anni ‘30, ricordava Meazza o qualcun altro, capelli con fila di lato, dietro molto corti, più lunghi avanti. Un ciuffo era oramai sfuggito alla gelatina e gli copriva a metà un occhio. Con una mano dai movimenti impiastricciati provava a toglierselo da davanti.
Devo andarmene da qui. Non da Napoli, intendo, da qui proprio. Qui dove? Qui è qui, rispose e con un ampio gesto delle braccia abbracciò tutta la realtà. Non capisco, finsi. Non era questa la vita che volevo fare, semplice. Hai bevuto troppo e poi quale vita volevi fare? Basta con queste chiacchiere!, urlò. Parliamo piuttosto del terzo gol.
La partita era quasi finita e le facce dei tipi loschi erano (almeno così le ricordo) completamente deformate. Mi passarono la palla (cercavo di evitarlo stando defilatissimo e sempre in una posizione in cui era difficile passarmela), la stoppai discretamente, riuscii non so come a saltare un avversario (era il ragazzo grosso e grasso, non ce la faceva più a correre), Fitzwilliam subito si fece vedere al centro, avevamo la superiorità numerica. La passai a lui rasoterra, in maniera tale da metterlo in movimento, poi scattai immediatamente. Lui me la ripassò alta, io tentando di stopparla feci un colpo di tacco a seguire e misi fuori tempo un altro difensore, mi ritrovai magicamente la palla tra i piedi proprio davanti al portiere. Mi uscì a valanga addosso, io cercai di tirarla con il classico colpo di punta. La palla, colpita di striscio perché avevo beccato soprattutto la gamba del portiere, lentamente superò (o almeno così parve a noi) la linea di porta, prima che un difensore la spazzasse via. Io festeggiai immediatamente e anche Fitzwilliam. Fummo in un batter d’occhio circondati dai ragazzini della squadra avversaria che dicevano che la palla non aveva superato la linea. Si accese la lite, io mi beccai pure un paio di schiaffoni da parte del ragazzone grasso e grosso, Fitzwilliam menava calci a destra e a manca, ma non veniva colpito, era troppo alto. Si misero in mezzo un bel po’ di persone. Noi ce ne scappammo e non abbiamo più saputo come è andata a finire. Che doppietta, eh? la più importante della tua carriera! Io sorrisi e restammo per un po’ in silenzio.
Sono contento di averti rivisto, io sto partendo. Dove vai? Rimaniamo in contatto e te lo faccio sapere, magari mi vieni a trovare. Ci salutammo senza troppe smancerie. Semplicemente, all’improvviso io mi ritrovai a salire via Concezione a Montecalvario mentre lui svaniva giù ingoiato da via Toledo.
Da allora non ho più rivisto Fitzwilliam Darcy e credo che non potrò farlo più. Fu trovato morto in circostanze misteriose. Dove? chiesi. A Roma, rispose un comune amico che lo aveva saputo per vie traverse. Quella sera andai a bere da solo e ricordo che fu proprio una brutta serata. Tra le altre cose mi tormentava l’idea di non avergli mai chiesto perché mai si facesse chiamare Fitzwilliam Darcy.

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