“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 05 November 2013 01:00

Anabasi

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Ok, bravo latte. Vieni qui, vieni qui. Così. Il manico automatico si chiude sulla mano con uno scatto. Il ferro del cestino è freddo, e io rido, rido piegandomi all'indietro e torcendo la gola nello spasmo. Dolce, dolce soluzione di caseina e lattosio! Calmerai quest'arsura che punge la mia bocca. I tubetti lucenti esplodono in un tintinnio metallico mentre mi getto nell'ascensore pneumatico. I riflettori ad ogni piano passano e se ne vanno, senza ferirmi. Cado anch'io in un tubo finché tutto non si ferma con un dolce pfsst.

I piedi a terra, sbuffo fino a sgonfiarmi. Mi fischiano le orecchie mentre il grande tubo si decomprime, tagliandosi e aprendosi nella parete trasparente per espellermi. Ok, cazzo. Ci sono. Sono in strada, dunque, ci sono io e sono di nuovo in strada, sotto questo caldo che deforma l'aria e sembra schiacciare tutto con una certa moderazione, sformandolo senza distruggerlo, per divertirsi.
Cammino, sollevo polvere. Tutto è appannato, opaco. Il piano grigio delle passerelle è falciato dalla luce di un sole bianco, maledetto sole bianco che tutto trapassa e perfora la pelle, chiedendo e spremendo tutti i fluidi che ora corrono lungo il mio viso, mentre cerco di trovare la strada di casa.
Barcollo. Pensieri idioti, mi sta salendo il mal di testa. Dovevo uscire, avevo fame. Dopo un po' non puoi farci nulla, se non puoi permetterti lo shopper elettronico a domicilio. Grigio e bianco a perdita d'occhio, coi profili alti degli sfondacieli in vetro e neocarbonio che continuano oltre il mio campo visivo. Sfuggite, alti palazzi? Chissà a che punto sono i lavori. Tiro un sospiro e alzo lo sguardo, facendomi scudo con la mano. Sorrido: posso tenere l'ultimo pentagono azzurro tra il pollice e l'indice, mentre i palazzi sono tanto alti da sembrare una carezza, piegati su di me come una madre in grande e funzionale culla.
Manca poco. L'altro giorno un operaio s'è bruciato il dorso della tuta mentre lavorava. Una scarica elettrica, pare dall'atmosfera di Venere. Al neurogiornale l'hanno presa come una cosa da ridere, ma, diamine, ci siamo quasi. Le radici di metallo hanno ingabbiato il magma del nucleo, permettendo alle travi di accumularsi su se stesse per miliardi e miliardi di volte. Dal centro, gli artigli metallici della civiltà sono destinati a spandersi nel vuoto, domando le orbite del sistema solare. Continueremo, continueremo perché ogni piano richiede un edificio, perché ogni ponte vuole una meta. Gli operai sono mosche attorno al riccio grigio che è la Terra, attorno alla stella di metallo destinata a portare dovunque i benefici dell'automazione.
A Giorgio B74 piace quest'elemento. Ho dimenticato la rete neurosocial accesa. Vabe', B74, riditela pure e va' al diavolo. Ah, il sistema ti ha taggato. Vedo che ti piace anche quando ti mandano all'inferno. Casa, finalmente. Il condotto di trasporto sbuca direttamente nel soggiorno. Mi accascio lungo la parete e allungo una mano verso i tubetti di latte. Tremo, la pelle del dorso mi si spacca. Dev'essere stato il sole.

 

NB: Il racconto "Anabasi" è stato selezionato tra i finalisti alla sezione narrativa del "Premio Michele Sovente", II edizione, 2013 (organizzato dall'associazione culturale Il diario del viaggiatore).

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