“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 28 October 2013 01:00

Portieri di notte (dramma calcistico a tre voci)

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“Descansate niño, che continuo io”
(Paolo Conte)

25 giugno 1930
Faccio in modo di passare sull’avenida quasi ogni giorno a guardare il nuovo stadio. Sono Juan Campisteguy e mi posso permettere di dare a quest’impegno quotidiano la cadenza e il vestito dell’occasione istituzionale.
Quattro mesi fa lo stadio non esisteva. L’hanno inventato i miei architetti. Quindi l’ho inventato io. Mi ci sono abituato, tanto da non riuscire più a ricordare, come quasi tutte le seicentomila anime di Montevideo, che cosa ci fosse prima in quel posto, una piazza, un giardino o semplicemente niente. Adesso c’è l’Estadio del Centenario, forse per festeggiare i cent’anni di indipendenza del paese, di certo per obliare il caos e la miseria che assediano il popolo. Diamogli templi, eroi, gesta, battaglie, e che coprano tutto.
È di Uruguay contro Argentina che abbiamo un disperato bisogno...

30 luglio 1930
Quasi le due. È luglio, ma sembra novembre; la temperatura è mite; o forse sarà stata tutta la gente stipata qui dentro, una persona sull’altra, a farla salire. Se è vero quello che hanno scritto i giornali siamo in novantamila.
Lo stadio trabocca di gente e il mio cuore di dolore e di rabbia.
Cosa si prova a non giocare una partita come questa? Mi hanno tolto una fetta di torta, una di quelle tre o quattro che il sapore non te lo dimentichi finché vivi.
Se l’Uruguay vincerà sarò l’unico perdente tra i vincitori. Abbiamo giocato tre partite prima di questa, per arrivare alla finale. Le abbiamo vinte tutte. Senza di me. Ballestrero, tiri pochi, ma ha fatto davvero un buon lavoro; ha preso un solo gol, inutile, era un 6 a 1 per noi. Quasi non ci credeva quando il Professore gli ha detto che tra i pali, dalla prima partita, sarebbe toccata a lui. Dopotutto se lo meritava. Ma se lo meritava anche Andres Mazali, lo meritavo anche io. Sì. E più di lui.
Il cielo mi fulmini, se una notte passata tra un tango, una bottiglia e le braccia confortanti di una donna mi hanno mai annebbiato i riflessi, il colpo d’occhio, il coraggio, il giorno dopo sul campo. La nostra è la squadra più forte del mondo e a difenderla dovevo esserci io, anche questa volta. Per me sarà un pomeriggio esaltante e terribile, se vinceremo o perderemo, in ogni caso. Non ci sono alternative.

11 luglio 1930
Manca una settimana. Si ballerà. Comando io. Albeggia, ma sono in piedi, sveglio. Non mi sono alzato di buon’ora: non sono andato a dormire, ecco tutto. Ho un appuntamento molto importante, a cui non posso mancare, anche se forse sarebbe meglio per tutti mandarlo a monte. Ho rischiato di cedere alla stanchezza, abbandonato in una delle comode poltrone nella hall del Prado. Non scendo in campo, io, ma lavoro come e più degli altri.
Se non vincessimo, il primo responsabile davanti alla nazione, sarei io. Il presidente Campisteguy mi ha telefonato tutti i giorni. Un paio di volte si è presentato addirittura di persona. Vuole sapere tutto, essere informato su ogni piccolo dettaglio. E anche domattina so che mi chiederà come sta Scarone, se Andrade è in forma, se i difensori li vedo abbastanza cattivi, se “El Mariscal” riesce sempre a tenere in pugno tutta la squadra fuori e dentro il campo; e se Mazali continua a parare tutto anche in allenamento.
E risponderò, con quella deferenza che non mi appartiene e che mi si cuce addosso da sola, appiccicosa e necessaria, che sì signor presidente, Scarone sta benissimo, Andrade è in forma smagliante, ha palleggiato per mezz’ora e la palla ha toccato terra solo un paio di volte forse tre ormai non faccio più caso; sì, i difensori sembrano dei cagnacci furiosi; e poi gli dirò di Mazali. Mazali para tutto, in allenamento anche dopo l’allenamento anche mentre dorme non l’ho mai visto così in forma non gliene scappa una ha sempre avuto dei riflessi prodigiosi ma come adesso...  ha salvato persino la bottiglia di champagne che il cameriere ha fatto cadere dal vassoio, ieri, al bar dell’hotel, un momento era seduto ad un tavolo a parlare con Gestido, l’attimo dopo era steso schiena a terra, cinque metri più in là con la bottiglia in mano e nemmeno una goccia sul parquet. E continuava a parlare. La nostra porta è in buone mani, non si preoccupi, Ballestrero è un ottimo portiere. Non è Mazali ma se la cava benone anche lui. Come? Ballestrero? Cosa c’entra? Cosa sta succedendo!? no, non sono impazzito. Presidente, è che in campo ci vanno loro, ma a mandarceli sono io. E devono meritarselo fino in fondo.
Quasi non l’ho sentito, vinto dal sonno, quando è entrato nella hall insieme alle prime luci di quell’alba fredda e triste. In una mano il cappotto, nell’altra quanto necessario a comprare il silenzio di un altro tipo di portiere, quello di notte. Al piano, si toglierebbe le scarpe, scivolando come un ladro nella sua stanza. Deve essere stata una bella notte, e vorrebbe anche una bella giornata.
Mi alzo di scatto e lo fulmino con uno sguardo che è una condanna, mi sento un boia. Andres Mazali, tu giochi la tua ultima partita importante qui, sulla moquette rossa e verde del Prado. E la perdi.
Conosco i calciatori; so che Enrique Ballestrero, con quelle orecchie sporgenti su una faccia da bravo ragazzo, quella occasione l’acchiapperà al volo. Da bravo portiere.

30 luglio 1930
Quando Nolo Ferreyra ha servito con falsa indifferenza l’accorrente Peucelle, sugli spalti, la mia faccia perduta tra migliaia di altre facce, non ci metto molto a capire che il mio giovane sostituto non è piazzato come dovrebbe.
In un istante lacerante paro per l’ennesima volta i cento tiri argentini che si sono infranti tra le mie mani due anni prima ad Amsterdam e so che non sono che ricordi, memorie lontane dalla realtà, durissima per me che non sono in campo e pure per Ballestrero che in campo c’è, ma con la testa altrove e con le braccia tremanti di un principiante.
Il cuoio gli perfora le mani, ma con gentilezza, e va a spegnersi nell’angolino alto alla sua sinistra e non posso fare altro che guardarlo attonito, rassegnato, lo sapevo che sarebbe successo. Che sarebbe successo nel momento sbagliato.
Quando l’unico vero europeo in campo, l'arbitro, decide che il primo tempo è finito, l’Uruguay è sotto 2 a 1, ma non ha ancora perso.
Mi guardo intorno.
Oggi sono solo un giudice, un fantasma. Ma resto un portiere. Un grande portiere. Io ho la presunzione, ho l’intuito, ho il sovrannaturale potere di capire dove andrà la palla un attimo prima che venga calciata. E so, a volte, anche quando una partita è finita, ma finita davvero. Mi faccio strada tra la folla verso l’uscita. Un ragazzino piange; lo accarezzo sulla testa e guardandolo sorrido.
Le mani nelle tasche, esco dallo stadio senza fretta e ancor più lentamente mi incammino lungo l’Avenida 18 Julio verso il centro, per recuperare le ultime cose dalla mia stanza del Prado.
Non scelgo la strada più breve, ma quella che prima di dirigersi verso le case del quartiere più vicine, gira pigra intorno allo stadio. Non c’è fretta.
Trovo senza difficoltà il tempo di accendermi una sigaretta e di fumarmela fino in fondo.
Ne sto accendendo una seconda, quando 70.000 persone prorompono in un urlo liberatorio e altre 20.000 in uno di scomposta disperazione. L’Uruguay ha pareggiato e quella gente grida così forte, come se volesse farlo sapere anche a tutti quelli che quel gol non lo avevano visto con i propri occhi. Anche a un uomo in cappotto di vigogna, che ha appena fatto volare per aria una cicca dopo averla scalciata con un piede, proprio come un bravo portiere che rinvia lontano il pallone.
Un ultimo sguardo all’arena dietro di me e salgo su un taxi.
− Si lavora anche oggi? − chiedo all’autista, un italiano dalla faccia stanca ma allegra.
− Eehh... Tengo famiglia!
− Peccato... cioè no, non per la famiglia, dico... c’è la partita − rispondo
− La partita?! Potevano anche fare a meno di giocarla, la partita. È da un pezzo che lo sanno anche i pesci del Rio de La Plata che l’Uruguay l’ha già vinta.
− Lo so bene. E senza di me − mormoro, assente
− Come? −
− Al Prado, mi porti al Prado − rispondo.

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