“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 24 October 2013 02:00

Un chimico

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Solo il chimico può dire, e non sempre,
cosa verrà fuori dall'unione
di fluidi o solidi.
E chi può dire
come uomini e donne reagiranno
fra loro, o quali figli ne risulteranno?
C'erano Benjamin Pantier e sua moglie,
buoni in se stessi, ma cattivi l'uno con l'altro:
lui ossigeno, lei idrogeno,
loro figlio, un fuoco devastatore.
Io, Trainor, il farmacista, un mescolatore di sostanze chimiche,
morto mentre facevo un esperimento,
vissi senza sposarmi.
(Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River)

Hai appena finito di leggere, e mi guardi dritto negli occhi. Anche io ti guardo, come ipnotizzata. Allunghi la mano libera sul tavolino, verso la mia, facendo un buffo slalom con le dita fra il tuo Campari e la mia tisana. Io chino gli occhi a guardare le tue dita, lunghe dita da pianista. Lunghe anche le unghie, e sporche. Ecco, questa è la prima cosa che penso di te, pensando a te in maniera diversa, voglio dire. Lunghe dita da pianista con unghie sporche. Così la mia mano si ritrae, quasi da sola, e subito dopo anche la tua.

Chiudi il libro, è tardi, devo tornare in classe, mi dici, e nel frattempo ti alzi e afferri la cartella, fluido, con un solo gesto. Ti guardo andare verso l’uscita, e mi sembri un animale esotico, con quel tuo incedere elegante e rilassato. Sei già davanti alla porta del bar, con la mano sulla maniglia, quando ti giri verso di me: non voglio vivere senza sposarmi, dici.
Era un mercoledì, era febbraio, erano sei anni fa. Erano le undici e dieci, quello me lo hai ricordato tu, svariate volte, in questi anni. Vissi senza sposarmi. Chi sapeva, allora? Chi poteva sapere?
Anche io mi alzo, ma prima di uscire vado alla cassa a pagare. Un piccolo conto in sospeso e delle unghie sporche. Questo il primo ricordo che ho di te.

La settimana dopo sei apparso al mio negozio. Io avevo già quasi scordato la poesia e le unghie nere del nostro primo appuntamento. Arrivi al bancone con il tuo fare calmo. Mi piace come occupi lo spazio, penso fra me. I tuoi occhi sempre puntati su di me, come due fucili.
Vorrei cambiare vita, mi dici in un soffio. Un soffio leggero, timido. E chi non lo vorrebbe, replico io con una risata. Sono abituata ai depressi, sai?, penso fra me e me. Ne entrano a decine, tutti i giorni. In carovana, come anziani in gita. Vagano fino a qui come bestie ferite, per cercare me, per parlare con me. Il mio negozio è un po’ come un bar, è il rifugio per alcolisti astemi.
Così ti propongo una tisana depurativa: cardo mariano, curcuma, tarassaco e menta. Per il fegato. Lo sapevi che nel fegato si annidano i nostri cattivi pensieri? ti chiedo distratta, mentre ti offro la nuca e peso le erbe sulla bilancia. Sono così, di spalle, quando ti sento ridere. Una risata intensa, che mi colpisce come un piatto di metallo all’attaccatura nuda dei capelli, e mi costringe a girarmi di scatto. Ridi a gola aperta, mostrando l’ugola, e mentre ridi strizzi gli occhi. Ti si formano delle piccole rughette qui, proprio qui, all’attaccatura del naso. Ti guardo, e penso che a volte è bello fare il barista dell’anima, e tutto sembra scivolare lucido per il verso giusto, come il panno umido sul bancone.
Del resto, chi lo sa come uomini e donne reagiranno fra loro?

Cosa era? Cosa è stato quel giorno, e i pochi mesi a venire? L’idrogeno non aveva ancora incontrato l’ossigeno? Era l’idrogeno che amava le mie erbe, il mio profumo, la mia essenza? È tutta colpa dell’ossigeno?
Quella mattina, dopo averti affidato il sacchetto con la tisana, dopo che sei andato via, sorridendomi ancora dalla porta, quella mattina, mentre mettevo a posto pacchi e nuovi arrivi, ho pensato alla bambina che amava le piante. Buoni con se stessi, così mi ripetevo pensando alla mia infanzia, alla malinconia soffocante di certi pomeriggi. Mi sono sempre piaciute le piante, sai?
Avevo sei anni, e una domenica mio fratello tornò a casa con una gabbia. Dentro c’erano due piccoli conigli: glieli avevano regalati gli zii, quel giorno, in campagna. Così sistemò la gabbia in cucina, a terra, sotto al televisore, e subito si premurò di trovare loro da mangiare. Del fieno, e poi insalata, e anche due carote. Lo sai che il fieno greco è un ottimo ricostituente?
Passai tutto il pomeriggio davanti alla gabbia, ad osservare le due bestie, la lattuga, il fieno e le carote. E davanti alla gabbia mi trovò mia madre, la sera. In lacrime. Con i singhiozzi che mi soffocavano, mentre lei chiedeva spiegazioni, ebbi solo la forza di dire che non volevo mai nessun animale, mai. Così il giorno dopo il babbo tornò a casa con una piantina di fragole, che misi sul davanzale della mia cameretta, e mi tenne compagnia per tanti anni. I due conigli avevano passato il pomeriggio a litigare feroci, a mordersi, a strapparsi la lattuga, e le carote: questo è quello che non dissi mai a mia madre. Piangevo per il fieno, per la lattuga e le carote, ostaggio della violenza ottusa delle due bestiole, adesso lo so. Piangevo per me stessa, per il mio destino da lattuga. Adesso lo so.
Buoni in se stessi, mi ripetevo felice quel giorno quando sei uscito dal mio negozio. Non pensavo, non volevo pensare a come proseguiva quella frase. Buoni in se stessi, ma cattivi l’uno con l’altro.

Io ossigeno, tu idrogeno. Questo mi urlavi la sera, a casa, quando nel tepore della cucina mettevi le ciabatte. Smettevi i panni dello stimato professore di chimica del liceo della città, per indossare quelli del professore di vita. Maestro di cucina, esperto di bucato, fine conoscitore dell’arte dello stiro delle camicie. Io ossigeno, tu idrogeno. Così urlavi, sempre più forte, per un piatto fuori posto, per una piega storta nella tovaglia. Io ossigeno, tu idrogeno, mentre io riuscivo a pensare solo a quelle dita lunghe dalle unghie sporche, e a quel piccolo conto da pagare.
Cosa conta di più? Cosa è più importante? Le dita lunghe o le unghie sporche? Il percorso che facciamo o la meta di arrivo? Tu che ne pensi? Come giudichi il tuo percorso? Cosa vedi, adesso, dal tuo punto di arrivo? Ossigeno? Idrogeno? Fuoco?
Solo adesso lo so, solo adesso posso dire che tu eri l’ossigeno, e tu eri l’idrogeno, tu eri tutto. Era tutto dentro di te, tutto nella tua testa. E io? Io chi ero? Io non c’ero. Stavo là, ottusa barista dell’anima, a guardare l’ossigeno e l’idrogeno che si confrontavano dentro di te. Lattuga muta, vittima designata, pianta in attesa del fuoco. Il fuoco devastatore.

Qualcuno mi ha detto che adesso usi meno posate di prima. Solo cucchiaio e forchetta, così mi hanno detto. Niente coltello. Solo cibo che si può spezzare con la forchetta, e basta. È una scelta tua? È una scelta degli altri? Tempo fa ti avrei raccontato che ci sono culture che non usano il coltello. Si spezzano le energie, così ti avrei detto. Molto tempo fa mi avresti sorriso, e detto qualcosa tipo: ti amo così tanto perché siamo così diversi. Tempo fa, ma un po’ meno tempo fa, saresti esploso, sono tutte stronzate, avresti detto. Ossigeno e idrogeno fuori dalle orbite dei tuoi occhi, e dalla tua bocca le fiamme del fuoco devastatore.
Niente coltello: è questa la tua soluzione? Niente coltello: è così che credi di esserti messo al sicuro? Illuso. Chi ha l’ossigeno e l’idrogeno dentro di sé prima o poi esplode di nuovo, lo dovresti sapere. Sei tu il professore di chimica, quello che può dire cosa viene fuori dall’unione dei fluidi e dei solidi. Ci sono tante altre cose, oltre ai coltelli. Ci sono tanti veleni, per esempio. Ne conosco tanti anche io. Naturali, è chiaro. C’è la Gloriosa superba, o la Galanthus vitalis. Che nomi eleganti, ero certa che ti sarebbero piaciuti. Sei stupito dalle mie conoscenze? Non credevi che una come me, lo so. Perché vedi, quello che non hai capito è che l’erboristeria, il negozio, gli alimenti naturali, erano una scelta. Una scelta di vita, per me. Certo, se solo avessi saputo. Se solo avessi potuto immaginare. Ma ero una persona buona, e ti volevo bene. Ti volevo bene, anche quando non ti amavo più. Buoni in se stessi, giusto?

Sei morto mentre facevi un esperimento. Cercavi l’idrogeno? Cercavi l’ossigeno? Impossibile cercare l’ossigeno dentro di me. Lo avevi già succhiato tutto tu, con ore e ore di discussioni inutili e snervanti, di urla e di scenate. Era questo che cercavi chino a terra, su di me, mentre mi esploravi con il coltello del pane? E chi può dire come uomini e donne reagiranno fra loro? Il mio pane migliore: farina integrale, lievitazione naturale e forno a legna. Quello che vendevo alle tue amiche professoresse, signore bene in cerca di una strada e un’identità. Lo stesso pane che molto tempo fa era buonissimo, gustoso e profumato, per poi diventare, poco tempo fa, una fetta di sughero insapore e puzzolente.

Gloriosa superba o Galanthus vitalis: questo ti propongo io. E tu? Tu cosa mi dai? Con cosa ribatti? Arsenico? Candeggina? Chissà quanti veleni nuovi e fantasiosi potevi creare per me, solo per me, nel laboratorio della tua scuola. Magari all’ombra odorosa di una delle tue studentesse, al tuo fianco nel calore della scienza. Ma forse hai fatto bene: non meritavo altro, niente altro. Niente di più. Io, l’erborista vegetariana, scavata con un coltello da pane.

Hai mai provato a contare fino a sessanta? Lentamente, ad alta voce? Da piccola, da piccola, io lo ricordo bene, quando giocavamo a nascondino e toccava a me stare sotto, a volte ho contato fino a sessanta. Stavo là, contro il muro, con la fronte appoggiata al dorso della mano, nel cortile pieno di sole e silenzio, e contavo. Contavo mentre la paura mi assaliva, una radice sottile e pungente, che mi entrava dai piedi nudi nei sandali, e poi saliva su, sempre più su. Superava le ginocchia, si infilava sotto al vestito, fino a dentro le mutande, e poi ancora più su, fino alla radice dei capelli tirati nei codini. Poi infine scendeva alla gola, fino a fare uscire il sessanta, non un numero di più. Sessanta. Ero sicura, mentre stavo là di spalle a contare, ero certa che il mondo dietro di me era finito, e non appena mi fossi girata lo avrei scoperto. Solo nero, un enorme mantello di panno nero, su di me, sul cortile, sulle case. Così finito di contare mi giravo piano, e pensavo che volevo solo correre a casa, che quel gioco, e quell’ossigeno e quell’idrogeno non mi piacevano più. Volevo solo farla finita, correre verso il portone di casa, salire le scale fino a casa, fino alla nonna, fino al pane e nutella, fino alla mia piantina di fragole.

Sessanta. E le ultime tre? Giocavi a un, due, tre, stella?

Ora capisco cosa significava. Capisco cosa sapevo. Ride, il professore di chimica, stretto nel suo piccolo mondo determinista. Misuralo bene, il tuo piccolo mondo senza coltelli, percorrilo per bene a passi lunghi. Su e giù. È largo tre e lungo quattro. Ma non credere, non sperare che cambierà, anche se sono solo sedici anni. Anche quando uscirai, sarà sempre largo tre e lungo quattro, e te le porterai con te giorno e notte, queste misure, per sempre. Perché sono dentro di te, ora che sai come uomini e donne si combinano fra di loro. Ora che sei morto mentre facevi un esperimento. Ora che sei vissuto senza sposarti.

Solo una cosa voglio sapere da te, l’ultima. Dopo avere contato fino a sessanta, e poi ancora fino a tre, ti sei alzato da me. Dopo avermi lasciato a terra come una bestia, stesa fra gli scaffali, incastrata fra la pasta integrale e le composte di frutta; con una busta di alghe ai piedi, appiccicata a terra da colla vermiglia; ormai scalzi, i miei piedi, i sandali abbandonati poco più in là. Dopo che la lama si è spezzata per tanto ardore, ti sei alzato da me, e sei andato via. Ma prima, prima di andare via, voglio sapere, dopo che hai saldato il tuo piccolo conto con me, voglio sapere: te le sei lavate le mani? Hai pulito quelle unghie sporche?

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