“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 21 October 2013 02:00

E dopo un agguato, scrivevamo sui muri

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Non siamo stati compagni di banco o di camerata. Né ci ha coinvolto la comune militanza politica. Uno di noi, credo, ha votato solo quando sperava chiudessero un occhio per l’uso delle droghe leggere. E chi si è visto si è visto. Ho provato a parlarci in occasione di una delle ultime elezioni, quando ha trionfato la Berlusconer Bros. Era d’accordo ma la domenica è andato a vedere la partita neanche ricordo dove.

Siamo cresciuti nello stesso quartiere, quello sì. Per le strade, d’estate, non è rimasto un connazionale a pagarlo, rintanati nelle loro casette immerse nella macchia mediterranea, dall’Argentario al golfo di Follonica, a cinque minuti dalla spiaggia. All’ora canonica del bagno, sono talmente tanti gli scooter accatastati che il lungomare somiglia al piazzale di una scuola superiore. Indiani e pakistani, con facce che farebbero la fortuna di reporter di professione, sembrano invece avere intuito il momento più propizio per sentirsi meno immigrati del solito e sorridono appropriandosi di pochi isolati. Il passeggio estivo è un contrappunto di donne vestite fino al collo e ragazzine che scoprono piercing. Il fazzoletto in testa delle musulmane, comunque, mantiene una sua familiarità, somiglia al copricapo delle nostre nonne quando certe periferie erano campagna e mucchietti sporadici di cemento. Le vecchie vi passavano pomeriggi interi a raccogliere asparagi lungo i fossi o inoltrandosi in campi da far west. E tagliavano erba per animali allevati come figli. Brandivano la falce ma da buone democristiane di martelli non volevano saperne.
Quei pochi che non scelgono di rientrare carichi di salsedine e di bestemmie per il traffico che inchioda, stendono tovaglie fresche di bucato e sistemano forchette per il primo, per il secondo, il cucchiaino da dolce, l’altro da caffè, due coltelli, uno per la carne, uno per la frutta. Le madri accatastano l’intero servizio di pentole e padelle utilizzato per cucinare. Quando siedono, il resto dei commensali ha già finito l’antipasto.
Com’è cambiato da quando eravamo in odore di elementari e con tanta bella gente organizzavamo i mondiali grazie a quattro mattoni e un pallone. Progressivamente, il nutrito gruppo si è assottigliato e siamo gli unici sopravvissuti a matrimonio, cambio di residenza e overdose. Dopo trent’anni, dico trent’anni, giochiamo ancora. A livello amatoriale. Ogni inizio di preparazione il ritornello: questo è l’ultimo! Poi nessuno ha il coraggio di dare seguito a tale proposito e abbandonare la nave. A me avevano pronosticato un futuro da attaccante di razza: staccavo bene di testa, parevo un angelo di un quadro barocco. Poi la vita impone certe scelte. Se ti siedi a una scrivania, una l’hai già fatta. Se preferisci pomiciare piuttosto che andare agli allenamenti, ne hai fatta un’altra.
Quello che voglio dire è che siamo cresciuti nella stessa curva. E se guardiamo indietro, stavolta quindici-sedicenni, la foto di gruppo è nel ritrovo di Lotta Continua. A noi emozionava non tanto entrare nelle stanze umidicce e salutare il Che ma il momento della partenza per lo stadio a traino dei grandi. E fra tutte le partite, ne aspettavamo una in particolare: contro il Livorno. Negli anni tra il ’78 e l’82 era la Partita. Durante il percorso altri gruppetti si univano al nostro e non appena incrociavamo il corteo o i pullman provenienti dalla costa, cominciava la rumba. Una volta ci fu un omaggio floreale dei capitani alle rispettive tifoserie, un gesto ben augurante. La speranza implicita era quella di un tifo caloroso ma limitato a cori e sfottò. Finì con una vittoria per 1-0 e l’inevitabile guerriglia. Anzi, forse mai come in quella circostanza. Il problema era che pure il Livorno aveva i colori amaranto e correvamo il rischio, nella ressa, di mischiarsi involontariamente con qualche teppistello o peggio, molto peggio, scaricatore di porto. Incessanti raccomandazioni al destino ci regalarono la B, campionati dove nascevano nuove rivalità. Ma già si profilavano yuppie e paninari, niente a che vedere con la tensione forgiata da quel mix irripetibile di rivalità calcistica e sinistra extraparlamentare.
Ritrovammo il derby di una volta solo alla fine degli anni Ottanta. Avevamo oramai età da lavoro, da università. Volendo, da famiglia. Lotta Continua aveva chiuso e il CAF, il patto del camper tra Craxi, Andreotti e Forlani, stava maturando. Insomma, cambiava l’Italia e con essa perfino i livornesi: al posto dei tubi Innocenti tenevano innocue aste di plastica. Piano piano le scritte sui muri di quegli anni sono sparite. Sommerse dalla riscossa estetico-edilizia. Tutti a costruire. E chi non ha i soldi, si dà un tono tinteggiando la facciata.
Solo la nostra curva è rimasta senza manutenzione e dai e dai, alla fine l’hanno chiusa. Quando è successo, ci siamo sentiti come inghiottiti da un pozzo artesiano e abbiamo intonato alcune filastrocche interminabili riservate alle tifoserie avversarie e i cori dedicati a quei presunti idoli dell’epoca la cui notorietà mai ha varcato i confini locali. Eppure per questi calciatori da serie C imbrattavamo le vetrine dei negozi con scritte che hanno resistito tantissimo e facevamo a pugni. La più ostinata era legata a uno di loro: Renè sei un re. Dove Renè stava per Renato ed era il nostro numero 10 che sfidava da solo gli avversari.
Un giorno sentimmo gridare da un tipo: “Il doppio passo! Ha fatto il doppio passo!”. In effetti Renè aveva eseguito uno strano balletto con le gambe e il pallone fra i piedi che l’indomani eravamo intenti a riprovarlo sull’asfalto. Al meno dotato saltò un incisivo.
Oggi ci godiamo la partita in silenzio, da seduti, sia che restiamo a casa sia che andiamo in qualche gradinata. Un riflusso snob, perfino incomprensibile, che finirà per inghiottire i magri residui di passione che ci fanno ancora aspettare le formazioni ripensando a quando un portiere poteva prendere con le mani un pallone passato all’indietro.

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