“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 20 October 2013 02:00

La Signorina Giulia

Written by 

di Nicola Pasa
(1° classificato e vincitore assoluto del concorso di racconti erotici "Ame Erotique")

Fatemi ricordare bene, è un’immagine un po’ sfocata, da sistemare, ci vuole meno opacità, più contrasto, oh pardon… deformazione professionale, sono un fotografo, sapete.
I miei ricordi sono fotografie, istantanee magiche, figure intrappolate per sempre nell’hic et nunc, l’eternità di un attimo di luce impressa, se mi seguite.

Ho qui la foto che scattai il giorno che la vidi per la prima volta. Il primo giorno di catechismo. Dalla scuola elementare, una vetusta marziale catapecchia ammuffita, fummo accompagnati dal maestro (naso stretto a uncino, bocca senza labbra, tre capelli sul cranio lucido) alla chiesa, accanto all’abitazione del parroco, Don Piero (ometto tondo, baffoni, statura napoleonica), lì di fianco alla sacrestia. Ad accoglierci, fatemi prendere fiato, c’era lei, Giulia, la signorina Giulia. Non era bella Giulia, per niente, aveva un naso adunco, capelli opachi, sul grigio topo, portava occhiali dalle lenti spesse come fondi di bottiglie, ed era un po’ grossa, di fianchi, di tutto. Ma aveva qualcosa che stordiva tutti noi, me in particolare, otto anni ai tempi, magrolino e assai sensibile. Aveva dei seni grandi come mongolfiere. I seni più grandi che tuttora abbia mai visto. Non facevo che pensarci. Mi passavano sempre di fronte agli occhi, talvolta danzanti, talvolta prominenti e minacciosi come torri agguerrite. I giorni passavano pigri in quella stagione scolastica all’ombra dei castagni e io mi consumavo gli occhi a guardarla, non facevo che scattare foto: la signorina Giulia che si china sul banco a scrutare il quaderno; la signorina Giulia che si aggiusta il reggiseno sotto la camicetta convinta di non essere vista; la signorina Giulia che mostra una scollatura che faceva vergognare i santi il primo giorno di Primavera.
Dopo alcuni mesi la signorina Giulia era diventata un’altra mamma per molti miei compagni, ma non per me. Quando lei mi abbracciava e mi teneva appiccicato al seno io sentivo cose che mia madre non mi aveva mai suscitato, un’eccitazione che mi faceva sudare e quasi svenire. Senza sapere nemmeno perché mi eccitava così tanto. Confesso che se lei mi avesse offerto i suoi seni nudi senza difese come spesso sognavo nelle mie notti di febbri amorose non avrei saputo bene che farne. Nei sogni mi svegliavo un attimo prima che le mie mani e la mia bocca vi si potessero posare. Al risveglio mi passavo la lingua sui denti e mi sorprendevo ad addentare qualcosa. Pensavo di essere il prescelto e di avere il privilegio di essere quasi dolcemente soffocato tra quei due seni. Ma non era così. L’amore, perché così ormai chiamavo quella ossessione, mi consumava, e con esso arrivò la gelosia. Quando qualcuno dei miei compagni si buttava tra le sue braccia, io provavo l’impulso di ucciderlo.
Benché fossi consapevole che nessuno dei miei compagni la guardava come la guardavo io. Un giorno però mi accorsi che c’era un’altra persona che la fissava con la stessa intensità: era Vito, il gobbo. Vito era un personaggio mitologico, era l’essere più brutto che abbia mai visto nella mia carriera di impressionista: era piccolo, gobbo, con una carnagione scura, e due occhi storti che non sapevi dove guardavano. Era un servo di Don Piero. Ogni tanto veniva nella nostra classe ad accendere la stufa, entrava con gli occhi bassi, con la gobba carica di un sacco pieno di legna, prendeva qualche legnetto, un po’ di carta e accendeva la stufa. Giulia ci diceva sempre di ringraziare Vito con un applauso e lo guardava con quella che pensavo fosse compassione e che invece era molto più che tenerezza. Vito si schermiva, era diffidente, stava sempre zitto, e quando parlava emetteva dei grugniti incomprensibili. Mi accorsi di lui un giorno di Maggio. Lei indossava un abito stretto che metteva ancor più in risalto le sue forme giunoniche. Stavo lì sul muretto a guardarla mentre redarguiva un mio compagno, quando mi accorsi di lui. Era dietro un albero, nascosto, e la guardava con un’attenzione che mi mandò il sangue al cervello. Mi chiesi quali pensieri osceni lo turbassero mentre i suoi occhi toccavano i suoi seni, seguivano le sue linee, si perdevano nella scollatura.
Ero sempre più convinto di essere il preferito, nessun altro poteva avere il privilegio di affondare la testa nel suo petto. E mentre ero così attaccato a lei sentivo il battito del suo cuore accelerare e la sentivo mugolare. Quando la sua eccitazione era ai livelli di guardia, lei mi metteva giù e mi dava una carezza.
Finché non venne il giorno del disincanto.
Era un giorno particolarmente caldo di Aprile, la signorina Giulia aveva mandato un messaggio a Don Piero, non sarebbe venuta perché non stava troppo bene. Quando seppi questa cosa andai a casa, presi dei biscotti e volai a casa sua. Aveva una casetta ai margini del bosco. Mentre correvo verso di lei mi figuravo una scena che avevo sempre sognato: giacere con lei nuda nel suo letto. Non avrei fatto altro, desideravo toccare quei seni e attaccarmi ad essi come un poppante. E queste immagini mi facevano sbandare, perdere i sensi.
Arrivai a casa sua che ero sfinito. Bussai. Bussai più forte. Bussai ancora. Niente. Ma dove poteva essere, se non stava bene? Girai attorno alla casa e mi avvicinai alla cantina. Sentii dei rumori. Non riuscivo a capire bene che rumori fossero. Sembravano lamenti. La porta era socchiusa. Mi affacciai e vidi una scena che non dimenticherò mai più. Giulia era nuda, completamente, e stava a cavallo di Vito, il gobbo, anch’egli oscenamente nudo, che incurante del mondo succhiava come un poppante gli enormi seni e con le sue piccole sgraziate mani li tormentava. La signorina Giulia sembrava gradire molto quello che Vito faceva, sembrava avesse perso il senno, aveva gli occhiali storti e un’espressione lubrica che non immaginavo potesse avere. Turbato dalla scena me ne andai via di corsa, non senza aver dato un calcio alla porta e mentre correvo a casa disperato, l’amore scivolò via dal mio cuore, con la pioggia che scendeva, e restò in me solo l’amarezza dell’illusione tradita.
Da quel giorno fu un’estranea per me. Vidi che altri ragazzi divennero suoi prediletti, mentre io le divenni indifferente. Forse aveva capito che io avevo visto, a volte mi guardava con un’espressione triste, che ricambiavo con un volto duro, impietoso. Un giorno a catechismo trovammo un’insipida sostituta, dissero che la signorina se n’era andata addirittura dal paese. Andava in città, ci aveva detto Don Piero con l’aria più menzognera che abbia mai visto.
Tutti i miei compagni non capirono il motivo di quella fuga, ma io avevo osservato Vito e i suoi occhi storti mi avevano detto che cosa era successo.
Non vidi più la signorina Giulia, non seppi più niente di lei, presto il mio cuore fu occupato da altre donne e la dimenticò. Ma come vedete è tutto ben presente a me, sembra quasi un album: c’è Vito, c’è Giulia, Don Piero, e poi ci sono io, sono quello accanto a lei, accanto ai suoi seni, sì sono proprio io, ma quella mano che tocca il suo sedere non è la mia. E accanto a noi c’è solo Don Piero.

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