“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 17 October 2013 02:00

La bella signora

Written by 

di Marco Ernst
(3° posto concorso di racconti erotici "Ame Erotique")

Fin da quando cominciò la mia vita pensante, a dieci anni, forse, devo confessare che cominciai a sentirmi particolarmente attratto dalle donne, certamente naturale, forse precoce. Non era, non ancora, almeno, un’attrazione erotica, ma puramente estetica, amavo la bellezza che rappresentavano, molto più di quella maschile, che non ha dei canoni così puri. Mi era già capitato, in diverse occasioni, di vedere dei miei amichetti senza abiti, quando facevamo la doccia dopo la partita di calcio: li trovavo insulsi, ridicoli con quell’inutile, minuscola protuberanza, o forse un’utilità l’aveva, anche più di una, forse, ma non diceva nulla al mio senso del bello. Poi, appunto verso i dieci anni, mi capitò, per caso, di vedere una mia cuginetta più piccola di due anni di me, che era venuta a trovarci con la madre, nuda in attesa di fare il bagno: era la prima volta che vedevo qualcuno dell’altro sesso senza vestiti e la cosa mi turbava, mi esaltava, mi faceva sentire strano.

Lei mi sorrideva maliziosa: il suo torace era piatto, interrotto solo da quelle due macchie simmetriche color cipria antica, appena accennate e poi, sotto l’ombelico, quella misteriosa cosa che non assomigliava alle protuberanze dei miei compagni, anzi era il loro negativo, ma era buffa, a dirla proprio tutta allora mi faceva un po’ senso, non so per quale motivo mi ricordava una chela di granchio. Le ragazze più grandi e meglio ancora le donne erano, per il mio gusto estetico, tutt’altra cosa. Non che ne avessi mai vista, come ho detto, una priva di abiti (a quei tempi non usava il nudo né in televisione, né sui giornali), ma le loro forme morbide, armoniose, il seno che era tutt’altra cosa di quello di mia cugina, mi appagavano la vista e mi facevano sentire strano: qualcosa dentro di me si rimescolava e non sapevo spiegarmi cosa fosse; pensavo che se il seno di una donna cresceva con l’età, rispetto a quello della cugina di otto anni, forse ciò che c’era anche là sotto sarebbe stato diverso da quello di una bambina, da quelle buffe chele di granchio delle quali non intuivo la funzione. Quell’anno, quello di tutte le scoperte anatomiche della mia pre-pubertà, andammo in villeggiatura estiva in un paesino della riviera ligure di ponente, Varigotti, dove avevamo affittato, se non proprio una villa, una grande casa con giardino; con noi c’era anche la cugina della mamma col marito e la figlia che avevo vista nuda a casa mia. Nel giardino della casa-villa c’era una grande vasca, non esattamente una piscina, visto che eravamo in una non-villa, dove noi bambini (io, il mio fratellino di tre anni, il figlio dei vicini di casa quasi mio coetaneo, e la cuginetta) potevamo sguazzare per rinfrescarci della calura quando non andavamo in spiaggia, magari mentre i nostri genitori riposavano dalla calura nell’ombra delle spesse mura. Tutti gli altri bambini facevano il bagno in questa non-piscina senza il costume da bagno, tanto eravamo considerati piccoli ed eravamo, comunque, protetti alla vista dei vicini da un’alta siepe e la cuginetta-granchio regolarmente mi invitava a spogliarmi e ad unirmi a loro: non lo volli mai fare, non mi andava l’idea di quella promiscuità, di dover confrontare la mia intimità con quella del vicino di casa. M’infastidivano i due maschietti col loro piccolo e ridicolo pendente e la spudoratezza della cuginetta che ogni volta che mi invitava a spogliarmi mi sorrideva in un certo modo; allora, invece di unirmi a loro, girovagavo per il giardino facendo i miei giochi da bambino, immaginandomi di essere un esploratore: mentre loro erano nudi, io mi aggiravo fra pitosforo e buganvillee con calzoni al ginocchio, una maglietta a righe orizzontali, un enorme cappello di paglia e stivali di gomma; per me era quello l’abbigliamento dell’esploratore e il giardino profumato era la mia giungla misteriosa. Fu allora che, per la prima volta, vidi la bella signora. Stava su un terrazzino della villa confinante e, data la posizione elevata di questo, la siepe non garantiva intimità a nessuno dei due. Poggiava le mani sulla balaustra del balcone e guardava lontano, come chi cerca di scorgere, o di lanciare, all’orizzonte i propri pensieri. Indossava una camicia da notte cortissima e semi - trasparente; sotto di essa intravvedevo il seno prosperoso e le sue terminazioni, più scure e rilevate di quelle della mia sfacciata cugina, ma soprattutto dove finiva la sua veste iniziava un cespuglio di peli castani che coprivano qualcosa di ben diverso dalle chele di granchio che avevo visto a Teresa, qualcosa che potevo solo immaginare, un tesoro protetto dalla sua giungla personale. Sentivo le guance avvamparmi e ancora quello strano dolore, ma non spiacevole, dentro di me; poi lei si girò, mi vide, mi sorrise e con la mano posta di taglio coprì quella piccola foresta, forse la vera giungla inesplorata che andavo cercando. Io, coi miei ridicoli stivali e il cappello di paglia, mi vergognavo: li tolsi e poi, a piedi e capo nudi corsi via con il cuore che sembrava schizzarmi fuori dal petto. Giunto alla non-piscina mi levai maglietta e pantaloni, ma non gli slip, e mi gettai in acqua: ero tutto un fuoco da spegnere. Subito il vicino e la cugina mi furono addosso per giocare, mi spinsero sott’acqua, mi spruzzarono, mi fecero anche bere quell’acqua non proprio limpidissima; io non reagii: non ero lì che col mio corpo, ma la mia mente era rimasta nelle due foreste. Mi spinsi altre volte in quell’angolo di giardino, senza rivedere la bella signora: forse era partita, forse non passava le sue giornate a mostrarsi seminuda a un bambino di dieci anni. E invece un giorno la rividi; stavolta indossava un costume in due pezzi, che per quei tempi era uno scandalo. Stavolta mi vide subito, s’accorse che la guardavo, mi sorrise e si levò la parte superiore del costume: era bella ed era naturale per lei mostrarsi, elargire tanta bellezza, fosse pure a un bambino. Solo da adulto avrei compreso che la sua non era perversione, solo un disperato tentativo di comunicare la sua solitudine, la sua bellezza che, se non condivisa, sarebbe stata sprecata. Io mi levai ciò che portavo ai piedi, sandali o stivali che fossero, non ricordo, poi la maglietta ed anche tutto il resto e rimasi nudo, con il mio corpo magro e glabro offerto alla sua vista, a dimostrare che anche su di me il tempo non aveva ancora cominciato ad accanirsi. Rise, lo fece soprattutto con gli occhi; mi vergognai e scappai, senza vestiti, forse piangendo.
Giunsi nudo alla vasca e mi gettai con gli altri: mi furono subito addosso, qualcuno mi afferrò là sotto e non seppi mai chi fosse stato dei tre: stavolta fui io a infilare la testa sott’acqua per nascondere le mie lacrime di vergogna e dell’impotenza di non essere ancora grande. Ci vollero giorni prima che mi decidessi a tornare al punto dove si scorgeva la terrazza: lei era nuovamente là ed indossava ancora la corta camicia trasparente. Non mi feci vedere e rimasi a lungo ad ammirarla: era la cosa più bella che avessi mai visto; era bella vestita e lo era seminuda. Qualche giorno più tardi andai fra i pitosfori con la mia macchinetta fotografica, regalo dell’ultimo Natale e, nascosto, la fotografai e poi ancora e ancora: finii il rullino. Solo più tardi mi resi conto che non potevo certamente, alla mia età, portare dal fotografo una serie di scatti di una bella signora che non si negava agli sguardi. Dopo di allora la rividi un’ultima volta soltanto, avvolta nella sua camiciola trasparente, come la prima volta: stavolta mi mostrai, quasi a sfidarla. Lei si voltò verso di me e si sfilò quell’unica barriera fra il suo corpo e il mio sguardo; poi mi fece un gesto con la mano aperta, come a porgermi qualcosa, ma era un invito: “Adesso tu!”, diceva quel gesto; ancora una volta scorsi nel suo sorriso una disperata solitudine. Mi spogliai completamente assecondando la sua muta richiesta, come già avevo fatto e rimasi così, ben fermo sulle gambe, a mostrare che anch’io sotto i vestiti avevo un corpo da offrire alla vista; il mio membro acerbo mi sembrava una barra d’acciaio infuocata; non so quanto rimanemmo in quella posizione di stallo; poi mi sentii chiamare, sobbalzai e mi rivestii in tutta fretta, ma senza staccare lo sguardo da lei e con quel dolce dolore che sentivo nel profondo del mio corpo, da qualche parte indefinibile. Anche lei si rinfilò nella sua camiciola; la salutai con la mano e non la vidi mai più. “Mamma – chiesi qualche giorno più tardi mentre eravamo a tavola, con nonchalance – non abita nessuno nella villa accanto?”. “Oh sì, ci vive una bellissima signora che, però, a quanto mi han detto in paese, non esce mai, non riceve mai nessuno: fa vita ritirata”. “Forse vuol tenere la sua bellezza solo per sé” commentò la cuginetta distrattamente, mentre attaccava a coltellate una cotoletta, ma io pensai che era proprio così ed io, io solo, avevo avuto il privilegio della visione di quella bellezza, di tutta la sua bellezza più intima: chissà se anche per lei vedere me aveva significato qualcosa, visto che me lo aveva chiesto con quel suo sguardo triste… L’anno seguente non tornammo in vacanza a Varigotti: anzi, non vi tornammo mai più. Io ero cresciuto molto e cominciavano a spuntarmi i primi peli là sotto e un po’ dappertutto. Anche mia cugina Teresa era cresciuta ed ora, quando faceva il bagno, non mi si mostrava più nuda. Come tutti i bambini, ma non ero più un bambino, avevo una vecchia scatola da cioccolatini con dentro le mie cose segrete: fra queste un rullino di foto mai sviluppato: a volte, quando ero solo, mi chiudevo in camera, lo prendevo dal suo scrigno e me lo strofinavo sul ventre, sul petto e sulla fronte e rivedevo ancora la bella signora come se fosse lì presente. Crebbi, ebbi la mia prima fidanzata, poi ne vennero altre. Mia cugina divenne un bella ragazza e la mia migliore amica e confidente, ma mai le raccontai della signora: quella era una cosa solo mia, anzi, nostra. Teresa era bella, ma mai come quella signora del mare; penso che da sempre mia cugina fosse stata innamorata di me, ma poi anche lei ebbe il suo primo ragazzo, un lungagnone brufoloso che mi risultò subito antipatico: forse ero geloso; crebbi ancora, perché il tempo vuole così, passa, ci fa cambiare e, a volte ci distrugge, accanendosi su quanto di bello il nostro corpo sa offrire. Divenni un uomo, mi laureai, mi sposai. In una giornata di quelle maccagnose in cui sai pensare solo a cose tristi, a ricordi e rimpianti lontani, non so per quale motivo, m’infilai con la macchina in autostrada e mi ritrovai in Liguria, a Varigotti. Telefonai a mia moglie: “Cara, ho dovuto partire urgentemente per lavoro, starò via tre o quattro giorni. Ti chiamo. Bacia i bambini”. Presi una camera in albergo; mi ci volle un giorno intero per trovare il coraggio di andare a rivedere la casa delle vacanze di quel solo anno, quella che non era una villa e non lo era no, adesso che la guardavo con occhi adulti: era una casetta minuscola, che solo la fantasia di un bambino che vede enorme tutto ciò che è più grande di lui, aveva scambiato per una villa con piscina; era disabitata e il cancello era chiuso da una catena e da un grosso lucchetto, entrambi arrugginiti dal tempo e dall’aria salmastra; vi girai intorno, vidi l’altra villa, quella sì lo era veramente, ma pareva disabitata anch’essa. Sulla passeggiata a mare c’era un chiosco: ”AGENZIA IMMOBILIARE”, c’era scritto in modo un po’ pretenzioso; finsi d’essere interessato a un acquisto: la casetta delle vacanze di trent’anni prima era effettivamente in vendita, ma era praticamente in rovina, allora chiesi notizie della villa, quella vera: “Oh, no, quella è abitata, ci vive una anziana signora da sola: un tempo era una bellissima donna che già allora non usciva mai: figuriamoci adesso che è vecchia!”. Ringraziai e me ne andai: pensai a quella donna stupenda che mi aveva introdotto definitivamente, in un certo senso, all’amore verso l’altro sesso, la rividi nuda sul balcone, come l’ultima volta. Poi la pensai come doveva essere ora, uccisa dal tempo nella sua bellezza, devastata dagli anni, forse una povera pazza costretta a stare rinchiusa a ripensare a ciò che aveva perduto, forse anche al ricordo di un bambino di dieci anni che le si era mostrato nudo e al quale, solo, aveva concesso la visione della sua perfezione femminile e quello era rimasto per sempre il loro segreto; guardai un’ultima volta le due case; il pitosforo era morto, il terrazzino decrepito; mandai un bacio verso il balcone, feci ciao con la mano, come farebbe un bambino, poi telefonai a mia moglie e tornai a casa. In ripostiglio, in una vecchia scatola di cartone da cioccolatini giaceva, dimenticato da tempo, un vecchio rullino fotografico che aveva serbato solo per sé e per sempre il segreto della bellezza.

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