“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 24 October 2013 02:00

Incontri isolati

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E se fossimo di creta come scrive la Genesi? Anche nel senso di essere, chi più chi meno, cretini. Nell’antichità c’era un rapporto magico con la natura, oggi la stiamo distruggendo.
Questa magia pulsava nelle isole del Mediterraneo, tipo a Eraklion, la città di Eracle e del palazzo di Minosse. La civiltà cretese si aggirava intorno a magnifici palazzi che aggettavano sul mare, dai colori rossi, gialli, azzurri, verdi. E non protetti da fortificazioni. Se penso al verde, viene in mente che in Amazzonia hanno una sessantina di vocaboli per questa tonalità che noi mortifichiamo con uno solo.

In effetti, i popoli arricchiscono di parole ciò che li affascina. I Greci per mare, l’elemento vitale, usavano thalassa come concetto generico e dunque per il Mediterraneo, il mare dei mari; pelagos era il mare aperto, quello che inevitabilmente incute timore, il mare dei miti; pontos era il mare come viaggio, Ulisse ma anche il ponte tra terre di commercio; kolpos era il golfo e per analogia l’Adriatico; hals era il mare-materia, acqua e sale, un brodone primordiale nella pentola terrestre. Sottigliezze meravigliose come curve femminili. Creta, suo malgrado, si accorse dell’esistenza di un mare portatore di morte. La serie di catastrofi che la coinvolsero offrì materiale alla fantasia degli antichi. Che cantarono il mito di Atlantide.
All’interno del palazzo, c’era poi il labirinto. Ma il labirinto è in ogni palazzo che si rispetti: Tomasi di Lampedusa, quando descrive la residenza di Donnafugata, fa riferimento a stanze che nessuno sa dove possano essere e che se usassimo come nascondiglio, correremmo il rischio di sparire in eterno. Il palazzo, in fondo, è la metafora dell’esigenza del saggio: smarrirsi in un cumbrugliume, come dicevano i vecchi delle mie parti, fra ombra e lume. Un chiaroscuro di identità.
Quello di Minosse è una scatola magica dove può apparire un fantasma, un Minotauro o un filo di Arianna, che a Penelope servì per cucire la tela e a me per non perdere il… filo. Per cui torniamo a Eraklion. Con una macchina a nolo, cercavamo un monastero nei dintorni. Successe che la macchina s’inceppò e venimmo soccorsi dai greci che conducevano dei muli a pascolare. Ragazzi, ma forti che sono i muli! Trainarono l’auto senza un lamento, mentre proseguivamo a piedi. Arrivati a un paesino, i greci telefonarono a Eraklion. Così ci fecero capire. Eravamo incerti se intendessero chiamare in città o Ercole in persona. Praticamente telefonarono a un dio perché in mezzora arrivò a prenderci un potentissimo fuoristrada giapponese con il quale raggiungemmo senza problemi il monastero. Qui, ci offrirono da bere e un certo momento comparve Smaragda Mattadaki. La famosissima… chi?
Venne fuori vestita come Nausicaa, in toni appena più moderni. Uno di noi si presentò come un poeta e Smaragda chiese cosa avesse scritto. L’amico citò un libro, senza pretese. Ebbene, Smaragda aveva fatto la tesi in pedagogia su questo testo, neppure ricordo il titolo, scritto nella foresteria di un monastero camaldolese. Da monastero a monastero. I luoghi del sacro si parlano con accenti diversi ma si capiscono al volo. La Smaragda era un mostro di sapienza e fu sorpresa dal nostro carattere giocoso: guardò il poeta e se lo immaginava accademico. Lo baciò quando ci salutammo. Dopo qualche mese gli mandò la tesi. Era scritta ovviamente nella sua lingua e ci volle grande esercizio di fantasia per coglierne il senso.
Necessitò invece esercizio fisico per uscire dall’acqua quando si scatenò un vento che ci risospinse al largo. E cogliemmo quanto fu difficile sbarcare per Ulisse. Toccò aggrapparsi agli scogli, io mi sbucciai gomiti, gambe… era l’intera natura a sfidarci, come fa da millenni, fin dagli eroi omerici. Un e…vento cosmico, energie che si ricompongono per aggredirci e quando ogni cosa torna alla normalità senti l’alitare del soffio divino che sorvola placato le acque.
In Islanda toccò a me, invece, incontrare Ilif. In mezzo a un paesaggio soffice di muschio, che pare un presepe, con quel simpaticissimo uccello, la pulcinella di mare, a recitare in una favola nordica. Gli islandesi hanno mantenuto la lingua dei primi colonizzatori, i vichinghi più caparbi che dalla Danimarca, dalla Norvegia, fuggivano la colonizzazione cristiana. Non si convertirono, mantennero i loro dèi, giunsero nell’ultima spiaggia e si misero insieme a formare il primo parlamento dove c’è la spaccatura tra il continente europeo e il continente americano. A me più che un parlamento sembrò un parlatoio. Già erano pochi, tutti accovacciati, ravvicinati, attorno a un fuoco altrimenti lassù gelavano, potevano discutere al massimo come una grande famiglia a veglia durante la stagione delle castagne. In un’isola che vive per essere abitata e abbandonata, tipo una zatterona alla deriva. Ha però una riserva geotermica illimitata nel sottosuolo, l’energia madre che consente grandi bagni in sorgenti termali a cielo aperto mentre nevica. Che uno non ci crede se non con un esercizio − eddai! − di fantasia.
Ilif nasce in un fiordo del nord, dove gli orsi arrivavano sopra lastroni di ghiaccio, e crede negli spiriti e negli elfi che muovono i massi. Al suo paese si usavano per fare partorire le donne in difficoltà, gli stessi arnesi che i vichinghi adoperavano per costruire le navi, seghe comprese. Il suo babbo era uscito dalla pancia grazie a una sega. Ilif mi nutriva di pescecane e mentre mangiavamo raccontava delle sue visioni islandesi, di terra che si sposta, di colline che mutano aspetto, di scogliere che si alzano e abbassano, convinta che erano fenomeni dovuti all’intervento di forze spirituali. Mi invaghisco di racconti del genere, lo riconosco, sono per me come i funghi per i troll, non ne posso fare a meno. Se ci furono baci al momento dei saluti? Mi ricordai solo del protagonista di Nabokov che s’innamora della giovane Lolita. E rischiai di non tornare in Italia. Ma a cambiare idea siamo sempre in tempo.

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