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Tuesday, 17 September 2013 02:00

I treni che passano

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Era l’alba. Una pallida luce illuminava una croce. La chiesa era chiusa ma qualcuno già chiedeva miracoli, mentre altri elemosinavano spicci e un po’ di attenzione. Appoggiata alla finestra, Valeria osservava con quanta cura i “miracolandi” si tenessero a distanza dai mendicanti e con quanta cura questi ultimi pregassero affinché nessun miracolo avvenisse. Stasi. Alla radio qualcuno parlava di un uomo fatto a pezzi da una donna. Valeria pensò che alcune persone preferiscono prendersi a pezzi, perché a prendersi intere ci vorrebbe troppa forza. La sua tazza di tè fumava appannando il vetro della finestra, così le figure lungo la via diventavano macchie indistinte, che pian piano si mescolavano le une alle altre e non c’era più pezzo che tenesse, tutto parte della stessa immagine riflessa negli occhi di una ragazza intenta a bere il suo tè.

La finestra che dava sul lato opposto a quello della chiesa si mise a vibrare. Era il segnale che anche quella mattina il treno delle sette sarebbe passato. La ragazza corse alla finestra, perché per nulla al mondo si sarebbe persa quel momento. Adorava i treni. Amava guardarli passare, uno dopo l’altro, che non sai mai se quello che stai guardando in quel momento sia quello dei giorni passati o sarà quello dei giorni futuri. Mentre i passeggeri restano indistinti, anonimi. In fondo la gente che parte si somiglia tutta un po’ e la gente che ritorna si somiglia ancora di più. La gente che prosegue nel cammino, a volte, si riconosce.
Il treno fu passato e, come tutte le mattine, la sua giornata poté cominciare.
Andò al telefono e compose il numero.
“Pronto”, Valeria provò una piacevole sensazione di calore.
“Pronto mamma, sono Valeria!”, aveva una voce rauca come se avesse urlato, come se avesse fatto freddo, come se avesse fatto freddo mentre urlava, ma era tutta la vita che quella voce stava lì ed era da parecchio che faceva freddo.
“Tesoro, dimmi, ma in fretta che devo andare”. Dove sarebbe andata? Aveva sempre un piede fuori dalla porta, ma stranamente rispondeva sempre al telefono.
“Mi hanno chiamato per un lavoro. È una radio. Hanno sentito la mia trasmissione giovedì e mi vorrebbero”.
E la madre “La trasmissione che fai gratuitamente? Questi pagherebbero? E il lavoro dal dentista? Non puoi rischiare di perdere tutto”.
“Si ma…” tentò di rispondere invano. La madre continuò “No, Valeria, pensaci bene. Hai bisogno di un lavoro per vivere, non di un sogno”.
“Va bene mamma”, sospirò e poi cambiò discorso “Papà?”.
“Lo sai...” anche la madre sospirò “è nella Stanza, esce solo per mangiare e dormire ormai. Dicono sia la vecchiaia”.
Già, la Stanza… era invasa da scaffalature sulle quali erano sistemate, con grande cura, le riproduzioni di ogni sorta di mezzo a motore mai esistito. C’era la riproduzione fedele di una delle prime automobili mai costruite, c’erano una serie di ambulanze, un montacarichi, un furgoncino dei gelati, una ruspa, svariati mezzi dei vigili del fuoco, della polizia, dei carabinieri, dei vigili urbani, della forestale e così via. C’erano mezzi a due ruote, a tre ruote, a quattro, a cinque e anche a sei. Anche i cingolati non mancavano. Poi diverse navi, svariati aerei e alcuni elicotteri.
A Valeria risuonavano spesso in mente le parole di suo padre: “C’è chi pensa alla strada da percorrere e a chi invece interessa il motore con cui farlo”.
Aveva sempre creduto che fosse un bel modo di normalizzare quella passione che era lentamente diventata un’ossessione. Tutte le riproduzioni andavano spolverate e lucidate due volte a settimana e il resto della famiglia aveva diritto ad accedere nella Stanza solo in sua presenza. Quando usciva serrava la porta con un lucchetto e portava con sé la chiave e ben stampata in mente l’esatta disposizione di ogni mezzo, di ogni ruota, di ogni granello di polvere, in modo che se qualcuno fosse riuscito ad entrare in sua assenza, lui lo avrebbe sicuramente saputo. Valeria era quella che aveva messo piede più spesso in quella Stanza. Ricordava il forte odore di chiuso, una sensazione claustrofobica ed una grave mancanza: non c’erano treni, neanche uno a vapore.
Intanto la telefonata si era conclusa con il solito “Ciao eh!”. Da quando aveva riattaccato, Valeria provava una sensazione di profondo fastidio e avrebbe fatto di tutto pur di non ammetterlo a se stessa, avrebbe fatto talmente tanto che alla fine non fece niente e fu costretta a realizzare che avrebbe solo voluto sentirsi dire “accetta”.
Era la seconda proposta in un mese, la prima la aveva rifiutata e ora non ricordava neanche il motivo, probabilmente doveva aver fatto una telefonata di troppo. Sentì una rabbia esploderle dentro e proprio in quel momento ricordò di quando, qualche anno prima, aveva chiesto a suo padre il perché nella Stanza non ci fossero treni.
“I binari mi fanno orrore”, era stata la sua risposta. E aveva continuato: “Sai cosa sono due rette parallele?”, e Valeria: “Due rette che non si incontrano mai!”. E lui, come se fosse stata la cosa più normale del mondo, “ecco, appunto!”. Valeria non andò oltre e neanche suo padre sentì di doverlo fare.
Ecco, appunto!
Tra un ricordo e l’altro, cercando di riemergere dalla furia che l’aveva travolta, la ragazza uscì di casa. Passò davanti la chiesa, lasciò una moneta al mendicante e lanciò un’occhiata di sfida ad uno dei tanti “miracolandi”.
Lavorò tutto il giorno e tutto il pomeriggio. Il lavoro, quello vero, nello studio medico. Paziente dopo paziente, non poteva fare a meno di pensare a quella proposta, ai suoi sogni che avrebbero potuto realizzarsi e all’improvviso le balzò in mente l’immagine di sua madre e dalla nuvola sulla quale stava volando scoppiò un temporale.
Al sesto caffè della giornata, il via vai di pazienti era terminato e quindi, sistemate le ultime pratiche, prese le sue cose e andò via. Fuori il sole se n’era andato, ma non era ancora buio. Avrebbe potuto andare al bar dagli amici, avrebbe potuto andare a trovare i suoi e invece camminò, a lungo e per varie strade, guardò le vetrine, guardò le persone, fantasticò sulla loro vita, non quanto avrebbe voluto, presa com’era a sognarsi la sua di vita. Ma, in quel vento d’estate, durò poco. Nella strada di casa i sogni erano diventati paure, le persone giudizi e il vento, che le aveva arruffato i capelli, inadeguatezza.
Altra nuvola, altro temporale!
Entrò in casa, non le piaceva. Avrebbe cambiato tutto, tranne il passare dei treni. Decise di non mangiare e stette davanti alla televisione, davanti al computer, lesse un po’ e poi ancora televisione, ancora libro, ancora computer e così per una terza volta. Stravolta e confusa cercò di addormentarsi. Ci riuscì, a tratti. Per altri lunghi tratti pensava alla proposta, quasi come fosse indecente. Si fecero le sei e fu allora che il telefono squillò. Rispose. “Vale sono mamma”, una voce spaventata dall’altra parte del telefono.
“Cosa c’è?”.
“Papà non è venuto a dormire, è ancora lì dentro!”.
Pensò che il cuore le si fosse fermato e invece cominciò a battere sempre più forte, sempre più veloce. Tutto in pochi istanti.
“Mamma entra, cosa diavolo aspetti?”, “Non ce la faccio Valeria, non ce la faccio!”, “ Arrivo subito…”.
Riattaccò, afferrò una maglia da mettere sopra il pigiama e corse via. La casa era distante solo un centinaio di metri, ma durante il tragitto immaginò decine di scenari diversi, uno più nefasto dell’altro. Il cuore batteva all’impazzata. Quando arrivò, trovò sua madre come non l’aveva mai vista, quasi in lacrime, e quell’immagine le parve quasi consolatoria. Non disse niente, raggiunse la stanza e tirò giù la maniglia della porta. Lo vide addormentato tra un cacciavite ed un libretto d’istruzioni. Sospirò, poi forse sorrise. Respirò.
Al centro della Stanza spiccava un grande tavolo e poggiati sopra di esso una serie di binari, due file incompiute. Valeria si guardò intorno, non c’erano treni, questa volta c’era solo la strada. Suo padre si svegliò con un sussulto, era confuso, ma presto la confusione lasciò spazio al fastidio, il fastidio che provava nel vederle lì, nella sua Stanza. Le guardò. Loro capirono. Valeria capì e le si sciolse il cuore. Senza dire una parola, uscì dalla Stanza insieme a sua madre.
Fece una tisana a sua madre che la abbracciò, la strinse a sé e forse anche Valeria strinse. Con quella sensazione ancora sulla pelle tornò a casa.
Si erano fatte quasi le sette, il treno sarebbe passato a breve. Guardò i raggi del sole illuminare la finestra e ne provò un gran sollievo. Dopo circa mezzora il treno non era ancora passato, la finestra non vibrava, c’era un’aria tranquilla, fuori, nel mondo.
C’era stato altre volte qualche ritardo e allora non si preoccupò, andò in cucina, tanto la finestra l’avrebbe avvertita.
Passò un’altra mezzora e Valeria cominciò a realizzare che il treno, con molta probabilità, non sarebbe passato. Si affacciò alla finestra e fissò i binari. Pensò a quando due linee non si incontreranno mai, ma sono destinate a proseguire insieme.
Andò al telefono, compose il numero.
"Pronto"
"Sono Valeria Rinaldi e la chiamo per accettare”.

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