“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

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Thursday, 25 July 2013 08:05

Les boutades de Lubylu – Università: che fare?

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Per me che uscivo dal liceo classico, doveva essere tutto più semplice perchè, a detta di molti, lo studio del latino e del greco mi avevano dato un’apertura mentale superiore, una forma mentis tale che avrei potuto fare veramente tutto.
Perciò sapevo di non voler fare niente.

Per non commettere errori nella scelta dell’Università era necessario trovare la giusta metodologia, perchè la scelta doveva avvenire nel modo più saggio, coerente e adatto alle mie capacità ed attitudini.
E proprio per questo decisi subito di affidarmi al caso: scrissi su diversi bigliettini tutte le Facoltà, li arrotolai come in un sorteggio per i gironi di Champions League, e affidai l’estrazione ad un bimbo, simbolo di innocenza, di onestà, di purezza.
Giurisprudenza fu il responso del fato.
No, non era questa la giusta metodologia; una scelta così importante doveva essere fatta in modo maturo e responsabile. No, non era così che dovevo fare, e poi chi lo conosceva quel bambino? cosa aveva a che fare con me? di chi era figlio? chi dice che fosse davvero innocente, puro, onesto? magari faceva parte di qualche baby gang e oggi risulta nella lista dei primi dieci superlatitanti ricercati dalle polizie di mezzo mondo…
E allora per caso, abbandonai il caso, che magari aveva ragione, ed iniziai a peregrinare per la Federico II. Sentivo basito raccapriccianti racconti di miei coetanei che avevano rischiato la vita travolti da file oceaniche per iscriversi a Giurisprudenza, Economia e quant’altro; ed avendo già escluso per l’elevata difficoltà, gli ambiti medici ed ingegneristici, c’era rimasto ben poco da scegliere. Fu proprio allora che Davide Cuollo, uno di quei compagni con il quale dividi gran parte dei tuoi anni di scuola, mi aprì gli occhi (non l’avesse mai fatto):
“C’è una nuova Università a Benevento, si chiama Economia Bancaria”.
Aggiungendo come lui solo sapeva fare, testimonianze e riscontri pratici sulla efficienza e al tempo stesso faciltà della Facoltà. Io, per altro, non aspettavo di sentire altro, come chi non avendo trovato il biglietto per la finale è talmente disperato da spendere il triplo per un posto in curva.
Quindi Cuollo padre, Cuollo figlio ed io, decidemmo di partire alla volta di Benevento. Ma… Maleventum: un biblico temporale bloccò la Cuollo car che in panne non ci condusse a destinazione. Era il destino? Ancora il destino, lo stesso del sorteggio, ma ancora una volta non lo ascoltai.
Ed infatti la mattina seguente il secondo tentativo andò in porto e arrivati alla segreteria del centro universitario beneventano, non potei esimermi dall’esclamare:
Ccà ci stanno i cani muorti!
Proprio così, nessuno era in fila! Eravamo gli unici a volerci iscrivere: cosa c’era di più meraviglioso? Mentre gli altri miei amici erano dall’alba componenti ultimi di code umane improbabili, noi potevamo recarci con tutta calma nella segreteria più vuota d’Italia!
Ogni dubbio si allontanò dalla mia mente, ogni perplessità fu spazzata via, Economia Bancaria era la scelta più saggia coerente ed adatta alle mie capacità: nun ce stev’ nisciun’!
Avevo appena 18 anni ma sapevo bene quello che volevo dalla vita.
Ci iscrivemmo.
Ed iniziarono i primi problemi, primo fra tutti come arrivare a Benevento. Optammo per il pullman che, a detta di molti, ci consentiva un viaggio comodo, confortevole e con arrivo a due passi dalla fonte di cultura. Ma i molti furono presto smentiti.
L’autoblus partiva alle 8.15 da piazza Garibaldi ed arrivava a destinazione per le ore 10.00; brutto, scomodo, e pur’ spuorco, era davvero improponibile. Nell’ultimo tratto di strada, il busblu si popolava di ragazzi e ragazze non ancora colonizzati; persone fermatesi all’epoca feudale, protagoniste di un look improbabile e di un uso della parola incontrollato ed incomprensibile, da far arrossire persino i fruitori del traghetto per Capri il lunedì di Pasquetta.
Ma… Maleventum: questi country men erano i miei nuovi colleghi universitari!
Carina però Benevento, città che avrei studiato, ma molte università dopo, per la sua storia, le sue chiese e i suoi chiostri medievali; carina davvero peccato che  facev’ sempre fridd’ e (Male) ventum!
Fui colpito anche dalla cordialità della sua gente. Una mattina dovevamo andare a pagare dei bollettini e ignari su dove fosse l’Ufficio Postale fermammo un signore per avere la giusta indicazione:
“Scusi, mi sa dire dov’è la Posta?”
E lui: “Che posto?”
E noi “La Posta, la Posta Italiana”
E lui: “Ho capito, ma che posto?”
E noi: “L’Ufficio Postale, i bollettini da pagare, ‘e letter’, ‘e cartulin’…”
E lui: “ Va bene, ma in che posto?”
E noi: “’E francobolli, ‘e raccomandat’, ‘e pacchi…”
E lui:  “Si, ma che  posto cercate?”
E noi:  “‘A pensione...”
E lui: “Ah la Posta! E voi non vi spiegate bene!”
Pensione era stata la parola chiave. Il villico ci  indicò dove fosse l’Ufficio Postale, era a pochi metri, lo trovammo  chiuso: un minuto per arrivarci e tre ore per sapere aro’ steva!
Ben presto capimmo che era inutile seguire le lezioni universitarie, anche saltuariamente; tutto quel viaggio per sole due ore di permanenza per poi ritornare a Napoli, stavolta via ferrovia, rischiando di perdere il treno mentre chiedevamo ai passanti dove fosse la Stazione…
Comunque un anno dopo avevo all’attivo due esami, più rubati che studiati; Diritto Pubblico e soprattutto Storia delle Banche e Assicurazioni, che si concluse con queste parole proferite dal docente:
“Ti metto 25, anche se mi hai detto un cuofano di stupidate, vattene prima che cambio idea”
A settembre, intanto, la agognata automobile, acquistata per poter più facilmente raggiungere Benevento, stava per diventare realtà. E fu proprio allora che il Cuollo, mi illustrò la sua nuova idea (non l’avesse mai fatto):
“Trasferiamoci a Napoli, ho visto che gli esami di Economia e Commercio, non sono tanto diversi”. Aggiungendo, come lui solo sapeva fare, testimonianze e riscontri pratici sull’efficienza e al tempo stesso faciltà della Facoltà. Io per altro, non aspettavo di sentire altro, come chi non ha trovato nemmeno la curva e disperatissimo è pronto a pagare una sedia su di un terrazzo che affaccia sullo Stadio, pur di non perdersi la partita.
Ipse dixit, per modo di dire. Numerose infatti furono le trafile burocratiche: documenti firmati e rifirmati, tasse pagate e ripagate, segretari salutati ed insultati.
Comunque arrivò il giorno del primo esame ad Economia e Commercio nella contemporanea Università di Monte Sant’Angelo, nuovo grande complesso nei pressi di Fuorigrotta, fiore all’occhiello di una città che guardava al futuro senza paura; un po’ come me.
L’esame era Economia Politica, si componeva di due prove, una scritta ed una orale. L’orale avveniva a distanza di una settimana e chiaramente era inutile per chi non si era distinto nella parte scritta. Elegantissimo, convinto comunque di aver indovinato qualcosa nella prima prova, ritornai dopo giusti giorni 7 per completare il mio esame. Prima di entrare nell’aula carneficina dovetti imbattermi in colleghi che avevano avuto sorti avverse e che piangevano sulle loro miserie:
“Sta lota! Indovina quanto mi voleva mettere?”
“Non so?!”
“26!”
Vabbuò dai, anche se ti può aver lievemente abbassato la media…” cercai di confortarlo per tutto quel ben di Dio…
“Ma sei pazzo? 26? Io l’ho rifiutato!”
Aveva rifiutato un 26! Soltanto il nostro fantasioso amico Francesco Porchetta aveva fatto lo stesso, ma ben presto si scoprì che era stata la solita palla del Suino.
Sebbene questa volta fosse realtà, la mia affermazione già utilizzata in quella occasione, mi sembrò non anacronistica nei riguardi del malcapitato rifiutante: “Ma va a ffa’… ll’operaio!”.
Entrai quindi in aula. Subito notai di essere l’unico in giacca, cravatta e pantalone buono in un’aula tempestata da jeans e maglioni: una freccia in più al mio, seppur ignorante, arco. 
Fui chiamato per primo alla cattedra dall’esimio prof. Boccella (verit’ che nomm’!), e più mi avvicinavo e più pensavo al rinunciante di prima: “26! Che schiuma! Io non rifiuto nemmeno 17 e 2 figure!”.
“Lei lo sa che lo scritto non è andato tanto bene?” Incalzò subito La Boccella.
“Cercheremo di rifarci all’orale” Prontamente gli risposi.
Sua intenzione era quella di non farmi parlare rispedendomi a data da destinarsi, quando però guardando il libretto si ricordò del mio curriculum studiorum:
“Ah ma lei è quello che stava a Benevento? Come mai si è trasferito?”
“Sa” con voce triste ed espressione toccante “Ci sono stati dei problemi… perciò avrei bisogno di superare questo esame, anche un 18 mi andrebbe bene… ho bisogno di una spinta per superare questo momento”.
Lui mi rifece la domanda mentre tra i suoi occhi sembrava traspariva un anelito di commozione: “Come mai si è trasferito?”
“Ci sono stati… ci sono stati dei problemi!...”
L’aula era più silenziosa che mai, la leggenda vuole che qualche studentessa avesse addirittura iniziato a piangere; tutti col fiato sospeso, tutti a tifare per me, povero ragazzo sfortunato, vittima di una società crudele, che chiedeva soltanto un piccolo aiuto da quel professore. Quel padre-professore che mi fissava con occhi rossi e lucidi, apparentemente pronto a scoppiare in un bagno di lacrime.
Il Boccella aprì la bocca, quasi come se stesse per dire “’E figli so’ piezz’ ‘e core! Il 18 è tuo!”
E iniziò: “L’unica cosa che posso fare” la platea era all’apice della suspance, attimi interminabili, durante i quali mi passò tutta la vita davanti, ripensai ai miei esami,  il liceo, le medie, le elementari, a ritroso nel tempo fino al primo vaccino.
“L’unica cosa che posso fare: è farti tornare a giugno”.
Delusione e sconforto dentro e dietro di me:
“Ma non mi… non mi importa il voto, mi accontenterei anche di un 18…”
Il padre-professore divenne professore-bastardo, gli occhi lucidi non erano commozione ma congiuntivite, il viso cupo non era triste ma adirato:
“Vuole tornare a giugno?! Vuole il 18?! Quante cose vuole?!?”
“Veramente se mi dà il 18 è inutile che torno a giugno...”
Maleventum. Ormai La Boccella non mi ascoltava più, era travolto dalle sue stesse grida che rassegnarono me e mi consigliarono la via dell’uscita, ma che furono saette per gli esaminandi successivi che dovettero pagare le conseguenze di quello scatto e di quelle urla, maledicendomi dopo avermi compatito. Nell’animo dell’uomo le emozioni si susseguono e spesso si contrappongono spietatamente. Sono certo che lo stesso esimio titolare della Cattedra di Economia Politica, tornando a casa, in ascensore, cenando, prima di dormire, si sia sentito ripetere nella mente che miscela ricordi ed immaginazione: “Ci sono stati dei problemi, problemi, problemi”; forse è orfano, forse è malato, forse ha le ore contate “Ci sono stati dei problemi” ed io… io ho… io l’ho… l’ho bocciato! Me tapino…
In fondo anche Le Boccelle hanno un’anima.
Comunque il caso, al quale per ben due volte non avevo dato ascolto aveva voluto così. Ed io seguii il suo responso abbandonando l’Università.
Ero in attesa di un’altra intuizione del buon Davide, ma reduce anch’egli da una fallimentare stagione universitaria, con il fiato in Cuollo della Leva obbligatoria, ne stava già pagando le conseguenze in una caserma militare.
Questa volte non aggiunse né testimonianze né riscontri pratici, come solo lui sapeva fare, ed io dispiaciuto ed arreso dovetti rinunciare a vedere la finale. La mia partita l’avevo persa e non a caso…

il Pickwick

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