“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 15 May 2022 00:00

Alberi nella sabbia − Senza sonno

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In un buio assoluto redento solo da pochi riverberi fiochi e dispersi, residuati di una luna già tramontata da un pezzo, due piccole strutture dalla facciata triangolare sostavano in mezzo a un prato leggermente scosceso. Le due tende canadesi avevano un tessuto e un tono indefinibili quanto i loro presunti occupanti, non essendo presente al loro interno nessuna luce che potesse far indovinare le sembianze di questi ultimi.

Se degli inquilini erano davvero presenti, del resto non si potrebbe spiegare altrimenti il senso di due tende ben ancorate, questi dovevano stare di certo dormendo, e dovevano farlo in modo profondo anche, perché quel silenzio diffuso era innervato soltanto dai vaghi e segreti rumori provenienti dalle propaggini del bosco.
In effetti qualcuno c’era; si trattava di due giovani coppie. Di quei quattro campeggiatori, tre si erano già da tempo affidati a un sonno distensivo e beato, il quarto, invece, continuava a non fissare assolutamente niente, ma per farlo manteneva gli occhi aperti, testimoniati soltanto dal debole luccichio di sclere specchianti, affondate in due stanche orbite prosciugate. Lo sguardo agiva dentro al nero della tenda contenuta nello spirito notturno, a sua volta inscritto in un’oscurità sovrastante e senza confini. Il quarto era Anita, e Anita non dormiva mai, lo sapevano bene i suoi compagni di avventure che nulla potevano fare dinanzi allo scoramento dell’amica; quella sorta di disagio farcito di innocuo risentimento nei confronti di tutti loro, ottimi dormienti. Terza notte del terzo giorno di cammino, e lei non dormiva ancora; era fin troppo stanca, ormai, per poter riuscire in un’impresa del genere.
─ Gita in montagna? ─ Le aveva proposto Paolo all’incirca tre settimane prima. Avrebbe dovuto trarne qualche tipo di giovamento; ora invece la pausa dalla routine giungeva quasi al termine e lei doveva subito distogliere il pensiero, portarlo lontano da questa verità: l’idea di una vacanza pressoché sprecata la faceva arrabbiare come nient’altro. Davanti alla sua faccia il nero continuava a imperversare e gli occhi, esausti più di lei, rinsecchiti dal vento e dal succedersi di guizzi provocato dalla vita diurna, restavano spalancati come se fosse scattata la molla e si dovesse esercitare una forza troppo grande per far tornare le palpebre in posizione. Il silenzio era così grande da apparire irrimediabile. Sembrava proprio di albergarci, dentro a quel silenzio, e che la realtà del buio appartenesse al corpo vuoto di quest’ultimo, più che al regno degli stimoli visivi. Se nessuna cosa poteva essere vista, allora nessuna cosa, in concreto, esisteva. La notte poi... quella era il sordo annullamento del concreto; ecco come tutto le si mostrava da quando dormiva solo un paio d'ore, o poco più. Eppure i pensieri restavano lì in sospensione, non diventavano eterei come i desideri, non perdevano il loro peso come i sussurri e le scene di giornate riproposte in lente o convulse successioni di fotogrammi. I pensieri la rincorrevano con costanza, ma nonostante questo non riuscivano a raggiungerla e a esplicitarsi. Erano solo un nebuloso e gelido fiato sul collo, un fastidio respinto da voci e fantasie disordinate. Il nero, il sempre uguale nero.
Un lampeggiare disunito e controllato dà pace, uno sfondo nero statico dà finta pace: esso è l’assenza, e quando si è perso ogni punto di riferimento l’inquietudine governa in modo sotterraneo, pericoloso quanto attrattivo. Si vede che la testa suggerisce idee spesse, sedimentate l’una sull’altra, e forse che l’insonnia arriva per rendere saggi. Del resto, una coperta nera sulla vista induce a una tranquillità senza fondamenta, i lievi bagliori, al contrario...
Anita si sentiva rigida come quando la sera tardi, da bambina, restava immobile sotto alle coperte ad aspettare che i genitori rincasassero. A tratti il cuore le sobbalzava: accadeva in quei momenti in cui il pesante sonno infantile aveva quasi la meglio su una coscienza ancora tenera, per poi essere sconfitto all’ultimo secondo. Ma dalle piccole fessure della persiana, allineate come i trattini più disciplinati che si conoscessero, i flebili abbagli di una sconosciuta vita notturna raggiungevano gli occhi quasi nuovi, e solo appena dischiusi. Essi diventavano preludio di buone novelle, e il riavvicinamento dei genitori nel loro incolume rientro in casa era la realtà processata fra quei trattini. Le luci del mondo esterno alla stanza dei piccoli contemplavano fari in dirittura d’arrivo, portiere delicatamente sbattute nel suscettibile isolamento della notte, la rinnovata presenza di una madre e di un padre, di quell’insostituibile entità che erano loro due.
Alle volte capitava che tutto questo venisse enfatizzato da grosse e placide gocce di pioggia. In quel caso l’emozione si faceva più gustosa e il cuore batteva, ingordo di successivi attimi, perché l’acqua rendeva languidi i riflessi intorno ai lampioni, che insieme ai fari e a chissà cos’altro penetravano tra le linee di quello schermo a chiusura della finestra. L’acqua migliorava l’attesa favolistica di un miracolo consueto, ammorbidiva lo spettacolo, vi aggiungeva mistero ma subito lo faceva diventare qualcosa di familiare, deprivandolo di un’angoscia tutta intera attraverso la netta impressione dell’imminente rientro, lasciando giusto una punta d’ansia a coronare la più gioiosa sorpresa di fronte all’evento. E l’accadimento tanto sperato era lì, stava per sopraggiungere: lo si poteva già assaporare, se ne potevano presagire le scie degli abituali profumi, le tracce viventi di padre e madre.
Ma ora il buio avanzava con il suo solido immobilismo, non c’erano i trattini della persiana, e neanche una piccola luce artificiale doveva essere accesa. Non poteva far questo al ragazzo addormentatosi accanto a lei, non adesso che il suo respiro si era fuso col silenzio. In quegli istanti il sonno di lui era così abissale che il suo subconscio avrebbe dovuto risalire numerose atmosfere oceaniche per riemergere lì, in quel prato, dentro la loro alcova. Sapeva che neanche un terremoto lo avrebbe smosso, ma preferiva non rischiare. È orribile discendere appieno nell’impero onirico e sentirsi di colpo schiaffeggiati da un rumore che ti ruba e scaraventa al di là dei suoi confini, in un altrove che già prima non aveva più tanto senso, e della cui esistenza ti eri del tutto dimenticato. Sapeva bene cosa si provava in quel frangente, lo rimpiangeva addirittura, adesso che il suo sonno era diventato tanto effimero o del tutto assente, producendo l’impossibilità di un brusco risveglio per mano altrui.
Non sentiva più respiri, ma non riusciva a distinguere il dato presente dal proprio vacuo pensare, e d’un tratto ebbe il dubbio di essersi addormentata per davvero. Poteva mai essere? Il buio, però, continuava ad appartenere alla vera tenda, non c’erano rivisitazioni di sorta. L’entusiasmo di Elisa, in quel pomeriggio trascorso da ore, le rintronò di colpo la testa rimbalzando da un angolo all’altro delle sue stanze interiori, virtuali ambienti ancora in divenire, in bilico fra immaginazione e sentori del bosco: ─ Guarda! Guarda! ─ strillava la compagna di Fabio incurante di seppellire la quiete del luogo e del cervello dell’amica, reso ovattato dalla mancanza di sonno ma, ahimè, particolarmente sensibile alle alte frequenze. ─ Una volpe! Là, proprio in mezzo a quei tronchi! ─ spiegava con i suoi occhi allegri e riposati. Anita riviveva il momento in cui il suo cranio era ruotato nella direzione indicata dall’indice della mano destra di Elisa. Ora quella movenza le appariva assurda, lentissima, una sferzata al rallentatore che dipingeva davanti al suo sguardo un arcobaleno psichedelico disciolto nell’aria e sfrangiato. In quella molle macchia di colore il verde carico di fronde e cespugli prevaleva sul trascinarsi di piccoli dettagli distonici, prolungando il semicerchio di quella giravolta fino al più netto particolare di una piccola zampa sormontata da una folta coda rossastra che si presentava bianca in punta, e sfuggiva dietro a un indistinto pot pourri di vegetazione. È curioso come nei periodi di insonnia ciò che è stato ieri sia identico al domani e quanto il domani sia uguale all’oggi. Possono anche accadere cose impensabili fino a un istante prima, si può virare il proprio destino verso approdi estranei alla rotta principale, ma quando non si dorme i cambiamenti, gli intrighi, il divertimento, subiscono un'eccentrica mutazione: tutto viene esacerbato e al tempo stesso appiattito, e si fa monotono. Ogni cosa somiglia a ogni altra: sentimenti, ricordi, momenti di vita vissuta nel presente, oggetti e finanche persone, e tutto si espone allo smarrimento del proprio valore. Eppure c’è qualcosa, in mezzo a quel marasma, c’è una congestione di nuovi pensieri che aspetta solo di essere raggiunta e liberata, per dare vita a un inedito passaggio, e per aprire le giuste strade. Se solo non si fosse così stanchi da impiegare anni su anni, per sbrogliare la matassa e uscire fuori dal labirinto...
─ Oh, vedi quant’è bella! ─ Aveva infine risposto lei di fronte alla fuggevole bestiolina, ma forse non era riuscita a simulare un forte interesse con la giusta credibilità. Si era trattato di un momento davvero prezioso, un momento che però lei avrebbe ricordato confusamente, una memoria inquinata dal sonno. Poteva essere successo mesi addietro, o poteva essere ancora in procinto di accadere: non avrebbe fatto molta differenza.

D’improvviso qualcosa dentro la tenda si trasfigurò e, come un riflesso istintivo, una lontana sensazione del sapore della carne che avevano mangiato per pranzo si fece avvertire nel caldo vellutato e stantio della sua bocca serrata. Quasi che un futuro accenno alla possibilità della colazione si stesse palesando. Che ore erano? Non ne aveva idea, e neanche le interessava. Non sapeva nemmeno dove fosse lo smartphone, ma comunque non c’era campo, almeno non nelle immediate vicinanze di quelle pareti di tessuto. Gli occhi appena socchiusi le bruciarono e di getto ritrovò davanti a sé quei flebili bagliori, in veste di un nuovo giuramento da parte del giorno. Il ritorno di qualcuno o di un ricordo, poteva darsi. Forse, il ritorno di una consapevolezza più robusta, e della vecchia lucidità...
Sembrava si fosse contato non più che uno stretto giro di secondi, dalla sera, eppure tutto era apparso affaticato, macchinoso, anche il trascorrere del tempo, come se di quel tempo invece ne fosse passato proprio tanto. La testa le vorticava, ma il giramento era di quel tipo che precede l’alba, e che inquieto ti vuole far saltare giù dal letto e intraprendere un nuovo sentiero, ancora una volta in salita eppure bramato, come inevitabile, da un corpo in combutta con l’ostinazione dell’animo. Ma, un momento; il baluginio esterno era più che flebile... di già? Così presto svaniva l’illusione? Ancora una volta esso sembrava per lo più inesistente. Non era vicina l’alba, non era ancora nemmeno sognata un’aurora piena, solo un’impressione del finire della notte. Eppure il corpo fremeva e la crisi di immobilità, quella pesantezza da paralisi, cominciava a dileguarsi, a esalare via da qualche invisibile strappo nel suo rifugio di stoffa.
Buio, un lungo secondo di buio opaco e inintaccabile. Non sarebbe uscita fuori dalla tenda in quel buio asfissiante, né da sola, in mezzo a un prato nel centro di una piccola cresta di moderata montagna. E perché avrebbe dovuto farlo, poi? Ma subito dopo l’istante in cui una certezza quasi afferrata sembrava essere stata spazzata via dall’evidenza, questa veniva rimpiazzata da un gentile fremito di luce. Non vi erano più dubbi: il giorno era già in cammino e presto il suo ritmo avrebbe incalzato. Era stato solo un fraintendimento, per fortuna; loro e il bosco entravano già nel reame dell’aurora. Tutto giaceva ancora in quella penombra dal colore freddo, ma gli arti, ormai, avevano spezzato le catene impalpabili ed opprimenti; la testa voleva andar fuori, e la testa e lo stomaco comandavano di fianco a qualsiasi cuore umano, a volte lo sostituivano, gli davano il cambio, a patto che però non si assentssse a lungo, rendendo inutile ogni sforzo. Anche il cuore lo voleva, e Anita riuscì a sfilarsi dal sacco a pelo e a rinfilarsi nella la felpa senza che Paolo muovesse un solo muscolo. L’apertura della tenda scorse come una liscia lama in un panetto di burro lasciato al caldo, e l’aria fresca che l’accolse decise per prima cosa di tirarle due schicchere sulle guance intorpidite. Le immagini erano come una brezza; vedeva gli alberi attraverso una sottile e rada nebbiolina che fumava blu e bianco dentro l’aria stinta.
Si sentiva intontita ma risoluta, sperimentando una sorta di tensione nella struttura dei suoi muscoli. Da un certo punto di vista, però, quella tensione si poteva definire vigore: era pronta per una breve camminata. Tutto l’avvolgeva nel silenzio di quella notte appena schiarita da deboli riflessi, e si stupì di vedere la materia delle fantasie proiettarsi dentro quell’atmosfera tangibile, reale eppure fiabesca, proprio come uno se la sarebbe aspettata, come l’avrebbe voluta al risveglio nei pressi di un bosco. Avvertiva le palpitazioni e sentiva di doversi muovere al più presto, anche senza una meta. Avrebbe trovato a caldo un obiettivo: era inutile restare tappata lì dentro a non dormire, tanto valeva stancarsi agendo. Così si decise, e il mobile cerchio alla testa aumentò i suoi giri. Al contempo, però, quelle piroette le trasmetterono una certa energia, come una ponderata scossa di adrenalina. Ecco un riecheggiare d’acqua, un probabile ruscello; doveva trattarsi di quel piccolo corso che avevano costeggiato nel pomeriggio, prima di arrivare al loro temporaneo accampamento. Nella sua mente subentrarono altre immagini, e stralci di recenti conversazioni. Le sue orecchie udirono la voce di Paolo in quel vicino ricordo: ─ Ci andiamo a comprare una tenda, ci buttiamo su un prato, ci rilassiamo, respiriamo aria pulita, e magari così il tuo morbo si affievolisce.
Già un paio di mesi prima avevano cominciato a chiamarlo morbo, e con affetto, quasi; dato che per involontaria colpa di lei il morbo era diventato irrequieta costante del loro riposo notturno, quello sembrava più simpatico come termine. Aveva timore a utilizzare la parola insonnia; quella dispettosa divinità avrebbe potuto anche triplicare il suo potere, per quanto ne sapevano. Non era la prima volta che parlavano di un ipotetico campeggio, ma Anita aveva già dimenticato i discorsi precedenti. Non avendo loro mai fatto una cosa simile, si stupì un poco della risolutezza di Paolo nel reintrodurre la scomoda ma pure allettante possibilità.
─ Non lo so, dici che sono il tipo adatto? ─ Gli aveva chiesto Anita di rimando.
─ Perché no? Abbiamo fatto viaggi più impegnativi, qualche giorno potremmo anche prendercelo. Tu di certo te li dovresti prendere e pure io. Sai, non dispiacerebbe neanche a me dormire senza interruzioni, come una volta. ─ Affermò con fare scherzoso. Ma aveva ragione, come poteva non accontentarlo? Era da tanto che non facevano una vacanza, si sarebbero svagati, finalmente!
─ Chiediamolo anche a Fabio e a Elisa, se ti va. ─ e di nuovo aveva pensato che Paolo non avesse avuto una cattiva idea. L’organizzazione campestre era stata meno complessa di quanto immaginasse. Valeva la pena provare, perché la possibilità di una costosa e, si presumeva, ammorbante terapia si appropinquava al suo orizzonte. Lo yoga non era servito, le tisane o la dieta non avevano funzionato, così come i vari estratti. Inoltre non era abituata a dipendere dai medicinali, e il rischio di cominciare ad assomigliare anche solo lontanamente a una scatenata accolita della setta dei dipendenti da farmaci, le faceva una certa impressione.

Fece un passo e... si trovava già lì? Tutto sommato il fiumiciattolo non era lontano, non molti filari di alberi davanti alle loro tende. Più giù, verso la vallata, i salti e la rincorsa dell’acqua che inseguiva se stessa si moltiplicavano, e il sussurrato andamento del corso si trasformava nell’impeto di un fiume di degna portata. Si guardò intorno con l’aria di chi stesse accorpando in un solo colpo d’occhio le immagini sovrapposte di più dimensioni, facendole diventare una sola realtà. Il battito era più intenso del solito, lo avvertiva al livello dell’attaccatura della gola al trapezio, ma era diventato più regolare. Le sembrò di avere giusto un po’ freddo ai piedi, nonostante gli scarponcini. Eppure la temperatura si rivelava più confortante di quanto sperasse, anche in quell’ora così anticipata. Adesso si dimenticava dei piedi freddi, tanto che erano quasi diventati, al contrario, bollenti. Sentiva invece le parti inferiori delle gambe farsi leggermente pesanti. Non era stata una buona idea, quella di accamparsi su un dislivello, seppur leggerissimo; mentre pensava a questo il suo sguardo venne investito dal tappeto d’erba che circondava le loro tende come il getto di una cascata si fende lungo i profili delle rocce, di quelle che sporgono dalla stessa parete a picco oltre il cui margine trabocca l’imponente tuffo dell’acqua. Il sangue doveva essersi accumulato troppo in basso. La testa era racchiusa in una morsa di pesantezza, e insieme si librava leggera nell’alito del bosco, tanto che se non fosse stata per così dire saldata sul collo, sarebbe volata via. Il cielo fra i tronchi era indefinibile, un pezzo di stoffa plumbea non per via di nubi, ma della perlacea essenza aurorale che pervadeva quei luoghi ancora spenti. Solo l’acqua scorreva, mentre i viventi latitavano: appena un accenno di gufi e di quegli strani ma pavidi gridolini che si odono bene duranti le estive notti d’infanzia, quelle trascorse nelle case in campagna. Sembrarono pochi, i passi marcati su alcune foglie morte, a quando al termine di quel breve spostamento alzò di nuovo lo sguardo, constatò di aver raggiunto un’altra piccola radura, questa volta sassosa; lì il rumore del liquido fluire si fuse con il suo avvistamento.
Si trovava nel mezzo di uno spiazzo racchiuso sul lato opposto dal prosieguo del bosco. Il ruscello che vi scorreva dentro come una pacifica ma dinamica ferita, era travolto dallo stesso grigio del mondo. Ciononostante baluginava intrepido lungo la pelle del proprio manto sfuggente, per via dei ridotti salti che facevano guizzare l’acqua su pietre e sassolini ancora più grigi dell’aria. A tratti erano tocchi già argentei, quelli dello stretto e basso fiume, anche se nessun sole era ancora spuntato per esasperarne la brillantezza. Ebbe quasi la folle idea di levarsi le scarpe e immergere un attimo i piedi nell’acqua, ma presto si accorse che tutto quello che stava combinando non aveva molto senso, così si limitò ad agire come ognuno di loro avrebbe fatto. Si trovò una roccia fra le più grandi tra quelle che costeggiavano la sottile riva, e, nel mezzo di un cambiamento dell’aria, come un crescendo di quella tinta umbratile in cui tutto sembrava calarsi, si sedette su di esso. Doveva essere un passaggio di nuvole poco visibile nel bianco smorto e oscurato del cielo. Provò un leggero stimolo a urinare, ma si disse che non era urgente; avrebbe aspettato ancora un altro po’. Voleva solamente godersi l’ambiguo spettacolo che attendeva la resurrezione del loro astro.
Appena adagiatasi sul masso venne attratta da un singulto distante, seguito da un leggiadro fruscio di rami. Di vento non v’era traccia: doveva trattarsi di un animale di piccola taglia, nulla di cui temere. Il movimento messo in atto per abbandonare la schiena al contatto con la pietra, aveva rimestato la sua pressione sanguigna, e lei avvertì una spinta contro le tempie, e un madido sentore di ubriachezza. Proprio in quel momento la mente venne distolta da un nuovo strisciare di catene notturne che ottenebrava la coscienza; un flusso a cui non poteva opporsi.
Ebbe la visione di fronde scure che sbattevano con violenza contro la finestra della casa dei suoi nonni, ma era notte e la stanza non si vedeva bene. Non riusciva a ricordarne con esattezza l’interno, si rammentò solo di quell’orribile acuto rumore di rami graffianti e del tonfo dei pesanti viluppi di fogliame che impattavano con velenosa rabbia contro il vetro, come se volessero irrompere dentro la casa e distruggerla. Batté allora le palpebre per allontanare quella visione irritante; non prediligeva il ricordo di sciocche paure infantili. Ma un vortice ventoso fatto di pezzi traslucidi e opachi, rifrazioni e antichi odori scandalosi che non credeva di ricordare, le girò intorno al panorama visivo fatto di nulla. Costretta di nuovo a guardare ciò in cui le mente era immersa, prodotto della sua stessa distillazione, si ritrovò davanti il viso di sua sorella Gessica mentre giocava all’aria aperta, chinandosi e raccogliendo piccoli sassetti bianchi che subito dopo gettava via con notevole soddisfazione. Doveva avere tutt’al più quattro anni e i suoi capelli, quelli avrebbe potuto ridisegnarli, tanto le erano rimasti impressi, si agitavano nel leggero vento biondissimi e fini, raccolti in una bassa e molle coda di cavallo che le arrivava alle spalle. Indossava un k-way scuro che per quanto fosse di piccola taglia, su quel suo esile corpo di bimba sembrava fin troppo abbondante.
Capì che stava rivivendo il giorno in cui i suoi le avevano portate a fare una gita al fiume. Il cielo era strano, striato di poco plausibili riflessi di un acido viola, ma riconobbe lo scenario: tutt’intorno al corso d’acqua, molto più largo di quello che aveva appena raggiunto, si estendeva una ghiaia irregolare e chiara, che andava poi a disperdersi diversi metri più in là, verso le morbide e quasi incorporee chiome di sottili ed elastici arbusti ripiegati su se stessi. Al di là, si vedeva il sovrastante fronte di un frastagliato e massiccio sperone di roccia. Le sembrava di avvertire ancora  l’umidità esalare dalla soffiante espirazione del rigoglioso torrente, sopraffacendola insieme al galoppante frastuono provocato dalla corrente sostenuta. Sentì la squillante risatina di Gessica, mentre percepiva soltanto la presenza dei loro genitori, ma non riusciva a scorgerli nella vicinanze. Guardava Gessica con gli occhi di adulta, ma in realtà adulta non lo era, non in quel ricordo in cui il suo corpo si reincarnava. D’un tratto le sembrò di essersi appena sdoppiata: agiva dentro la piccola Anita come avrebbe fatto da bambina, ma a un tempo la sorvegliava con la sua attuale coscienza.
Percepì un nuovo cambio di visuale; grandi rocce biancastre le erano d’improvviso comparse in faccia e le bloccavano la vista. Fece una piccola corsa verso la zona libera alla sua sinistra, ma la veduta circostante risultava fumosa e mutevole. Sentì la sua lunga treccia agitarsi e sobbalzare, compatta, sul collo. Si ritrovò di colpo a pochi metri dalla scena madre: Vide se stessa e Gessica da una prospettiva sghemba, mentre si avventuravano camminando lungo una scricchiolante asse di legno che oltrepassava il fiume come un pontile improvvisato, conducendo direttamente sulla sponda opposta e lambendo i flutti sottostanti. Si osservò mentre, voltata di schiena di tre quarti, camminava come un’aspirante funambola sopra il legno mezzo fradicio, mettendo con cura un piede dietro l’altro. Era quasi arrivata a metà, quando udì Gessica gridare: ─ Aspettami! Ani... aspetta! ─ e subito la seguì con lo sguardo dalla sua privilegiata postazione, senza poter intervenire. La più piccola imitò la sorella maggiore, e provò a poggiare la scarpa bianca già sporca di polvere sul principio smangiucchiato dell’asse. Avveniva nel momento in cui la Anita bambina sentiva il suo cuore pulsare con più forza, guardando con timore e con eccitazione in basso, verso le piccole ma aggressive onde che esplodevano con impeto, schiumando nell’aggirare la fitta distesa semisommersa di ostacoli costituita da piante, grossi rami e massi di ogni varietà e dimensione, e nel liberarsi dal giogo di sottili strettoie di pietra fra cui sgusciavano furiose e impazienti. In quel punto in particolare la profondità doveva essere sufficiente a coprire due volte l’altezza di Gessica, e la più puntuale concentrazione di pericoli risiedeva in tutto quel veloce tracciato d’acqua costellato di punte aguzze, superficie durissime e incrostate, e appigli sguscianti resi ancor più vani da una corrente in grado di portar via un animale di cinquanta chili.
─ No, fermati! ─ Aveva urlato a sua sorella, ma si stava facendo prendere dal panico: cominciò a sentire il calore emanato dall’interno della sua felpa espandersi anche al viso, e avvertì una specie di affanno nel petto. Davanti a lei la trave era più consumata, non aveva i bordi così ben intagliati come all’inizio del percorso. Anita non era sicura di riuscire ad andare avanti, ma non si sentiva nemmeno abbastanza salda da potersi voltare per vedere se Gessica le stesse effettivamente camminando appresso. Decise di provare comunque, ma quando tentò di girare su se stessa sentì il versante esterno del piede slittare lievemente verso il bordo. Ebbe la prontezza di impuntarsi e riuscì a recuperare il proprio equilibrio all’istante mantenendo le braccia distese come le ali di un aereo, mentre prendeva aria a pieni polmoni attraverso la bocca aperta, gli occhi le si sgranavano e di colpo il cuore impazziva. Ancora poggiata con la schiena al masso nello spazio di quel suo sogno lucido, Anita sussultò come un tempo, inghiottita per un secondo da quella vecchia, folleggiante paura.
L’aria avvampò di luce bianca, e d’un tratto si ridefinì nei lineamenti stravolti del volto di sua madre, ora a pochi centimetri dal suo. Uno dei peggiori istanti della sua esistenza. La sua bocca normalmente premurosa si aprì per farne uscire poche parole, sovraccariche di una collera tanto feroce da stupirsi di se stessa: ─ Che cosa ti avevo detto?! Che cosa ti avevo detto! Lo sfogo, sospinto dal terrore appena sperimentato, era stato così brutale che Anita sentiva ancora in faccia il fiato della sua mamma. Alle spalle di lei, un po’ distante, il volto del padre, posto così in alto in confronto alla sua piccola statura, non accomodante o paziente come al solito, ma dolorosamente neutro e molto serio, esplicativo della volontà di lasciare tutto lo spazio al rimprovero materno. E quello era più che sufficiente. C’era un momento di buio, fra il suo immobilizzarsi nel mezzo della trave, e la loro riapparizione sulla riva bianca, con la grande faccia delusa e sconvolta di fronte alla sua. Ancora una volta il buio. Solo la mamma che le voltava le spalle, e lei che si rendeva conto che nella mano della genitrice c’era la manina di Gessica, la quale nel frattempo guardava verso di lei con le labbra semiaperte, spaventata e confusa per uno sbotto che non poteva comprendere appieno. Poi sua madre si girò bruscamente per allontanarsi da lei e nel farlo trascinò con sé la figlia minore, costretta a stare al passo. Non poteva ricordare altro: da tempo non si rivangava quella storia in famiglia, com’era giusto che fosse...

Si riebbe di fronte al fiumiciattolo situato nel piccolo bosco, in quella fase fin troppo duratura di un’alba stentata. Osservò le linee di quel dolce sciabordio, così diverso da quello del terrificante fiume che aveva popolato molti dei sogni della sua infanzia. Ma non aveva mai avuto paura dell’acqua che scorre. Guardò a quella riva di sassi grigi e marroncini intervallati da terreno ed erba con una punta di tristezza, e persino di malinconia. Se l’era ripetuto spesso nel corso della sua vita, e ora, dopo che era passato così tanto dall’ultima volta che l’aveva fatto, si sorprese a mormorare la solita frase, tra sé e sé: ─ Non è successo, ma poteva succedere.
Fece qualche stanco passo lungo il letto del corso d’acqua, soffermandosi accanto a quelle zone in cui la mancanza della forte illuminazione diurna lasciava che la liscia, piena e assoluta trasparenza di quel liquido incontaminato si fondesse con la vaga oscurità del suo basso fondale.
─ Devo chiamarla. ─ si disse pensando a Gessica. Sembrava passata un’infinità da quando sua sorella si era trasferita all’estero, e anche dall’ultima volta che si erano sentite. Spostò lo sguardo verso la vegetazione e scorse il riflesso di due piccoli occhi. Fu come se, di punto in bianco, il cielo si abbassasse di un paio di toni, invece di rischiararsi, e quelle rotonde iridi divennero rosse punte di spillo. Nell’inspiegabile rigurgito della notte capì immediatamente cosa stava guardando. Da ragazzina, in campagna, lei e una sua amica avevano visto un piccolo essere discendere dalla grondaia di una villetta, forse reduce dal furto di qualche chicco d’uva dall’esile vitigno che incorniciava il pergolato del terrazzino. Era simile a uno scoiattolo, ma più scuro. L’amica le aveva spiegato che si trattava di una faina; era la prima volta che ne vedeva una. Se in quella zona c’erano volpi, di certo si potevano trovare anche faine, non avrebbe dovuto lasciarsi impressionare dalla cosa. Nemmeno lei sapeva dire perché fosse così sicura dell’identità di quell’animale, ma lo era. Con la coda dell’occhio vide innescarsi lo stesso scintillio di rosso e lucido nero nella zona periferica del suo campo visivo. Man mano gli occhietti si accesero ovunque lei si girasse apparendo fra i tronchi come lucciole in una semioscurità fosca e selvatica. Si ritrovò di nuovo seduta a terra con la schiena aderente alla pietra. Mentre il fiume scorreva sempre uguale e il paesaggio restava completamente fermo, solo la schiera di piccole faine avanzava verso di lei. Arrivavano da tutte le direzioni, e Anita ricominciò a sentire gli arti pesanti e intorpiditi, sempre più bloccati, tanto che le risultava impossibile alzarsi, girare i tacchi e fuggire verso la tenda. I minuscoli corpi neri con gli spilli al posto degli occhi cominciarono a saltellare verso di lei all’unisono, come un unico organismo.
Fu lì che un brivido freddo le fece accapponare la pelle: le balzò davanti agli occhi il ricordo di quello che aveva visto al tempo. Ciò che più di ogni altra cosa l’aveva disturbata non era quell’aspetto di roditore, bensì le melliflue movenze dell’infido animaletto. La faina avanzava a piccoli e lenti salti, tutti uguali, inarcando la schiena e distendendola con una sorta di sobbalzo a molla che faceva assomigliare il suo movimento a quello di un grosso verme scuro che contragga e rilasci il corpo per strisciare viscido e nudo sulla terra. L’unione di tante vibrazioni convulse e all’apparenza inarrestabili convergeva adesso nel centro della radura, e il centro della radura era lei. Iniziò a tremare, sentendosi percuotere la spina dorsale da agghiaccianti fremiti, e percepì i muscoli dell’addome e sulla parete della vescica contrarsi. Gli insinuanti, silenziosi saltelli le si appropinquavano con quelle ignobili e straniere punte di spillo, come inespressivi fori sulle facce buie di quei giganteschi bruchi. I capelli le si drizzarono su una testa bruciante del formicolio dovuto all’improvviso afflusso di sangue, che palpitava struggente. Stavano quasi per raggiungerla e lei non voleva, non voleva nel modo più assoluto! Non ne sarebbe uscita viva perché non sarebbe stata più la stessa, se l’avessero assalita, pensò mentre il suo respiro agitato si tramutava in un principio di iperventilazione...

Sentì pronunciare il suo nome e al culmine dello spavento spalancò gli occhi. Le ci volle un minuto per capire che il viso che aveva davanti era quello del suo fidanzato.
─ Siamo morti di paura! ─ Disse Paolo voltandosi per un istante verso l’incredulo Fabio che lo aveva accompagnato e sostava impietrito alle sue spalle, senza riuscire a fermare lo sguardo che si alternava fra l’espressione dell’inconsapevole fuggitiva e i suoi piedi scalzi e sporchi di terra. Tornò a guardare la sua ragazza, e proseguì con affanno: ─ Cosa è successo? Stai bene?!
Ma subito si tranquillizzò: aveva capito che lei si era incamminata lì fuori nel sonno e adesso era solo oltremodo impaurita. La abbracciò stretta per qualche secondo e tornò ad osservarla in volto; gli occhi sgranati che sembravano non vedere nulla man mano si concentrarono sui suoi, il respiro ansimante si affievolì, e Anita sembrò finalmente riacquisire la consapevolezza del luogo in cui si trovava. I muscoli del collo si distesero e le loro vene aggettanti si sgonfiarono. Anche quelle pupille dilatatissime che lo stavano facendo dannare si restrinsero. Lei notò che delle faine non c’era nessuna traccia, ma solo quando la riportarono all’accampamento e la aiutarono a distendersi nella tenda con il sottofondo della voce di Elisa, la quale era rimasta lì in apprensiva attesa e non la finiva più di chiedere cosa fosse accaduto, poté calmarsi del tutto. Paolo le si sedette accanto, tenendole una mano poggiata sulla spalla.
─ La devo chiamare ─ farfugliò lei rivolgendosi più che altro alla tenda, e infine crollò, sprofondando nell’invisibile culla di un sonno quasi doloroso ma medicante, e più potente che mai.





Brother Dege, The River

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