“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 26 March 2022 00:00

"Imitation of Life". Brevi appunti emotivi

Written by 

Ungheria regime illiberale? Missione compiuta
(Viktor Orbán)


Un paese può diventare una condanna?

(Ocean Vuong)


Forse ogni terrore è nel fondo ultimo l'inermità,
che vuole aiuto da noi
(Rainer Maria Rilke)




Cosa significa essere rom in Ungheria, adesso? Cosa significa appartenere a una minoranza in un paese governato da una delle destre più becere e intolleranti d’Europa? E cosa significa essere donna in un paese a crescente tasso misogino? Cosa significa essere fragili mentre imperversa il culto della forza, cosa significa sentirsi “diversi” – essere indicati in quanto “diversi” – ogni giorno, a scuola, al lavoro, in strada, mentre giochi coi compagni di classe, quando sei al supermercato o se vuoi fittare una casa? Cosa significa – quanto dolore e quanta rabbia (quante mortificazioni, quanta sofferenza) comporta – rendersi conto che sei un esubero, che il tuo sangue per qualcuno è un problema, che il colore della tua pelle o la tua fede religiosa e il cognome che porti, il quartiere in cui sei cresciuto, la tua situazione economica parlano irrimediabilmente per te? Cosa significa comprendere che la tua voce non l’ascolta nessuno? E cosa significa detestarsi poiché si è detestati, fino a provare il fastidio di essere nati e di essere nati così, come si è, al punto da odiare tuo padre e vergognarti di tua madre?

Imitation of Life di Kornél Mundruczó si presta a tante letture. È il racconto dello sfratto di un’anziana tzigana, che viene sostituita nel monolocale in cui abitava da una donna più giovane ma ugualmente debolissima giacché sola, sottoproletaria e in balia di un uomo violento, di cui apprendiamo l’insistenza padronale, la bramosia di possesso. È una rappresentazione dei meccanismi del Male, è la resa del modo perdurante in cui il Potere esercita la mano contro gli ultimi, è una denuncia credibile del fenomeno della riqualificazione urbano-architettonica e imprenditoriale realizzata attraverso l'esilio degli emarginabili, è l’ennesima storia in cui il denaro conta più dell’umano. È una testimonianza della crisi valoriale in atto in Europa. È la forma ulteriore data all'eterna relazione tra dominanti e dominati (rappresentati da anziani, bambini, donne e stranieri). Ed è un'opera che non prevede consolazione.
Gli appassionati dei linguaggi mediatici sottolineerebbero con entusiasmo l’intreccio saturante dei lessici adoperati da Mundruczó e in particolare quelli ad alta risoluzione tecnologica (il video in diretta, gli spezzoni da cinema, il frammento documentaristico, le dissolvenze filmiche, certi improvvisi virtuosismi onirici, l’istallazione artistica e il suo disfacimento compiuto a vista) − anche se mi pare che ad essere davvero necessaria infine sia la carnalità attoriale, l'unica in grado di dare alla bidimensionalità delle immagini la scandalosa tridimensionalità del corpo effettivo − mentre chi si sofferma di solito sulla trama partirebbe probabilmente dalla fine ovvero dal momento in cui la proiezione di una didascalia ci informa che nel 2015 un giovane ha ferito un bambino con una spada, che il fatto è avvenuto su un autobus, che la vicenda ha sconvolto l’opinione pubblica (dibattiti, polemiche, fiaccolate a sostegno della vittima) finché non si è compreso che l’uno e l’altro, aggressore e aggredito, erano rom. È alla luce di questa notizia terminale, ad esempio, che si può leggere tutto lo spettacolo a ritroso intendendolo come un approfondimento delle ragioni del gesto compiuto dal ragazzo, che si chiama Istvàn Ruszó e che è il figlio della donna che viene sfrattata all’inizio della messinscena. L’odio genera odio, insomma. Verso gli altri e verso se stessi.
Eppure a me, che abito in una regione quasi del tutto priva di teatro extra-italiano (lo Stabile per nove anni è stato vittima degli scambismi anche esteri del suo direttore; il NTFI ha ridotto la sua offerta e la sua vocazione internazionale rendendola minoritaria) rimangono innanzitutto in testa le domande con cui ho cominciato l’articolo. Perché Imitation of Life – più che per conoscere la poetica di un regista e il modo in cui recita questo gruppo di attori magiari – mi è servito per mettermi in ascolto e per provare a capire un po’ di più ciò di cui non ho mai fatto esperienza. Non, banalmente, per mettermi nei panni degli altri ma per prestare invece agli altri (alla storia che gli altri hanno bisogno di dirmi) la mia attenzione: non è anche a questo che servono in fondo i film e i romanzi, non è a questo che serve il teatro?


I primi venti minuti di Imitation of Life sono un dialogo proiettato su un velo che funge da quarta parete innalzata in proscenio. A telecamera fissa, il dipendente di una società (Liquid S.P.A.) interroga una donna, preannunciandole la cacciata imminente: “Domani mattina cominceranno a svuotare l’appartamento”. Di lui, al momento, soltanto la voce; di lei il volto e parte del busto. Carnagione chiara, sopracciglia grigie, lunghi capelli bianchi. Trucco leggero attorno agli occhi e sulle labbra, nella mano destra ha una penna Staedler, di quelle da cinquanta centesimi, mentre della mano sinistra mi colpisce il dorso, coronato da vene d'un verde marino. Ogni tanto s’afferra alle tempie (ha mal di testa), ogni tanto tossisce mettendo una mano alla gola o sul petto (è cardiopatica), ogni tanto pone il busto in avanti: lo fa per ribadire i propri diritti mentre, quando racconta la morte recente del marito, abbassa le palpebre producendo ai lati degli occhi una fitta ragnatela di rughe. Di questo confronto mi colpisce in particolare il contrasto tra le frasi adoperate dall’uomo (“La sua data di nascita, per favore”, “Devo identificarla”, “Dobbiamo procedere”, “Non posso darle informazioni finché non si fa identificare”) e la narrazione che compie in risposta la donna. Da un lato l’esiguità burocratico-amministrativa, per la quale sei una pratica, un numero, un disturbo, qualcosa (più che qualcuno) da levare di mezzo; dall’altro lo spessore di una vita che si dipana nella sua complessità dicendosi. La nascita e l’infanzia in un sobborgo-dormitorio, il lago Csala, il nonno “nano con manie di grandezza”, la famiglia dall’assetto patriarcale, il giorno del matrimonio e gli anni trascorsi a lavorare in una conceria, la nascita del figlio (“pesava due chili e duecento grammi”), la prima casa abitata (non aveva il bagno, il riscaldamento, il pavimento né l’acqua), i 60.000 fiorini mensili ricevuti tra pensione e malattia (pari a 162 euro e 60 centesimi), i sette anni trascorsi in questo monolocale, lercio forse ma con una sua dignità, dal quale adesso la stanno cacciando e la morte recente di suo marito, detta tenendo gli occhi chiusi. E la frase “gli zingari sono nati per essere felici”. E la scomparsa di Istvàn, dopo una lite col padre: chissà ora dove si trova (“Aspetto mio figlio. Non mi muovo da qui”). E il ricordo delle docce collettive “che facevano a noi zingari”: acqua, spugna e, per sapone, il pesticida per gli insetti.


L’intervista termina perché la donna pare non stia bene. S’alza il velo in proscenio e la vediamo a figura intera, nel mezzo del monolocale. Beve un po’ d’acqua dalla fontana della cucina, poi retrocede facendo quattro passi e sviene, nei pressi del tavolo posto tra il centro e il fondo della stanza. L’uomo, adesso visibile – pancia grossa, jeans che gli cascano male, spalle larghe, testa calva – chiama il pronto soccorso. Poche battute, fondamentali. Perché aiutano a capire, ad esempio, che siamo in periferia tant’è che “l’autoambulanza più vicina è a settantasei minuti dal luogo da cui mi sta chiamando” dice l’operatore. L’incuria della politica. L’assenza dei servizi basilari, che rendono civile un contesto. E il diritto (calpestato) di essere assistiti, se ti viene un malore qualsiasi.
La stanza è incastonata in una grande nicchia posizionata a mezz’altezza, tra l’assito effettivo e il soffitto teatrale. Costruzione internamente realistica, coi mobili volutamente non posizionati a favore di pubblico, dà spessore tridimensionale e materico all’esistenza che la donna narrava fino a pochi minuti prima. Siamo anche le cose tra le quali abitiamo. E dunque. Il divano, la pianta di plastica, i cuscini, un ventilatore, il giradischi, la vetrinetta coi flaconi medici. La cucina dalle ante chiare, il pentolame rosso, un tegamino ramato, la tv catodica, il forno a due manopole e dal cui manico pende uno strofinaccio. La corona d’aglio. I piatti, un bicchiere di vetro, i barattoli con dentro i legumi. Il forno a microonde, il doppio contatore (acqua ed elettricità), gli scaffali con sopra vecchi libri accatastati. Il frigo, una ciotola azzurra, la lampada, l’armadio con sopra tre valigie: due nere e una marrone. Sul fondo le lavatrici, a sinistra la lavastoviglie e un mobiletto pieno di giocattoli. Il telefono a parete beige chiaro. Le vetrate opache, prive di tende. I tubi arrugginiti e le piastrelle scheggiate. Una sedia di legno dallo schienale graffiato. Un tavolino basso. I cassetti per le posate. I ventiquattro neon al soffitto. Il ritratto, infantilmente angelico, di un bambino dai capelli biondissimi. “Quando arriverà l’autoambulanza si faccia portare in ospedale. Risultando malata non potranno cacciarla” le consiglia l’uomo, che di nome fa Mihály Sudár, dopo averla afferrata, tirata su e messa sul divano (lei per un attimo tende la mano, in segno di sollievo o di aiuto). È un frammento solidale, questo, che viene da una figura maschile sostanzialmente viscida, sudaticcia e affannata, e che è impegnata assieme ad altri, per conto della Liquid S.P.A., nel rastrellamento e nella cacciata degli zingari (“Hai dei sacchetti? Togliamo di mezzo il barbone” gli scrive in un sms un collega).
Gli ultimi momenti di questa porzione dello spettacolo mostrano la donna in piedi. È notte fuori diluvia, battono i tuoni, imperversano i fulmini facendo da flash, fotografandone la sagoma. Sui due schermi di lato passa un corto cinematografico. L'anziana donna è in un albergo, supera la hall, traversa un corridoio, bussa a una porta, scova e raggiunge il figlio che la riconosce. Rimangono sulla soglia. Io di qua, tu di là, mamma. “Chi è?” chiede al ragazzo la compagna con cui lui sta convivendo. “È la nuova donna delle pulizie” risponde Istvàn lasciando andare via la madre. Non la vedrà più. Cacciata dall’appartamento, povera, vedova e sola, sapremo che è morta. Quando, dove, perché, in quale circostanza non è dato saperlo.
Segue l’immagine/azione che consente lo svolgimento della trama. L’appartamento rimasto privo d’abitanti infatti inizia a ruotare, in senso orario (progresso cronologico) e su se stesso, lentamente. Gli oggetti vengono vomitati dai mobili, gli arredi sbattono tra loro, s’accumulano ovunque le cose della donna diventando ciarpame. I tonfi sono fortissimi, la violenza è inaudita. Come se una decina di mani avesse gettato all’aria tutto quanto, senza ritegno. Della vita che si viveva qui cosa rimane? Questa distesa di cose divenute spazzatura e destinate alla discarica. Poi. Lo stesso uomo di prima rientra in casa accompagnando la nuova affittuaria: Veronika Fenyvesi. Alta, bella, giovane ma con una stanchezza addosso che la fa sentire già vecchia. Poche regole precise, sia chiaro, detta l'uomo – niente fumo né bambini, divieto di restare incinta (altrimenti “diventa impossibile sfrattarla”, le spiega), un anticipo cospicuo dell’affitto, la firma del contratto fatta a matita e una copia delle chiavi che restano a me, le dice, perché io possa entrare quando lo ritiengo opportuno. Andato via l’uomo, Veronika viene raggiunta da un ragazzino: zaino sulle spalle, cappello di lana in testa, cellulare tra le mani. Hanno poco denaro – contano gli spiccioli rimasti, passando in rassegna le monete una a una – mangiano qualche pezzo di salmone in vaschetta, preso in chissà quale ristorante o tavola calda, s’adattano per sopravvivere sognando viaggi impossibili. Il bambino si addormenta sul divano, la donna invece raggiunge l’uomo che, insistendo, la perseguita messaggiandola: “Devo vederti”, “Mi manchi”, “Ti aspetto”. “Solo trenta minuti, che c’è mio figlio” acconsente lei via sms.
Si fa mattina, il bambino si sveglia, la madre non è ancora tornata. Cosa (le) è accaduto?


In Brevemente risplendiamo sulla terra – magnifico romanzo scritto da Ocean Vuong, che mi torna ora in mente – il narratore (Little Dog, un ragazzino vietnamita migrato con la mamma e la nonna in America) sull’autobus che lo porta a scuola viene aggredito da alcuni teppistelli locali. Uno, in particolare, prima lo offende, poi gli fa sbattere la testa contro il finestrino, schiacciangoli la faccia contro il vetro. Osservando l’esterno attraverso il vetro del finestrino mentr’eravamo nel pullman, racconta l’anziana donna all’inizio di Imitation of Life, mio figlio Istvàn ha compreso che eravamo diversi. Aveva due anni, si toccava le guance, sottolineando così la differenza epidermica tra lui e chi lo circonda. Istvàn comincia dal quel momento il rifiuto delle proprie origini e della propria famiglia. La volta in cui prova a sbiancare la pelle con la candeggina. Il pugno dato al padre, durante il rito dell’uccisione del maiale. I capelli tinti di biondo. La frase “meglio malato che zingaro”, il cambio di nome (pare si faccia chiamare Silvestro) e le menzogne dette alla ragazza con cui vive: “Sei uno zingaro?” gli chiede lei urlando, “Ma come ti salta in mente?” risponde Istvàn, per non rispondere. Sul finale di Imitation of Life si trova al cospetto del figlio della giovane donna che adesso abita l’appartamento. È da lui che apprende della morte di sua madre. Crolla, si piega, come schiacciato. Inerme e al tempo stesso furioso. Le lacrime gli restano dentro, con rabbia, mentre la bocca produce una smorfia di dolore. Perché siamo particolarmente crudeli proprio con le persone che amiamo? E come ho potuto comportarmi così?  sembra chiedersi mentr'io − guardando questo giovane, tornato tra le macerie della sua adolescenza e rimasto totalmente da solo (il padre e la madre morti, non ha fratelli e sorelle né amici, è stato cacciato dalla compagna, non ha più neanche una casa) − mi domando: fino a che punto è possibile rinviare i conti con se stessi? E davvero credevi possibile cancellare chi eri? Lo fisso e mi viene in mente che prima o poi (per Istvàn adesso e per ognuno di noi chissà quando) giunge inevitabile il momento in cui tocca chiedersi sinceramente “che uomo sono stato?” assumendosene la responsabilità.


Infine. Mundruczó rifiuta costantemente l'adesione alla cronaca (“Tendo a fuggire da narrazioni ideologiche che si iscrivono nell'attualità bruciante”, “Ai miei occhi l'arte fondata su fatti reali e opinioni politiche è meno interessante”, “Credo invece in un'arte classica, che agisce come l'acqua sul cemento: consumandolo e sgretolandolo”) e Imitation of Life non mi pare inquadrabile all'interno del fenomeno compositivo del Reality Trend (abbiamo attori professionisti, non ci sono documenti e dispacci giornalistici, nessuna sovrapposizione tra autobiografia degli interpreti e biografia dei personaggi) né mi sembra abbia a che fare con il realismo (durante Imitation ciò che sembra certo viene puntualmente smentito nella sua consistenza dalla pratica della scena e dal succedersi dei linguaggi mentre la drammaturgia, frammentaria, è contraddistinta da omissioni e ambiguità); in aggiunta: alla fine dello spettacolo è evidente che nulla di ciò che ritenevamo effettivo va assunto per quel che ci è parso: l'intervista video era il riporto in diretta di un pezzo di teatro; gli arredi, identici a quelli che abbiamo in casa, sono dei praticabili di scena mentre del fatto di cronaca citato alla fine non riesco a trovare alcuna traccia: sarà accaduto veramente?
Ebbene, nonostante questo − o meglio: proprio per questo (il falso attraverso il quale l'arte prova a dire un pezzo di verità) − mi viene di scrivere che davvero il contesto in cui avviene Imitation of Life è l'Europa odierna e che quest'Europa è raccontata davvero tramite l'Ungheria di Orbán. Ovvero siamo in un paese in cui governano i nazionalisti, i rigurgiti dello schifo fascista sono dunque ordinari e quotidiani, quotidiani e ordinari sono gli attentati ai diritti che definiremmo acquisiti: aborto, parità di accesso all’istruzione, libertà di stampa. I programmi universitari posti sotto il controllo del parlamento, la tv costretta a utilizzare le veline ministeriali, minata è l’indipendenza della magistratura, gli stranieri sono ospiti indesiderati, i migranti rappresentano una presenza illegale. Una nuova borghesia, vicina ai partiti di maggioranza, ha monopolizzato gli impieghi pubblici facendone proprietà privata, per sé e per i propri figliocci. Le compagnie statali sono finite nelle mani degli imprenditori compiacenti col sistema, gli amici d’infanzia del primo ministro (Lőrinc Mészáros, ad esempio) sono diventati in un decennio milionari. “La nostra è una democrazia illiberale”. Lo ha dichiarato non un membro dell’opposizione ma Orbán, vantandosene. Ebbene, va detto che in questa democrazia illiberale anche i teatri sono sotto minaccia e ricatto, ogni giorno. Una legge ha infatti istituito il Consiglio Nazionale della Cultura, il cui compito è “governare, guidare e dirigere la vita culturale magiara secondo i suoi criteri strategici”. Conseguenze? Restaurazione della censura, potere di veto sulle programmazioni, tagli dei fondi se necessario e la possibilità, per Orbán in persona, di nominare e licenziare la direzione di ogni teatro nel Paese. Si cancellano le repliche di Billy Elliot in Ungheria, in quanto conterrebbe “un’istigazione all’omosessualità”; in Ungheria è vietato parlare di argomenti che possano mettere in imbarazzo il governo. “La scelta” – leggo su la Repubblica in un articolo di Andrea Tarquini – “non è casuale”: dopo le epurazioni effettuate nei media, i palcoscenici sono l’unico luogo che ha conservato e anzi ha rafforzato il suo ruolo: essere la sede in cui viene inscenata una critica di qualità, essere uno strumento e uno spazio di controinformazione effettiva, essere lo specchio con cui riflettere il vero. Ecco, spesso ci chiediamo: cosa può fare il teatro rispetto a certi evidenti derive politiche, economiche e militari? E riesce ad essere davvero un gesto oppositivo?
Mi sembra che − prendendo in esame il rapporto tra ciò che vediamo in scena e il contesto effettivo − nel caso di Imitation of Life la risposta sia sì.  Fare questo tipo di teatro infatti, meglio: imbastire proprio questa trama, in Ungheria significa fare la resistenza; significa mostrare nel loro pieno svolgimento “gli abusi compiuti dall’autocrate sovranista” e dai suoi complici, come scrive Tarquini; significa porsi in una condizione di pericolo. Significa fare politica, nel senso più alto del termine, attraverso la poesia e la sua recita. Imponendosi il coraggio e decidendo di raccontare le storie che il governo non vuole vengano diffuse, né in patria né all'estero.






leggi anche:
Enrico Fiore, Sfratto di Stato nella Budapest sovranista (Controscena, 4 marzo 2019)
Gianni Manzella, Una nuova vita, o la sua imitazione (Art'o, 10 marzo 2019)
Elena Scolari, Zingari rotanti in Ungheria (PAC, 7 ottobre 2019)
Enrico Pastore, Realtà e politica: Mundruczó e Miriam Selima Fieno (Il Pickwick, 28 ottobre 2021)
Andrea Zangari, Imitation of Life di Mundruczó e Wéber. Reale, troppo reale (Teatro e Critica, 1 novembre 2021)
Edgardo Bellini L'odio che raggiunge sé stessi (Teatro.it, 29 marzo 2022)

 

 



Imitation of Life
scritto da
Kata Wéber
drammaturgia Soma Boronkay
regia Kornél Mundruczó
con Lili Monori, Roland Rába, Borbála Péterfy, Zsombor Jéger, Norton Kozma
scena Márton Ágh
costumi Márton Ágh, Melinda Domán
musica Asher Goldschmidt
assistente alla regia Blanka Rákos
foto di scena Marcell Rév
produzione Wiener Festwochen (Austria), Theater Oberhausen (Germania), Le Rose Des Ventes (Francia), Maillon, Théâtre De Strasburg/Scène Européenne (Francia), Trafó House Of Contemporany Arts (Ungheria), Hau Hebbel Am Ufer (Germania), Hellerau-European Center For The Arts (Germania), Wiesbaden Biennale (Germania)
con il sostegno di KUBIK Coworking, Kryolan City, Open Casting, PP Bussiness Centre-Budapest, Vision Team
lingua ungherese, con sottotitoli in italiano e in inglese
durata 1h 40’
Napoli, Teatro Bellini, 24 febbraio 2022
in scena dal 24 al 27 febbraio 2022

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