“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 05 January 2022 00:00

Sempre sia lodato

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se un giorno, all’improvviso,
un’anima ordinaria – per ragioni
imperscrutabili – si inceppa,
il canto di lode verso
il mondo più non sale.

Un malessere molle
e penetrante la invade −
corpo e sensi, una nausea indefinibile l’assale.
    

 

Nonostante la perdurante pandemia, continua a essere un grande anno per Servillo. Un anno in cui inanella, uno dopo l’altro, grandi momenti performativi.

Lo fa al cinema, più che mai, con tre notevolissime performance, ultime solo in senso temporale. Lo fa con la sua voce, portandola in dote, nei documentari, per far rivivere grandi del passato, dimenticati o ridotti al silenzio, strappandoceli all’oblio. E lo fa anche a teatro (il suo primo, grande, amore artistico, cui lo hanno strappato Martone prima e Sorrentino poi). Con uno spettacolo piccolo, sensibile, quasi intimo. Come a volersi ritagliare il suo tempo e il suo spazio col suo pubblico (felice di ritrovarlo, dopo due anni di distanziamento sociale). Quello che gli si stringe intorno, in un momento, suo e nostro. Per dirci come stiamo. Stiamo ancora qui. Su questo mondo. Un mondo di cui non sappiamo più bene cosa fare: eredità scomoda di cui non abbiamo saputo essere all’altezza (tutti noi, nessuno escluso). Un mondo che ci ha un po' tradito. Lo davamo sempre per scontato. Davamo per scontato che sarebbe stato sempre lì, per noi, disponibile e immutabile. Col passare del tempo. Invece... l’amara scoperta. Come tacchini induttivisti russelliani scopriamo che nulla è per sempre. Nemmeno lui. Nemmeno il nostro tempo. E allora nulla di più attuale di questo tema, ma nulla di più inattuale del suo medium: la poesia (dietro questo monologo, in atto unico, infatti, v’è il poemetto del 2015, Premio Camaiore, di Franco Marcoaldi, che con Servillo ha già lavorato in Sconcerto, già vincitore, fra gli altri, del Viareggio, e co-sceneggiatore de Il bambino nascosto, di Roberto Andò e con Silvio Orlando).
Messaggio interstiziale d’amore fra i più sublimi, la poesia torna, dirompente, nell’interpretazione di Servillo che, ormai divenuto un artigiano del suo strumento (la voce e la lingua) la modula, la decanta, la sparge su di noi, da dietro il suo podio fintamente marmoreo dell’ONU, come un fungo che, murmure e solingo, effondi le sue spore su di noi, sperando. Sperando che quelle spore, come i semi di Silone e delle parabole, che altro non sono che parole piene di struggimento evocativo, trovino la loro strada, s’innestino, ci contaminino, e mettano radici in noi. In un’omelia che si fa messa laica, il Servillo scopritore di testi, questo amante cortese delle parole gentili, anzi, vere, ha scandagliato pagine ed è riemerso dalla sua ricerca con una laude degli anni Venti. Viviamo veramente tempi interessanti. Cediamo al suo incantamento, e la sua voce ci conduce fra boschi cedui e sugheraie, laddove l’uomo proviene. È una messa all’incanto, o meglio, all’incantamento di noi stessi. Una guida per poter ritrovare la capacità di meravigliarsi ancora, di reinnamorarsi di questo mondo che ci appartiene tanto quando il nostro corpo, questo continuum che ci accomuna, nel quale siamo tutti estensione e propaggine l’uno dell’altro.
Nel caos di movimenti che invocano l’autoestinzione dell'umanità, inni al neoprimitivisimo, apocalittiche letture antropocentriche, Servillo indossa gli scomodi e dimessi panni di un umile poeta anziano che, con la sua voce, da ultimo, da profeta antico e profano, da amico dell’umanità quale un poeta dovrebbe sempre essere, decanta con la sua laude il mondo che ci ospita, quello da cui veniamo, che ci accoglie, e al quale torneremo. Un inno al riconoscimento e alla riconoscenza di colui al quale, nel suo mutismo, tutto dobbiamo. La bellezza, nella natura, si annida in ogni angolo. Bisogna solo perdersi per potercisi ritrovare. Tornare alla natura, tornare alla meraviglia. Compiere quel giro lungo, che è quello dell’età adulta, per poi tornare a guardare con gli occhi ancora capaci di nutrire meraviglia, che sono tipici di un bambino, quando ci investe la consapevolezza che non ci è dato dare per scontato nulla più. È il modo che abbiamo, riconnetterci con la natura, di dare a ogni istante del nostro tempo il giusto peso. La giusta misura. Che è proprio quella che abbiamo perso e che questo mondo ce lo sta facendo perdere. Lodare un mondo muto e sordo. Mettere il paesaggio che fa da sfondo a ogni momento della nostra vita al centro della drammatizzazione. Narrare chi non può autonarrarsi. Lodandolo come merita. Una natura che non è malevole o vindice, catastrofica, come la dipingono ultimamente, e che non risponde alle ferite che le infliggiamo con recrudescenti contromisure (quelle di oggi, i cambiamenti climatici, la pandemia, altro non sono che i contraccolpi delle nostre azioni predatorie ed estrattive, apparentemente a danno della natura, in realtà, a danno nostro) ma, come Oceano, come ente supremo dall’incontenibile cuore, gigante dormiente dalla china muschiata sotto i nostri piedi, semplicemente sta. Il mondo è. Dimentichiamo sempre che quelli che passano siamo e saremo sempre noi. Teniamolo da conto, questo mondo, è quel che vuol dirci quest’anonimo del placidume, che somiglia a quando, ogni tanto, a sedersi fra gli scranni degli illustrissimi e dei potentissimi, non sono sederi fasciati da abiti di seta su misura, ma ben più modesti, magari con ancora indosso i loro abiti tradizionali e tribali. I sederi di chi, spesso, la terra, sulla quale è ospite da sempre, il cui diritto di passaggio è stato tramandato dall’avo, insieme alla cura della stessa per poterla ripassare a chi verrà dopo, la calpesta con le palme nude, la ferisce con strumenti gentili, e il meno possibile, e vi ci sta a contatto, sicuramente più di noi, secondandone i tempi e i ritmi. Il poeta occidentale che loda il mondo, il santo francescano laico di oggi, ha molto in comune col silente nativo che resiste alla colonizzazione culturale nordmondista, con l’inascoltato, col desueto della terra, con chi ci avvisa che stiamo cambiando il mondo, in una maniera che non conosce precedenti, con conseguenze imprevedibili e difficilmente reversibili. Possiamo lodarlo o disprezzarlo, ma sappiamo alcune cose. Sappiamo che il mondo non è infinito e sta diventando ogni giorno più piccolo. Che per quanto vogliamo essere indifferenti alle altrui sorti, impermeabilizzati, impenetrabili, individualisti, quel che accade oltre il nostro sguardo si ripercuote su di noi. Sappiamo che il tempo del pagamento delle nostre azioni verrà. Sta già accadendo. Il punto di non ritorno probabilmente è già superato ma questo non deve farci credere che non ci resta altro da fare per chi verrà dopo di noi. Lodarlo, questo mondo, è l’imperativo categorico del nostro tempo. L’unica cosa saggia che ci resta da fare: chiudere gli occhi e lasciare che Servillo ci conduca, con la sua voce vibrante, nei meandri di un mondo da riscoprire col suo canto. Lodiamolo, il mondo, non lordiamolo, ne va del destino della nostra e delle altre specie (che poi sono nemmeno interconnesse ma un tutt’uno). Atei, credenti, o agnostici, facciamoci curanderi, che curando il mondo cureremo l’altro e noi stessi.



Lo stesso prato, ieri lucente,
oggi risulta spento – lo stesso
cielo, ieri struggente,
adesso ondeggia vuoto.
Il mondo intorno si sfarina
quasi fosse una fradicia
parete di cartone,
la nebbia avvolge il campo –
lattiginose tenebre
si affollano in una generica afflizione”.






Il mondo sia lodato
di Franco Marcoaldi
regia e interpretazione
Toni Servillo
scene e disegni Lino Fiorito
video Alessandro Papa
suono Daghi Rondanini
costumi Federica Del Gaudio
luci Angelo Grieco
foto di scena Ivan Nocera
si ringrazia Ortensia De Francesco
produzione
Teatro di Napoli – Teatro Nazionale
lingua italiano
durata 1h 15’
Napoli, Teatro Mercadante, 3 novembre 2021
in scena dal 30 novembre 2021 al 5 dicembre 2021

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