“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 12 December 2021 00:00

L’artico cuore di Lene

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La giovane Lene viveva nella fattoria più settentrionale del Reame di Danimarca, quelle Terre d’oltre mare ghiacciate lontano dal Palazzo della Regina, dove la neve cade abbondante e il vento ulula gelido. Lene faceva da guardiana alle oche. Era molto bella ma egoista, meschina, superba e arrivista. Disprezzava profondamente la sua umile condizione di contadina e maltrattava i pennuti indifesi capitati sotto la sua sorveglianza.

Una mattina venne convocata per vendere un’oca al borgomastro, che abitava nella grande casa destinata ai governatori del villaggio. Era stata accolta all’uscio di servizio da Arnak, la sguattera inuit. Giunte nella cucina, l’animale, divincolatosi dalla presa, volò verso le stanze dei signori per planare sull’orologio a pendolo nel tinello. Una fragorosa agitazione si levò nella sala che mai aveva ospitato tale tumulto. Lene, Arnak e una masnada di domestici si affannavano in una caccia al pennuto, ruzzolando sui tappeti e sbattendo contro i mobili. L’oca fuggiva ai tentativi di cattura urtando le cornici e i drappi, riparando sulla poltrona di velluto, rovesciando il candelabro. Quella bolgia allarmò Jakob, il giovane figlio del borgomastro, accorso per scoprire cosa mai stesse accadendo. Quando finalmente Lene mise fine alla fuga acchiappando l’oca, il tinello pareva il campo di battaglia di una cruenta saga vichinga.
Arnak la sguattera, mortificata, supplicava il perdono del giovane Jakob affrettandosi solerte a rassettare il disordine causato. Ma Jakob non era affatto adirato, semmai molto divertito. Solo allora, quando fu ripristinato l’ordine, Lene aveva potuto scrutare la calorosa eleganza nel tinello dei signori, gli arredi, il bagliore del fuoco nel camino piastrellato e le decorazioni sulla tappezzeria alle pareti. Ricevuto il compenso, Lene percorse il sentiero di ritorno verso la sua fattoria pervasa da rancore, invidiosa dell’agiatezza altrui. Tornò altre volte nella casa del borgomastro per vendere le oche, ed ebbe l’occasione di scambiare qualche frugale saluto con Jakob, che si mostrava gentile con tutti, perfino con la servitù.
Lene reputava Jakob uno stolto, incapace di godere delle ricchezze e di imporsi autoritario ai sottoposti, come lei avrebbe fatto. Ma la debolezza di Jakob pensava potesse avvantaggiarla. Pur non amandolo sognava di sposarlo, abbandonare la stamberga di famiglia ed essere servita dai domestici. Per conquistare le attenzioni e le simpatie del ragazzo, in occasione di quelle brevi visite, indossava un fermaglio di costola d’orso, scherniva l’aspetto impolverato della sguattera Arnak, o la corpulenza di Grethe la cuoca.
Ma niente di nuovo accadeva, Jakob abbozzava un sorriso e la congedava cordiale. L’impazienza irrigidiva Lene, nella fattoria i genitori e gli animali subivano le sue intemperanze. Fu durante la stagione del disgelo che avvenne un cambiamento.
I ghiacci si sciolsero, le praterie della tundra sbocciarono del roseo epilobio e di purpuree betulle nane. Con loro il timido Jakob si fece più loquace e luminoso. Lo si sentiva ridere e lo si ascoltava canticchiare dalla ordinata biblioteca dove trascorreva lunghe ore di studio. Certo, a Lene non sfuggì questo mutamento. Jakob si tratteneva più a lungo per parlarle, la interrogava sulle abitudini delle sue oche, oppure le indicava le vallate dove fioriva il cotone artico di cui erano ghiotte. Lei seguitava a considerarlo uno sciocco ma lo assecondava melliflua.
Poi, un giorno, in una vampata di imbarazzo che gli tingeva il viso di rosso, Jakob chiese a Lene − “Posso vedere la tua mano?” − La ragazza porse sicura la mano distendendo le dita.
Lui, al culmine del disagio pronunciò rapido − “Torna domani ma non portare le oche!” − E i primi fiocchi di neve annunciarono il termine di quella breve estate nordica. Il mattino seguente, alla dimora del borgomastro, Lene venne frettolosamente condotta da uno stralunato messo balbuziente nello studio dove il padrone di casa siglava le più importanti decisioni. L’orefice più stimato di tutta la Scandinavia, giunto appositamente dalle isole Fær Øer su un’imponente nave di legno con gli eleganti cofanetti, la attendeva per una meticolosa misurazione del suo anulare. L’anello d’oro impreziosito da una gemma glaciale emanava una luce ipnotica. Lene contemplava la sua mano in un sorriso altero diventato smorfia, come se i riflessi del gioiello ne rapissero i pensieri e li proiettassero della loro autenticità. Sarebbe diventata la moglie di Jakob che, per quanto insulso, aveva ceduto alla sua bellezza. − “Lele Lele Len Lene!... Rere res resss restititi re restititutuite l’ane l’anenee l’anenenello!” − La voce del messo interruppe il trasognare. Lene esitò lanciando un’occhiata torva a quell’uomo scilinguato che, pensava, avrebbe fatto licenziare appena dopo le nozze, e consegnò la fede. Molte raccomandazioni furono fatte alla ragazza perché mantenesse segreto l’incontro con l’orefice delle Fær Øer. Nessuno doveva sospettare i progetti di un matrimonio prima del comunicato ufficiale. Lene obbedì, ma da quel momento la sua sgarbataggine verso gli umili e i deboli si fece indomita, talvolta spietata, in attesa di essere accolta nella famiglia del borgomastro. Un giorno, durante una fitta nevicata, mentre imprecava contro le oche nel recinto, fu sorpresa dalla visita del messo balbuziente.
− “Sa sa sa saaalve Le Le Le Lene, ssssss siete att att atte att attesa neee llllla c c casa del Bo Bo Bo Bo Boorgo go gogomastro. Il ss sss si ssignorino Ja Ja Jakob ha ss ss sta ssta stabilito la data de de delle no no no nozze e vi cc cc cc co convoca p p p per l’annu nu nu aanuncio che...” − Scossa da un impeto di forze, la giovane guardiana interruppe con una risata trionfale il messaggero impedendogli di proseguire. Finalmente la sua attesa era terminata e i suoi desideri esauditi! Gettò sprezzante il mastello di becchime scostando per l’ultima volta gli odiati pennuti e abbandonò l’uomo ammutolito.
Entrò nella fattoria per sistemarsi i capelli e ripararsi con la mantella migliore. Sua madre preoccupata la interrogava su cosa stesse accadendo, ma Lene, superba, la ignorava. La donna la seguì agitata per un tratto lungo il sentiero domandando perché avesse lasciato il recinto delle oche e gettato tutto il mangime. Finalmente Lene le concesse una risposta − “Il figlio del borgomastro mi chiede in sposa, non c’è più tempo per le oche”.
Sua madre incredula di quella rivelazione si arrestò sulla neve − “Il figlio del borgomastro vuole te, Lene?” − Poi con semplice ovvietà le fece osservare − “Ma tuo padre non ne sa niente, non puoi sposarti senza il nostro consenso. Dobbiamo conoscere questo giovane”.
Lene, sorridendole compassionevole − “Mamma, guarda il tuo grembiule rozzo. Desidererebbe Jakob sposarmi se mi presentassi nel suo salotto raccomandata da due bifolchi? Quale tappeto elegante vorrebbe essere imbrattato dai vostri calzari lordi di letame?”.
E voltandosi proseguì verso il villaggio. Sua madre si contorceva le mani, un’oca salita sulla staccionata garrì alla volta di Lene che scomparve come fagocitata dal turbinio della neve.
Durante il percorso la fanciulla incontrò alcuni compaesani, Olaf il pescatore di merluzzi, Hanna la sarta e Grímur il pastore, che come sempre le augurarono una buona giornata. Ma lei con un singulto altezzoso, distogliendo lo sguardo, negò loro il saluto considerandoli indegni. Davanti alla casa del borgomastro sostava una slitta lucente trainata da sei renne eleganti, bardate alle corna da soffici fiocchi di seta, impreziosite da campanelli dorati al collo e riscaldate da coperte ricamate.
Lene si immaginava scivolare su quella slitta signorile nel giorno delle sue nozze, bellissima, ingioiellata, applaudita e invidiata da tutti. Il fragore di un applauso provenne dalla magione, Lene bussò incuriosita.
Amara fu la sorpresa quando il portone della casa si schiuse svelando la realtà. Nell’elegante tinello, vicino al vivace fuoco del camino piastrellato, davanti a una platea di modesti compaesani, Jakob teneva per mano Arnak, la polverosa sguattera inuit. C’erano il falegname, la maestra, lo spazzaneve, la locandiera, tutti gli artigiani e le lavoratrici del villaggio. Lene, riconobbe fra i presenti anche il messaggero che l’aveva convocata poco prima. Disorientata, diede uno sguardo ai rozzi stivaletti che calzava Arnak sul pregiato tappeto nella sala. Una domestica porse alla guardiana d’oche una tazza di tè caldo. Si udì nuovamente bussare al portone ed entrarono anche Olaf il pescatore di merluzzi, Hanna la sarta e Grímur il pastore. Jakob prese quindi a parlare − “Ora che siete giunti posso ringraziarvi per aver accettato il nostro invito. Siete da sempre dei fidati collaboratori della mia famiglia, dei buoni amici e degli onesti lavoratori in questa comunità. Per questo siamo lieti di annunciarvi che io e Arnak presto ci sposeremo e vorremmo invitare tutti voi al convivio nuziale... Il giovane sostenne gentile la mano di Arnak, screpolata e segnata dalla fatica, e infilò l’anello lucente giunto dalle lontane isole Fær Øer. Un baccano di cocci infranti sul pavimento echeggiò nella sala. Lene aveva lasciato cadere la tazza da tè e livida in volto tremava stringendo i pugni − “No! Come puoi sposare lei? Arnak la sguattera! Ma guardala, i suoi capelli sono crespi, è coperta di polvere, i suoi stivali lordano il tuo tappeto ed è così insulsa!”.
Grethe, la cuoca, sussurrò incredula − “Lene! Come ti viene una simile crudeltà?”.
Ma Lene, sprezzante − “Taci, chiattona! Vi siete presi gioco di me. Mi avete solo usata!” − E indicando il messaggero − “Quello stupido uomo mi ha ingannata. Io vi maledico tutti!” − Poi volgendosi a Jakob e Arnak − “Che voi siate maledetti, siano dannate le vostre nozze!” − E posseduta dall’ira fuggì via abbandonando gli sposi e i loro ospiti turbati dalle imprecazioni. All’esterno della villa la giovane furia strappò i fiocchi di seta dalle corna delle renne. Avviandosi verso la fattoria calciava i cumuli di neve sul ciglio delle strade, urlava, batteva i pugni contro le staccionate e sferrava sassate contro le finestre delle case. Quando sua madre la vide comparire in quello stato pietoso, la interrogò burlandosene − “Per la Corona di Re Christian! Tu qui Lene. Dov’è il tuo sposo? Non vedo i paggi e le livree...” − E voltandole le spalle entrò dentro casa.
Un’oca, fuggita dalla recinzione garriva petulante contro la guardiana. A Lene parve che persino quel pennuto la schernisse. Afferrato il bastone con cui sovente batteva gli animali si avventò contro l’oca torcendole il collo bianco e iniziò a percuoterla di mazzate. Candide piume libravano verso il cielo plumbeo mentre la neve colorava di rosso. Lo stormo dentro lo steccato gemeva disperato in un coro impotente. Quando lo scempio fu compiuto e Lene si placò carponi, vide levarsi un turbinio di polvere gelata e il pennuto esangue tornare miracolosamente alla vita, per trasformarsi in una bellissima donna dai capelli fluttuanti e le vesti ghiaccio. Quella era in realtà una potente fata del nord. La guardiana impaurita non trovava le energie per alzarsi o invocare il soccorso di sua madre.
− “Oh Lene, cos’hai fatto?” − chiese dolente la fata. − “Ti osservo da tempo sotto mentite spoglie. Il tuo cuore è duro e freddo come ghiaccio. Sei meschina con gli umani e crudele con le bestie. Hai rinnegato la tua famiglia, maledetto la promessa d’amore di due giovani e percosso a morte un’oca per capriccio...”.
E Lene, tremula − “Non, non è colpa mia! Mi hanno ingannata per misurare l’anello e quello stupido balbuziente...”.
− “Sei avvelenata dal tuo stesso veleno. Non hai intuito che Jakob sa guardare con cuore gentile le persone umili e scorge la forza delle loro debolezze. Ma l’egoismo ha reso sorde le tue orecchie e ciechi i tuoi occhi. Io maledico te giovane Lene, che tu sia condannata a mutare in vento ghiacciato, a trascinare turbini di neve, a impaurire le genti con i tuoi ululati. Non ci sarà fiore che sopravviverà al passaggio né creatura che comprenderà il tuo lamento...”.
Alla pronuncia dell’anatema il suolo innevato si levò in esplosioni sibilanti. Lo stormo d’oche si lanciò vorticosamente contro Lene pronunciando concitato un coro lamentoso che la guardiana ora comprendeva − “Cos’hai fatto Lene? Cos’hai fatto? Che tu sia maledetta... per l’eternità... sarai ghiaccio. Cos’hai fatto?”.
Lene assordata premeva le mani contro le orecchie. Sentì trafiggersi da migliaia di spilli, il dolore lasciare posto al freddo, le ossa irrigidirsi, sgretolarsi e polverizzarsi come gesso confuso nella neve e levarsi da terra. Quando aprì gli occhi capì di essere sospesa nel cielo grigio. Vedeva dall’alto il tetto della fattoria, il recinto delle oche, le mandrie di suo padre. 
Fece per guardarsi le mani, ma il corpo era una impercettibile, candida nube di gelo. La fata del nord le ordinò − “Ora vai Lene, tu non hai più una casa, nessuno vorrà ospitare il gelo pungente che scaturisci”.
E le oche nuovamente in un coro spezzato − “Vai Lene, vai via, non hai più una casa, nessuno ti vorrà...”.
La fata fece un cenno alle oche e si dileguò con loro a cavallo delle raffiche boreali verso il settentrione artico. Dopo quel prodigio tumultuoso ci fu un istante di silenzio assoluto, come se la campagna più a nord nel Reame di Danimarca dormisse tutta. Lene lanciò un grido d’aiuto, ma la sua voce non era che un sinistro sibilare che sputava nugoli di ghiaccio. Tentò di raggiungere la porta della sua casa implorando l’aiuto di sua madre, ma la donna dall’interno vide solo un’improvvisa bufera di neve avventarsi contro l’uscio e spaventata lo assicurò con un passante di ferro. Lene tentava di chiamarla alla finestra ma la madre impaurita, perché i vetri tremavano, volse le spalle sedendo al camino. La guardiana d’oche, irrimediabilmente trasformata comprese di non poter essere riconosciuta e si levò errabonda senza meta. Qualunque forma umana cercava riparo sentendola giungere. Il villaggio si faceva deserto, gli animali riparavano verso le loro tane, i bambini si rannicchiavano sotto le coperte del letto, gli adulti cercavano compagnia e si abbracciavano nella speranza che i gemiti di neve placassero.
Lene assisteva impotente al concerto dell’umanità oltre le vetrate delle abitazioni, indesiderata. Quando sentiva la stanchezza vincerla, si riposava dentro ai fiordi profondi, ma il vento la trovava, la spingeva ancora e ricominciava così a viaggiare. Giunse il Natale nel piccolo villaggio. Lene sollevava lungo le contrade una disperata bufera. Dalle case riverberava il bagliore delle candele, provenivano i canti della vigilia attorno all’albero e vibrava l’affetto delle donne e degli uomini, di coloro che sanno guardare con cuore gentile le persone e scorgere la forza delle loro debolezze...

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