Un interno qualunque. Una scrivania con dei libri (poco plausibile, ma non importa) e un colloquio al buio: a sinistra la voce forse un po’ troppo stridula di un ragazzo arcimoderno, a destra una voce più grave e paludata, che si esprime in sintagmi come “non so dove io mi sia”. Poi finalmente la luce, il miracolo della luce, del filamento di brace incandescente che usiamo, come tante altre cose, senza sapere esattamente come funziona. Andrea vede, o forse sogna, o magari delira (è così importante stabilire la differenza?), mostra il presente a Leopardi, il giovane Leopardi, che proprio quella sera (del 1819) ha scritto L’infinito e lo spiega, semplicemente declamando i versi con l’aiuto dei gesti, al giovane Andrea, che a parole sue ne fa una moderna parafrasi, poco letteraria, ma forse più comunicativa.
Andrea e Giacomo a confronto. Due coetanei divisi da due secoli densi di eventi, idee, trasformazioni, tali che il mondo sia cambiato di una maniera siffatta che anche Leopardi, a guardarlo più da vicino questo atomo di universo, si trasformi anch’egli profondamente e stravolga la sua concezione della natura matrigna, perché l’uomo è mille volte più malvagio della natura e allora che si annichilisca l’umanità, che corra furiosamente verso la sua estinzione, in un folle galoppo, nella eccitazione dei particolarismi e della volontà di potenza di ciascuno, fino all’orgasmo finale che coincide con l’estinzione.
Il testo scorre fluido e divertente, molto divertente, più di quanto ci si aspetterebbe dal poeta di Recanati e dal suo Infinito, crivellato di chiose, trasformato da secoli di critica in testo oscuro e incomprensibile, come se si fosse incapaci di concepire ancora la poesia come suono, trasformazione dell’aria attraverso l’emissione della voce.
Il fantasma di Leopardi ben tangibile, copulante e defecante (e anche un po' defecabraghe) riesce a suscitare illusioni, a dare corpo (seppur di bambolotto) alle illusioni, a gonfiare di latte mammelle in vista di un progetto, uno qualunque, che dia senso all’esistenza. E poi scompare, al momento giusto, insieme al carrozzino della bambola, eliminato con un illusorio e liberatorio colpo di pistola dal suo stesso evocatore, Andrea, cui non basta più il suo sogno solitario, perché è approdato ad una nuova stagione di sogni, quelli da condividere. Andrea/Giacomo. Due mondi apparentemente irriducibili che invece finiscono per incontrarsi e trasfondere per osmosi qualcosa dell’uno all’altro. Giacomo esce di scena un po’ più cinico e scanzonato, Andrea sembra acquisire uno spessore, da sagoma a persona.
Crollo dell’illusione e approdo alla realtà? Forse no, piuttosto trasformazione e, in ultima analisi, vittoria, ancora una volta, dell’illusione, evocatrice di mondi futuri.
L’infinito
di: Tiziano Scarpa
con: Andrea Tonin (Andrea), Arturo Cirillo (Leopardi), Margherita Mannino (Cristina)
regia: Arturo Cirillo
scene: Dario Gessati
costumi: Gianluca Falaschi
musiche: Francesco De Melis & “Intrinsic”
ingegneri del suono: Vasco Maria Livio e Stefano Artuso
luci: Pasquale Mari
produzione: Teatro Stabile del Veneto
presentato da: Fondazione Salerno Contemporanea
lingua: Italiano
durata: 1h 20’
Napoli, Sala Assoli, 5 dicembre 2012
in scena dal 5 al 9 dicembre 2012