“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 30 March 2021 00:00

Mitografie del silenzio

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L’apparenza dinamica si esibisce nel modo di un cerchio cavo, i cui margini riproducono la condizione periodica del torpore e della veglia: in esso risiede lo stadio nucleico dell’esperienza, il silenzio. Quiete asintetica e paradigma fondativo del locus psichico − regione occlusa e perturbata – contro i non-luoghi1 dello spazio e del tempo. L’individuo si inganna al vuoto e alla parvenza: lo scheletro perimetrale che lo contiene, con la sequenza  interminata delle sue ridicole gesta, piuttosto che l’azione compie l’inganno.

Il confine materiale – distorto come l’analogia – non è che il suo inverso paradosso, ovvero l’irrigidimento meccanico di un vuoto circolare inadeguato al valicamento del suo proprio limite, giacché l’inganno dell’io acutizzato oltre sé non produce col disastro che la sconfitta. Il movimento perimetrale che lo recinge esorta l’individuo al non-luogo ove la mobilità è inerzia e la parola mutismo. Inesistendo, il luogo smarrito rovescia ciascun esito logico sublimando la menzogna. L’altrove è continuativamente un vuoto assoluto cui l’uomo attribuisce un ingannevole soddisfacimento procurato attraverso grottesche pretese esperienziali. Il tragitto alla periferia è transito al non-luogo, ovvero alla fossilizzazione liturgica del comportamento e all’acquiescenza dell’arbitrio.
Inversamente, il tragitto all’io, malagevole e tormentoso, si pone come ricerca dell’io: beninteso, il nucleo individuale non assurge al dissolvimento della tensione ma anzi produce con l’urto la dialettica. L’individuo, sospinto allo stadio primigenio, si conduce alla conoscenza, e ravvisando la propria fallibilità riflette la consapevolezza di sé come sforzo appercettivo piuttosto che come utopica e fittizia acquisizione. Non altrimenti potremmo meditare sull’io che come locus magnetico dell’esistenza simbolica, limite cui si giunge e dal quale si diparte: status causale che trascende esiti o deduzioni aggreganti, il nucleo come un convegno pulsionale mutabile di derivazione empedoclea e codificato geometricamente al fine di esporre le suggestioni alla tessitura allegorica della psiche.2
L’io comprende l’altrove in un vortice permanente di circostanze emotive e condizioni sociali: il locus del conflitto è la variazione periodica del moto e della quiete. Il nucleo detiene il contrassegno del singolo: l’identità come natura fattuale, la correlazione come congiuntura ammissibile tra opposte attitudini e recando il senso dell’appartenenza, la storicità come aderenza alle proprie radici socioculturali.
Lo stadio nucleico dell’esperienza, locus silente ove intimamente ed oltre si esprime l’io, è il paesaggio traslato della poesia che diviene una antropologia dell’immaginario adusa a reperire quel locus metonimico come locus poetante.



Francesco Petrarca o della metafora cosmica
Il locus psichico in Francesco Petrarca assume il contrassegno figurale del locus amoenus come dimora del sacrum e dunque alieno alla perturbazione correlazionale degli enti. Il locus si converte all’immagine piuttosto che al corpo, eludendo qualunque sollecitudine per il reale: alla fantasticheria del poeta consegue il senso non della solitudine – come taluni hanno registrato – ma della malinconia come categoria nucleica e mentale. Solitario è sì lo spazio che recinge il Petrarca – e mi riferisco al dorato soggiorno del poeta in Valchiusa – ma  non altrettanto è il suo portamento intimo incline allo spleen piuttosto che all’isolamento. Petrarca tace giacché il silenzio è l’esito del locus amoenus come tragoedia del poeta e come incanto dell’uomo che per mezzo dell’artificio colto trasfigura la natura. In alcuni passi del De vita solitaria3 Petrarca appella Valchiusa come regione ideale per la fuga dalla “confusione infernale” e per “l’angelica solitudine”. Cause familiari sembrano attendere a questo ritiro, ma sono le ragioni di una inerte ritrattistica. Il poeta evade “all’infelice abitatore delle città” occorrendo dell’otium vincolante per un uomo di lettere e per la “missione dell’intellettuale e dell’umanista”, purché il compimento degli studi e della scrittura non venga leso dall’anxietas o dal tedium. Pertanto il locus amoenus decantando l’altrove lo comprende e ne è contenuto, altresì includendo il nucleo dell’io diviso e frammentato. Il silenzio, così talmente compensato dalla scrittura e coi modi di una solitudine cum literis, non produce alcuna angoscia nell’individuo ed anzi trasmuta l’io contenente in io contenuto ovvero l’io “inerte come la massa”4 in io atto ad appropriarsi di una sua propria tipicità individuale. Eleggendo un locus segretus ove si compia il silenzio alieno dal desiderio poiché desiderio esso stesso, il poeta rinviene in sé l’homo angelicus e con esso la vocatio letteraria. Tuttavia l’armonia naturale sovente urta con l’impulso umano: il nucleo e la periferia reperiti nel modo di una maestosa metafora lirica. Il paesaggio diviene simbolo al proprio paesaggio umano e la dimensione estetica del Petrarca muta in dimensione psicologica, e la maniera retorica della esaltazione immaginifica e sensoriale produce il mito. Il silenzio si accampa sulla visione rifranta del paesaggio naturale come segno allusivo.



Dante Alighieri o della metafora temporale
In Dante Alighieri scompare la rappresentazione naturalistico-ambientale e le succede il mito come visione mistica. Il dato concreto diviene metonimico all’universo trascendente per mezzo del locus horridus che lo definisce per il tracciato della Comedia ed in sinonimico approccio al vacuum nemus di Orazio ed al lucus obscurum5 di Lucano. Eppure Dante, come il Petrarca, architetta un suo universo immateriale ove collocare il locus amoenus, che per geniale paradosso qui diviene horridus. Col suo polilinguismo abrasivo ed esasperato, la Comedia figura come il modello primigenio e latente dell’utopia negativa che attraverso Jonathan Swift6 perverrà sino ad Aldous Huxley.7 E mi pare di riuscire a convenire con Pier Paolo Pasolini quando stima una lettura dantesca alle origini de Le 120 giornate di Sodoma8 del Marquis de Sade, e segnatamente nella strutturazione del materiale narrativo in luoghi autonomi sebbene soggiacenti al medesimo progetto letterario.9 L’Inferno, locus consacrato alla penitenza e al castigo, comprende il senso grottesco e trasfigurato della metafora, la sua origine remota e il suo paradosso: la lettera. Dante affida la coscienza del proprio cammino a un poeta solo esteriormente riconciliato come Virgilio, e nondimeno agendo ignaro del canone diabolicum che ha prescelto per la conduzione della propria opera. La discesa agli inferi consente al poeta di intraprendere quel tragitto psichico-esotericoche volge al Paradiso: la struttura triangolare della Comedia ci riconduce alla figura del cerchio che lo contiene, talché l’edificio dantesco è metonimico al nucleo e alla periferia, l’altrove. Il silenzio presupposto ammanta il tragico girone dell’Inferno che per mezzo e coi modi della sapientia si abbacina contemperando col cristiano i luoghi eterodossi ed infieriti del poeta: lo spazio horridus diviene l’attitudine al silenzio ed il luogo psichico contempla olisticamente l’universo necessitato e concentrazionario dell’ego alterum. L’analogismo tra locus amoenus e locus horridus manifesta il percorso comparante tra distinte inclinazioni mentali che tuttavia dimorano entrambe allo spiraglio del qui e dell’altrove. I loca sono verosimili come essenze fenomeniche − e in tale senso risultano concretamente invarianti – derivabili col metodo husserliano della variazione eidetica. Il silenzio è dunque il momento invariante del dominio mutevole come l’origine del linguaggio e la condizione profferta.



Torquato Tasso e Giacomo Leopardi: dalla nevrosi all’estinzione dei loca
In Torquato Tasso l’armonia medioevale, col suo quieto naturalismo, muta ad una alterata religiosità congiunta alla Controriforma cattolica: l’universo “di pietà, di spavento e di dolore”10 restituisce brutalmente l’individuo al senso di una realtà immanente ovvero alla coscienza della finitudine e della morte. Dissestata l’euritmia simbolica tra uomo e natura, persino l’amore altrove angelicale e trascendente si compie coi modi e negli intervalli della nevrosi: le Rime per Lucrezia Bendidio,11 che del Tasso è opera stimata minore, riferiscono nitidamente dell’amore ossessivo e maniacale quale esito della malattia o come malattia, in sconcertante anticipazione del sentimento amoroso odierno manifestato coi modi della destrutturazione psico-linguistica. In una lettera privata a Gerolamo Mercuriale, Tasso scrive: “Sono alcuni anni che io sono infermo, e l’infermità mia non è conosciuta da me: nondimeno io ho certa opinione di essere stato ammaliato… rodimenti d’intestino, con non poco di flusso di sangue; tintinnii negli orecchi e la testa… immaginazione continua di varie cose e tutte spiacevoli”.12 I loca horrida appaiono così come l’esito di una affezione che produce dolore e visioni moleste: il poeta indaga sul proprio turbamento psichico volgendo dal nucleo alla periferia e commettendo al silenzio l’entropia interiore coi suoi trasalimenti nevrotici. Al locus amoenus, nucleico e museificato, si replica col locus horridus, periferico e mobile nel senso di una dinamicità introflessa ove la natura erompe drammaticamente determinando uno scenario tragico che potremmo nominare come “ideale negativo”, così rovesciando la definizione che il Curtius diede del locus amoenus come “paesaggio ideale”. Si assiste pertanto alla metamorfosi tra l’inerzia amoena ed il movimento horridum ancora entro i limiti di una persistenza dei loca.
Se nel Tasso l’utopia volse al negativo, così fallendo poiché impedita a costringersi entro il cerchio del locus psichico, Giacomo Leopardi teorizzando l’immagine di una natura matrigna finì col negare residenza ai loca compiendo una fatale scissione tra l’individuo e l’universo fondante: alla inattuabilità dei bisogni segue il tramonto del locus per il dominio di un limbo nostalgico e dolente. Il poeta opera una frattura estrema: il materialismo leopardiano non è che la negazione paradigmatica del simbolo attraverso di esso. Nella orizzontalità leopardiana oramai si intravede l’ombra del moderno e nella compiuta assimilazione dei classici le fondamenta di una mutata percettibilità poetica nella quale “il soggetto è ostaggio”13 del sé nucleico e marginale − coi suoi loca estinti e destrutturati − e il silenzio diviene sinonimico della catarsi originaria piuttosto che dell’anonimia. Nel reciproco accesso ai loca la condizione silente è l’esito estremo della lettera e tuttavia estinguendone lo spazio esso diviene primitivo ed essenziale.       
Così il silenzio è sempre linguaggio, e talvolta si evolve in discorso: come linguaggio esso è “un modello collettivo”14 nel quale l’aspetto sincronico domina sulla componente diacronicaovvero sulla quota evolutiva. Scrive Saussure: “La linguistica sincronica si occuperà dei rapporti logici e psicologici colleganti termini coesistenti e formanti sistema, così come sono percepite dalla stessa coscienza collettiva”15 e ancora essa è “la scienza degli stati di una lingua”.16 Pertanto il silenzio contempla il decostruzionismo spazialee diviene locus terminale del pensiero, in quanto esso stesso − come ci suggerisce Apollonio di Tiana – è logos. Che sia la linguistica speculativa una scienza atta a narrarci il silenzio – così come la teologia – dovette intenderlo Maurice Merleau-Ponty, il quale scrive: “Dobbiamo essere sensibili a quei fili di silenzio di cui il tessuto della parola è intramato”. Fattispecie altra dall’essere, il silenzio è similmente disgiunto al non-essere e sino ad assumerne la sembianza di estremo opposto, come essere denso piuttosto che eccedente.



Samuel Beckett o della metafora contrattiva

“Silenzio non un alito grigio
                                                                                          dappertutto terra cielo corpo rovine”
 


Samuel Beckett, tracciando una compagine circolare ai modi del proprio lavoro, anatomizza il depauperamento significazionale del linguaggio che giunge al silenzio. Il verbum assurge al limite della trasmissione dialettica tra gli individui piuttosto che ad inderogabile strumento di essa: eppure l’autore è avulso alle esperienze surrealiste di scrittura automatica ed estraneo ai suggestivi turbamenti del misticismo estetico di Georges Bataille. Qui, il linguaggio muta in afasia lessicale come esito di un vizio biologico il quale, torcendo la logica dei verba, commette a sequenze semantiche divergenti il senso dell’espressione interrogativa.      
Il linguaggio, dunque, piuttosto che frantumato o inammissibile, è pregiudicato al codice attraverso gli esiti di una alterata risemantizzazione del sottotesto psichico. Il silenzio che contempla l’io – e contro l’alterum come effettività apparente – diviene parodico ovvero produttivo di una molteplicità di sensi che il linguaggio non giunge a comprendere, ed inoltre, assegnando rilievo al verbum come “scarto” contraddice la parabola metonimica: la lingua come sistema di segni non pertiene al simbolismo retorico, e non alla collocazione sovrastrutturale dell’allegoria storica, piuttosto palesa una affezione clinicamente deviante la quale altera il sensum acquisito alla consuetudine affinché delocalizzarlo ad un codice nominativo e adialettico. Il linguaggio, così destrutturato alle sue origini piuttosto che al proprio svolgimento pragmatico, contempla significazioni grammaticali farneticanti ovvero esperimentando la traducibilità  del silenzio: l’ambiguità.
Beckett disquisisce vanamente rilevando il linguaggio eccedente come grottesco paradigma al dialogo: il caos non presuppone alcuna genesi e l’individuo è un idiota che si coarta ad argomentazioni oniriche alle quali non ammette alcun presupposto razionale. Il procedimento letterario è l’allusione, qui impiegata al parossismo lessicale, e contro qualsivoglia ipotesi di mimesis narratologica: il linguaggio è manchevole alla fabula esistenziale, dacché l’individuo è ente esperibile per mezzo del silenzio come tensione del linguaggio disarticolato al suo compimento primario. Poiché la narrazione mnemonica presuppone un intervallo tra colui che (e)voca e l’evento compiuto, allora l’inadeguatezza al narrare diviene ostacolo ad una rigorosa stenografia della memoria: smarrita l’occorrenza al racconto, l’individuo smarrisce identità poiché il passato si configura come variante documentale e vincolata alla alienazione psico-linguistica.



L’identità negante o del nucleo strutturale dell’ideologia beckettiana
L’identità che si nega appare come il paradigma per una possibile ermeneutica beckettiana. L’io compie esperienza, tuttavia irrelato alla dicibilità del proprio vissuto: la sequenza di soluzioni probabili rende vacua ogni attinenza veritativa e il linguaggio si frantuma convulsamente. Si giunge così alla emersione esclusiva della rappresentazione figurale come portato allegorico del dramma esistenziale.
Il silenzio è dunque egemonico al discorso beckettiano: il verbale soggiace al metaverbale e la parola subisce uno svuotamento di sensum quale martirio sintattico che la decolora. L’azione è nulla e l’inerzia perentoria, l’ambiente è livido e spoglio sino alla rarefazione, il dialogo evanescente e contratto, sicché persino i corpi giacciono in sublimante immutabilità: Beckett vincola al silenzio – e sino al suo limite estremo – la tessitura drammaturgica dell’opera17 e la scena teatrale giunge liturgicamente al senso astratto ed evocativo dell’arcanum. L’immagine domina sul verbum come architesto al silenzio: esso difatti si replica ossessivamente nascendo oltre ed altrove giungendo − identità che si nega a sé − e l’imago depurante che lo genera sorge precedendo i margini del verbum, poiché congettura di rivolta col mondo è una silente contrazione dell’io che si estingue. In tal senso il silenzio cui giunge la scrittura beckettiana potrebbe dirsi ontico in quanto attiene l’esistenza individuale e non l’essere sintetico: significato e significante smarriscono qualunque relazione, e la parola, che si aggrega nebulosamente tra le superfici lesive dell’encefalo, produce finzione.
Il signum non rende il fenomeno all’intendimento, così il silenzio evade persino al fonema significante e si estingue al racconto: esso non è assenza di vocalità ma esito dell’eccedenza linguistica, e il nulla che ne consegue appare come silenzio colmo, alieno al confine perimetrale.
L’imperturbabilità convive col delirio esistenziale senza che si manifesti al panico, così il silenzio è cintato in suggellata persistenza: ma nel suomito, esso risiede incompiuto come una madre gravida e indugiante, al discernimento della necessita. E lì perdura.






1) Cfr. Marc Augé: Non luoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità, Milano, 1993. Secondo l’Autore il non luogo è l’esito proprio della società contemporanea dei consumi di massa. Alla casa come dimora si oppone il transito; al monumento che storicizza e pone un luogo di aggregazione si oppone l’insediamento commerciale periferico; al viaggiatore si oppone il passeggero. Da qui recenti identità (o meglio non-identità) erette sulla contrattualità solitaria, sullo straniamento, sul non piuttosto che sul con. Il lavoro di Marc Augé si fonda comunque su una antropologia che potremmo definire “logico-simbolica”, sebbene sia privo di circostanziati riferimenti alla psicanalisi e alla produzione letteraria.
2) Qui occorre riferirsi ampiamente ai teoremi della psicologia analitica ed al lavoro di Carl Gustav Jung. Segnatamente, il volume La simbolica dello spirito, Torino, 1975 – testo tra i più complessi ed articolati dell’Autore, e dei meno noti – mi pare adempia l’occorrenza per discutere su intricati quesiti. L’opera possiede una impostazione intrinsecamente fenomenologica. I cinque saggi contenuti nel testo sono difatti correlati con la fenomenologia dello spirito e muovono da una generale esposizione dell’archetipo dello “spirito” tracciando un solco che indaga sul dogma della Trinità – come nel quarto saggio – e sino alla filosofia alchemica medioevale o all’analisi di un testo cinese sugli stadi della meditazione. Jung concepisce la libido come una energia psichica omnipervasiva che si adempie non soltanto nella pulsione all’atto riproduttivo ma comprendendo molteplici forme altre di condotta naturale il cui principio è dominato grandemente dagli archetipi che egli definisce come condizioni congenite di intuizione ovvero come strutture dell’immaginario emergenti col simbolo e col mito così come nello stadio onirico e nell’allucinazione. Inoltre Jung connota religiosamente l’inconscio giungendo ad una sua teoria della religione, peraltro manchevole ed eccepibile ma col merito di avere postulato le fondamenta per una definizione del concetto di inconscio collettivo che include gli archetipi come “una poderosa massa ereditaria spirituale che rinasce in ogni struttura cerebrale individuale” che io nomino come “struttura ctonia o realtà primaria abissale”.
3) A cura di Marco Noce e con introduzione di Giorgio Ficara, Milano, 1992.
4) José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Milano, 1988.
5) “Lucus erat longo numquam violatus ab aevo, obscurum cingens conexis aera rami et gelidas alte summotis solibus umbras”. Pharsalia, III, 399-401.
6) I viaggi di Gulliver, Milano, 1987.
7) Il mondo nuovo e Ritorno al mondo nuovo, Milano, 2000.
8) Milano, 1991.
9) Il saggio cui mi riferisco è incluso nel volume postumo Descrizioni di descrizioni, Milano, 1996, ovvero reperibile in miscellanee che abbiano per oggetto il film Salò o le centoventi giornate di sodoma, chiaramente e per schemi eterodossi suggerito dal testo sadiano.
10) La selva di Saron, XIII, 38-40.
11)  A cura di L. De Vendittis, Torino, 1965.
12) I corsivi sono miei.
13) Cit. da Emmanuel Lévinas.
14) Ferdinand De Saussure, Corso di linguistica generale, Introduzione traduzione e commento di Tullio De Mauro, Bari, 1967 e succ. ed.
15) Ferdinand De Saussure, op. cit.
16) Ferdinand De Saussure, op. cit.
17) Succintamente, il percorso dalla dialettica all’afasia si compie attraverso alcune opere ed in manifesta progressione cronologica: il dialogo di Aspettando Godot diviene metalogo tra l’individuo e il suo proprio discorso divulgato al magnetofono ne L’ultimo nastro di Krapp, i deuteragonisti di Play vaniloquiano impediti al vicendevole colloquio, così che Breath, tarda ed estrema sperimentazione, si protrae per un tempo appena inferiore ai sessanta secondi.

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