“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 25 November 2020 00:00

Dal cratere: intervista a Gabriele Ivo Moscaritolo

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In questi giorni cade il quarantesimo anniversario del terremoto in Irpinia e Basilicata, avvenuto il 23 novembre 1980. Per ricordarlo ho intervistato Gabriele Ivo Moscaritolo, ricercatore e autore del libro Memorie dal cratere, uscito di recente per Editpress.



Il libro nasce dai tuoi lavori di tesi: ci racconteresti il percorso più nel dettaglio?

 

Come tanti irpini nati dopo il 1980 sono cresciuto circondato dal terremoto. L’evento si manifestava nei racconti degli adulti ma anche nello spazio vissuto, con i suoi “monumenti” alla ricostruzione come scheletri di edifici e prefabbricati. Il sisma è dunque sempre stato presente, è l’evento che ha cambiato il destino di persone e paesi, che spiega gran parte della vita delle zone interne della Campania e della Basilicata. Durante il percorso universitario (Facoltà di Sociologia e poi Dipartimento di Scienze Sociali, Federico II di Napoli) ho poi iniziato a guardare diversamente a questo tragico avvenimento grazie agli studi che conducevo. In particolare sono stati gli studi sulla memoria e l’incontro con la storia orale ad appassionarmi e così ho deciso di dedicarmi al sisma attraverso questa nuova prospettiva. Ho dedicato prima la mia tesi di laurea all’esperienza del sisma e poi grazie al dottorato di ricerca ho condotto una ricerca più rigorosa e completa che è alla base del mio libro Memorie dal cratere. Devo poi molto alle esperienze di studio fatte in Friuli e in Emilia (le zone colpite dai sismi del 1976 e 2012) e alla ricerca sui terremoti del 2016/17 del Centro Italia condotta insieme al gruppo di ricerca Emidio di Treviri. In tutto questo percorso sono stati fondamentali tanti amici e studiosi con i quali da anni mi confronto e ritrovo.


Noi irpini nati dopo l’Ottanta abbiamo da sempre la sensazione di essere cresciuti in una frattura mai del tutto ricomposta: le testimonianze che hai raccolto sono una conferma di questo?
Lo sono eccome. Anzi, attraverso la raccolta e l’interpretazione delle testimonianze è possibile comprendere meglio questa “frattura”. La generazione cresciuta dopo la tragedia vissuta dai propri genitori/nonni porta dentro di sé una sorta di “vuoto esperienziale” che deriva dal fatto di non aver vissuto direttamente un passato (la vita prima del sisma) e un evento (il terremoto). Questo vuoto viene colmato attraverso uno sforzo di immaginazione e creazione che si àncora a racconti, immagini, video e commemorazioni. È un’attività questa che permette di riallacciare il legame fra due generazioni anche se, come facilmente intuibile, il passato e l’evento resteranno sempre una terra straniera per i più giovani, mai visitabile pienamente. Nel mio libro illustro molti racconti che ci mostrano come si cerca di ricomporre (oppure no) questa frattura ma anche come cambi la percezione dello spazio e del tempo per le seconde generazioni, penso ad esempio alla vita nei prefabbricati vissuta come un contesto normale e spesso divertente dai “figli del terremoto”. Quello che è importante sottolineare è comunque il fatto che tutte le persone nate dopo il 1980 hanno una profonda consapevolezza del terremoto come evento che ha modellato la storia del proprio territorio e profondamente inscritto nella propria identità.


La natura, per quanto possa risultare spietata, si muove con indifferenza. Poi ci sono gli errori umani, quello che è stato definito un secondo terremoto.
Non direi che la natura si muove con indifferenza, direi semplicemente che la natura fa il suo corso e si manifesta in maniera più o meno evidente. Quello che poi fa di queste manifestazioni un “disastro” oppure no è la capacità degli uomini di adattarsi al proprio ambiente naturale e convivere con un possibile rischio. Le catastrofi sono dunque sempre eventi “innaturali”, prodotto dell’interazione fra l’uomo il suo ambiente. Ciò che viene definito il “secondo terremoto” – che riguarda le scelte e i percorsi scaturiti successivamente – è poi un’altra questione. Con questa espressione si sottintende spesso un’ulteriore esperienza negativa che ha aggravato la situazione precedente. In realtà dovremmo considerare un post-disastro come una finestra di opportunità che si offre a individui e comunità in cui è possibile intraprendere percorsi più virtuosi o meno. È chiaro che nel caso del sisma del 1980 l’effetto della ricostruzione non ha raggiunto a pieno gli obiettivi prefissati, soprattutto rispetto allo sviluppo che si intendeva perseguire. Tuttavia dovremmo guardare ai quarant’anni trascorsi non solo come emanazione di quell’evento ma anche come complesso intreccio fra dinamiche preesistenti e cambiamento dei tempi dei decenni successivi. L’area del cratere infatti oggi affronta molte problematiche comuni ad altre aree interne italiane, zone che un terremoto così non l’hanno vissuto.


Quarant'anni dopo quale pensi sia l’eredità di questo evento, la sua eco?
Come ho già accennato l’eredità è davvero imponente. La più visibile è sicuramente la trasformazione del paesaggio che è stato intensamente costruito e oggi si presenta molto diverso dagli anni ’70. Vi sono poi le aree industriali che, sebbene non abbiano raggiunto i risultati sperati, oggi costituiscono una realtà. C’è poi l’eco nella vita di individui, famiglie e generazioni – aspetto spesso oscurato dalla narrazione dell’Irpiniagate – che costituisce un sottofondo silenzioso che credo ancora orienti le azioni delle persone. Questa eco è comunque un aspetto innegabile della nostra esperienza per cui può in qualche modo costituire un’opportunità, una conoscenza che possediamo e possiamo rivolgere al futuro.


Riguardo il metodo di lavoro: quanto è stato importante per te confrontare i dati storici con il ricordo che hanno le persone di quel giorno, obiettività e soggettività?
È un aspetto fondamentale questo e ti ringrazio per averlo messo in luce. Chi si occupa di storia orale non colleziona semplicemente racconti ma applica un rigoroso metodo di raccolta e interpretazione delle fonti orali al quale affianca un continuo confronto con la documentazione ufficiale. Ciò vuol dire che noi facciamo storia anche con le fonti orali e questo ci permette di portare alla luce quel sovrappiù di valore che emerge dalle parole dei testimoni. Il racconto dell’esperienza diretta infatti non svela solo come si sono svolte determinate vicende (anzi su quest’aspetto la memoria può spesso ingannare) ma ci informa su quello che queste hanno voluto dire per chi li ha vissute e chi li racconta. Quindi fra le righe dei racconti comprendiamo ciò che le persone magari volevano fare, che credevano di fare, le motivazioni, le aspettative, i ripensamenti e i giudizi che emergono dalla rielaborazione che la memoria compie alla luce del tempo trascorso. Grazie alle fonti orali quindi è possibile aprire nuovi spazi di comprensione e guardare con occhi diversi alle trasformazioni avvenute, capire ad esempio le intenzioni che hanno animato determinate scelte, gli esiti raggiunti successivamente e i giudizi dati a posteriori.

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