“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 25 October 2020 00:00

Gap culturale

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Oggi è il giorno più bello della vita di mia sorella.
Sono stato io a presentarle Mark, quando era appena arrivato dalla Scozia. Gli scambi Erasmus sono una benedizione sia per chi partecipa sia per chi conosce qualcuno che partecipa. A noi è capitato così, per lo meno. L’avevo conosciuto una sera in pieno centro storico, durante un evento organizzato da un’associazione studentesca che si impegna ogni anno a favorire l’integrazione di chi arriva con la comunità locale degli studenti. Era un aperitandem, cioè un contesto in cui nessuno poteva parlare nella propria lingua con gli altri clienti del locale e beveva un drink dopo l’altro.

Avevo parlato di Van Gogh con un cinese che studiava chimica, poi di Formula 1 con una tedesca iscritta in filologia. A un certo punto mi ero stancato di adattare il mio lessico inglese a persone che non lo parlavano dalla nascita e avevo cercato qualcuno che venisse dall’Inghilterra, dagli Stati Uniti, o magari dall’Australia. Al primo tentativo avevo conosciuto Berta, una trentenne con due lauree in ingegneria che aveva deciso di cambiare radicalmente vita dopo essere rimasta disoccupata due anni e si era data alla musica classica. Al secondo tentativo mi ero presentato a Mark.
Non sembrava esattamente un chiacchierone, a prima vista, però qualcosa nel suo sguardo mi diceva che aveva bisogno di nuovi amici. A stupirmi fin da subito era stata poi la sua capacità di esprimersi in italiano quasi senza accento – non a caso gli avevo domandato se nella sua famiglia qualcuno parlasse la nostra lingua, ma lui mi aveva assicurato di no.
‒ Dove hai imparato a esprimerti così bene, allora?
‒ A scuola ‒ aveva risposto con semplicità ‒ come tutti gli altri.
Gli avevo offerto uno Spritz e lui mi aveva confessato di non averne ancora assaggiato uno.
‒ Non uno dei vostri, voglio dire.
Per un attimo ho cercato di capire se gli sarebbe piaciuto di più un Aperol un Bitter.
‒ Quanto ti piacciono le cose amare, nella vita?
‒ A quanto pare un po’ troppo ‒ aveva mormorato in tono serio, probabilmente senza capire la ragione della mia curiosità. Avevo optato per un Bitter e mi ero seduto davanti al bancone accanto a lui.
‒ Come ti trovi in Italia? ‒ avevo buttato lì, per rompere il ghiaccio.
Tre quarti d’ora dopo sapevo come si chiamava il gatto della sua ex e per quanti anni aveva frequentato un certo Tom e sua cugina Juliet. Un’ora e un quarto dopo avevamo fatto tre giri di alcol abbinati a patatine e arachidi, e le nostre risate iniziavano a farsi rumorose. Era partito per alleggerirsi la vita, mi aveva spiegato, quando in realtà vivere in un Paese completamente diverso dal suo lo stava incasinando parecchio. Aveva smesso di guidare, perché era una sofferenza pensare alla macchina e al codice stradale invertendo la destra con la sinistra, e a lezione di letteratura si orientava meno del previsto, dato che la formazione umanistica inglese non coincideva punto per punto con la nostra.
‒ Quantomeno sarai andato a curiosare un po’ per la regione ‒ aveva azzardato, nel tentativo di tirarlo su di morale.
‒ Non ancora ‒ aveva risposto. ‒ Ho lezione tutti i giorni, compiti per casa, cose da fare.
‒ Cose tipo cosa?
‒ Tipo andare in segreteria, in banca, al supermercato. Ci metto il doppio del tempo a sbrigare un impegno, qui. E la burocrazia non aiuta.
Non potevo dargli torto. Ricordavo il mio viaggio studio in Francia dell’anno prima, quando le faccende quotidiane mi erano apparse all’improvviso più piacevoli, più rapide. Oltre confine il sistema funzionava meglio. L’avevo detto a Mark e lui aveva commentato sardonico:
‒ L’Italia è l’Italia.
‒ È una critica? Un complimento?
‒ Tutt’e due, naturalmente.
‒ Allora va bene ‒ avevo decretato, prendendo dal piattino un’ultima nocciolina.
Due settimane dopo il nostro primo incontro, Mark mi aveva mandato un messaggio. Gli avevo lasciato il mio numero perché temevo che si sarebbe annoiato, se non avesse stretto amicizia con qualcuno. Avevo intuito che i suoi compagni di corso non erano stati accoglienti con lui e che le attività stesse dedicate a chi veniva dall’estero non erano proprio nelle sue corde. I fatti mi avevano dato ragione quando avevo ricevuto da parte sua un laconico: Ciao, sei libero domani?
In verità non ero libero, e tuttavia mi sarebbe dispiaciuto rifiutare la sua prima richiesta di contatto umano. Non volevo scoraggiarlo, né fargli credere che non mi andasse a genio la sua compagnia. Avevo pensato di prendere due piccioni con una fava rispondendogli: Io non per molto, ma se vuoi ti presento mia sorella. E così era stato.
Loredana all’epoca era al terzo anno di triennale, sarebbe partita per la Spagna a settembre e, per ovvi motivi, era alla costante ricerca di amici poliglotti con cui fare pratica. La facoltà di lingue offriva alcune possibilità interessanti, che dopo due anni avevano però finito per annoiare perfino lei. Mark sarebbe stato il diversivo perfetto per lei e Loredana quello perfetto per lui, sebbene forse in un’ottica diversa.
Eravamo andati a prendere un gelato al viale e avevo aspettato che i due si sentissero abbastanza a proprio agio, dopodiché mi ero congedato. Dovevo lavorare al progetto di tesi e avevo un paio di scadenze alle porte, quindi non ero nella posizione giusta per temporeggiare. Li avevo salutati con un sorriso e mi era parso che nei loro occhi ci fosse già una certa sintonia reciproca.
Anzi, oggi posso affermarlo con sicurezza. Mark si era innamorato di lei al primo cono bigusto, Loredana aveva tardato qualche settimana e poi aveva bussato in camera mia per chiedermi a voce bassa:
‒ Gio’?
‒ Eh.
‒ Secondo te Mark è single?
Tre anni dopo, eccoli qua.
Mark in effetti era single da poco, Loredana da anni. Era stato semplice per loro trovare un terreno comune in cui piantare un nuovo fiore. Si capivano al volo, come se prima di avere una conversazione si fossero esercitati per giorni sul copione. E quel che c’era di più piacevole è che insieme a loro non mi sentivo un intruso. Mark ci aveva tenuto fin dal primo momento a chiarire che noi saremmo rimasti amici, che sarebbe stato eternamente in debito con me per avergli presentato una creatura tanto buona, e mia sorella era socievole e affettuosa di natura. Eravamo diventati senza grosse difficoltà un trio inseparabile, che solo a tratti si trasformava in un affiatato duo amoroso, e alla partenza di Mark per la Scozia ci eravamo ripromessi di scriverci e vederci il prima possibile.
Loredana si era sentita preoccupata all’idea di affrontare una vita in cui lui non sarebbe più stato il suo compagno di avventure abituale, riducendosi piuttosto a un avatar sui social network o a una riproduzione video di bassa qualità su Skype. Le attenzioni di Mark e la loro straordinaria capacità di organizzare telefonate e altre attività a distanza, ad ogni modo, avevano reso le sue paure dei palloncini colorati e leggerissimi, che entrambi ci ritrovavamo a osservare per interi minuti più di una volta alla settimana.
Mark era poi venuto a trovarci a gennaio, appena completati gli studi, lei lo aveva raggiunto a Pasqua e in estate tutti e tre avevamo passato le vacanze in famiglia vicino al mare. I miei genitori avevano adorato il nuovo arrivato fin dal primo istante, nel vederlo così solare e di mentalità aperta. Scherzando non facevano che ripetere che sembrava più italiano di tutti noi messi insieme. In effetti, la relazione con mia sorella doveva averlo aiutato molto contro l’aria burbera che lo aveva contraddistinto mentre era stato in scambio universitario da noi. Vederlo rilassato e finalmente sereno era per me una fonte di gioia indicibile, visto che non avevamo mai smesso di sentirci neanche noi e che la sua presenza, sebbene a distanza, si era fatta ormai preziosa. Era un ragazzo d’oro, Mark. Uno di quelli per cui chiunque perderebbe la testa in una sera.
Forse, quindi, avrei dovuto aspettarmi che venisse da me a domandare un parere.
‒ Dimmi pure, Mark. Ti ascolto.
Lui si era massaggiato le dita di una mano con quelle dell’altra e abbassando gli occhi aveva balbettato:
‒ Secondo te... Cioè, tu dici... È troppo presto per chiedere a Loredana di sposarmi?
‒ Eh?
‒ Your sister, you know ‒ aveva tentato di spiegare lui una lingua che gli risultasse più facile usare in un frangente tanto delicato. ‒ I’d like to marry her. Shall I speak to your parents first?
‒ Mark, I... I... Man, I don’t know what to say ‒ e nel mio tono c’era già una punta di amarezza.
‒ Did I upset you?
‒ No, God, you didn’t! It’s just that...
‒ Yes?
‒ Look, Mark, I don’t know how to tell you...
Lui aveva fatto un passo verso di me, appoggiando i palmi delle sue mani sui miei gomiti.
‒ Hey... We are friends, right?
‒ Of course we are.
‒ You can tell me anything, then.
‒ Sure, I... I guess it’s...
‒ What is it? What’s wrong, Giorgio?
‒ Nothing is wrong, Mark. It’s just that I love you ‒ ho sospirato con un filo di voce.
‒ I love you too, man ‒ ha proseguito lui, accorato ‒ We’ve been pals for a while now. That’s why I can’t understand what’s going on here.
‒ I’ve just told you, Mark ‒ avevo provato a insistere, ormai piegato in due dall’avvilimento.
‒ Huh? When?
‒ Right now.
‒ “Nothing is wrong” is not an answer.
‒ I wasn’t referring to... Okay, you know what? Never mind.
‒ But man...
‒ I mean it, Mark. It’s alright. Talk to our parents, they’ll be happy to know the good news.
Il viso di Mark si era illuminato. Nei suoi lineamenti avevo letto una dolcezza nuova, euforica.
‒ Do you really think so?
‒ I have no doubt.
E mi ero lasciato abbracciare mentre in gola mi cresceva un nodo sempre più stretto, sempre più gonfio.
L’errore era stato continuare a parlare in inglese, me ne rendo conto. Non sarebbe cambiato granché, ne sono consapevole, però se mi fossi espresso in italiano magari lui avrebbe capito fino in fondo. Magari il mio I love you sarebbe stato meno ambiguo, il suo mi avrebbe fatto meno male allo stomaco. Non gli ho mai rivelato di essere omosessuale, in chat non era stato necessario e di persona avevamo trascorso il tempo in altri tipi di distrazioni. Di tanto in tanto si era parlato di donne, ma come si era parlato del surriscaldamento globale o dei rientri pomeridiani in facoltà. Mark non era un dongiovanni, all’epoca, e l’infatuazione per Loredana era stata così precoce da togliere spazio a qualunque discorso su un animo femminile che non fosse il suo.
È la vita, mi sono ripetuto in maniera ossessiva durante i preparativi per il matrimonio. Oggi a me, domani a un altro. Se pure mi fossi spiegato meglio in quel pomeriggio di agosto, magari oggi starebbero comunque brindando alla mia salute e io avrei giusto un rimpianto in meno con cui fare i conti. Niente di insuperabile. Galeotta fu la tesi di laurea e chi la scrisse, ha recitato poco fa Loredana al microfono, in una parafrasi di Dante che Mark ha colto al volo e gli invitati un po’ meno. Io ho alzato il calice e bevuto insieme a loro, anche se ho ancora il palato secco.
È il giorno più bello della vita di mia sorella. Non vedo perché rovinare l’atmosfera per colpa di uno stupido gap culturale.

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