“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 18 June 2020 00:00

Lo stato dell'arte. A Palermo. Disappartenenza e radici

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E poi, a un punto, la grafia di Jouvet cambia leggermente tratto.

E poi, a un punto, la grafia si fa stretta e calcata, affonda di più nella pagina, quasi a voler incidere la carta con un segno o un’impronta che vada ben oltre la visibile traccia d’inchiostro. Come se Jouvet cercasse una profondità fisica oltreché di pensiero. Avviene nel momento in cui – affrontando nei taccuini ogni tema che riguardi questo mestiere, recitare, che per lui non è soltanto un mestiere ma sempre di più una vocazione – sente di essere solo, come al centro di un vuoto, nel pieno di un a-parte. E non è la fatica fatta anche stasera per guadagnarsi la paga e gli applausi; e non è il peso eccessivo del trucco che, mischiato al sudore, gli imbratta la fronte e gli sporca il contorno degli occhi; è non è la tristezza che gli provoca il vocio allegro e confuso della compagnia, che brinda stando di là, nell’altro camerino; non è la scomodità delle cuciture del costume o questa maledetta spilla da balia che per tutta la recita gli ha punto il fianco sinistro, come un pizzico o un breve morso d’animale; non è l'aver dovuto bere in scena del vino caldo a stomaco vuoto, l'aver compiuto a un tratto un gesto ridicolo tant’era ingiustificato o l'aver dovuto dire parole d’amore a un’attrice che detesta; non è la certezza che lo spettacolo non è stato che uno spettacolo – mai un istante di teatro, neanche uno stavolta. E allora cosa? A spingerlo a scrivere come non ha mai scritto prima è qualcos’altro, qualcosa d’intimo e di sentimentalmente indistinto, che lo costringe tutto d’un tratto a farsi alcune domande: chi sono? Cosa sto facendo davvero? Che relazione ho con chi mi siede di fronte? E le frasi che ho detto stasera – “questo/testo/di/Molière” (scandisce mentalmente, ma senza emettere fiato) – è ciò che vorrei dire? E a chi è utile questa mia recita, quant’essa incide sulla fetta di mondo in cui abito? E domani come affronterò l’obbligo della replica, l’impegno scandito dal contratto?
In Elogio del disordine ovvero l’insieme di appunti “scritti al limite del teatro” (per citare Stefano De Matteis), appunti che Jouvet redige per riflettere sul comédien riflettendo ogni volta sulla sua stessa carne d’attore, alcune pagine sembrano dominate dalla scoperta di una mancanza, di un’estraneità, di una solitudine: di una disappartenenza. E non la risolvono – quest’alterità estrema che sente rispetto al contesto in cui agisce – le frasi dei colleghi, il tourbillon delle stagioni, i fiori offerti dal pubblico, le recensioni dei critici. “Non sono arrivato a niente” scrive dunque Jouvet e “non ho ancora capito”, “nulla adesso mi è chiaro”, “a che serve tutto questo?”.
Disappartenenza, dunque.
In una pagina del proprio diario Erland Josephson narra di uno sprofondo improvviso, come di una botola che gli si apre nei pressi dell’anima, mentre sta provando Il giardino dei ciliegi ed è così che gli sembra, nel momento in cui pronuncia le battute che gli toccano, che queste stesse battute non abbiano un senso o un valore concreto: che ci faccio qui?, gli verrebbe quindi da chiedere ad alta voce, se non fosse costretto nella gabbia costituita dal suo personaggio mentre – scrive Cesare Garboli in Falbalas – l’improvvisa “disappartenenza al teatro” di Carlo Cecchi la scorgi chiarissima mentre è in assito, ad esempio durante Il borghese gentiluomo: “vedevo alle spalle di Cecchi, e sotto i piedi di Cecchi, aprirsi un precipizio” – racconta infatti Garboli – “e la sua azione di attore si trasformava, per la sua vulnerabilità, in un’acrobazia oscura, misteriosa”, come di “uno che fronteggi e schivi i colpi di un nemico invisibile e sconosciuto”. “Il palcoscenico” quindi “spadroneggiava su di lui agitandolo, sballottandolo qua e là”, imponendogli “uno stato di sofferenza”, “una crisi di annientamento”, un esilio momentaneo, “una dissociazione” assoluta. E ancora. Eugenio Barba quando teorizza il “teatro di frattura”; Scabia quando abbandona il centro-città e si dirige la prima volta verso una periferia; Antonio Neiwiller quando scopre che la strada che ha percorso è “coperta d’ombre”; Leo de Berardinis (il peso dell’alcol sfumato da pochi giorni) che si ritrova inerme, con in bocca qualche vecchio brandello da dire e attorno solo un cerchio di candele − verrà questa sera qualcuno a vedermi? −; Perla Peragallo quando urla “basta, me ne vado!” e cambia per sempre direzione ma anche Armando Punzo quando sceglie per sé una stanza che ha una perimetratura simile a quella del cortile in cui giocava (al teatro?) da bambino; Roberto Latini quando rifiuta lo “spettacolo” fatto finora e frantuma se stesso facendosi pura voce negli ultimi tre minuti de Il cantico dei cantici; Mimmo Borrelli quando sta muto ed immobile, come fosse sconfitto o spossato o sfiancato dall’idea stessa di agire; Enzo Moscato, quando si distanzia dalla caoticità commerciale del presente cantando il suo canto, ritto su uno scoglio di memorie; Renato Carpentieri quando diventa un’isola e galleggia nell’opera diventando (i tremori di una mano, certi lunghi silenzi, una frase buttata come fosse cartastraccia) un’altra cosa rispetto all’opera stessa; Danio Manfredini che si sveste e, in Tre studi per una crocifissione, se ne va sulla sinistra del palco, stando lì seminudo, neutro, la testa calata verso il petto, il ventre che si gonfia e si sgonfia, le gambe rigide e strette, tenute parallele.
Disappartenenze.
“Io mi sento un bluff” dice a un punto Marco D’Agostin; “sì, io mi sento un bluff” ripete D’Agostin e poi spiega: “è come se vivessi la sindrome dell’impostore, di colui cioè che occupa un posto che non merita e vi assicuro che né i premi né l’apprezzamento dei colleghi né gli articoli di giornale sono riusciti ad affievolire questa sensazione. Mi sento talvolta un estraneo” afferma: “estraneo al teatro – parola con cui designo solo uno spazio, un luogo, l’edificio in cui agisco – tanto quanto mi sento estraneo al mondo della danza ed è per questo” – sottolinea poi per sottrazione, calando il tono della voce – “ogni parola che potrei usare per definirmi mi rende insoddisfatto, inappagato e infelice”. Disappartenenza. “Vedevo come s’era ridotto il fare antico di mio padre e la tradizione della mia famiglia: la replica in automatico di un brandello della storia – sempre lo stesso, il più vendibile agli spettatori –, brandello che veniva ripetuto tutti i giorni e più volte al giorno per intrattenere greggi di visitatori distratti, condotti a bottega dal tour operator così come si conducono i turisti a comprare souvenir” racconta Mimmo Cuticchio. “Per la rabbia le mani mi tremavano e di notte, per la tristezza, mi faceva male il cuore” sottolinea quindi Cuticchio raccontando il bisogno non rinviabile di partire per Roma, sottraendosi fisicamente a questo “antico palazzo d’arte finito in macerie”, macerie che “non mi rispecchiavano, che nonostante il cognome non sentivo più mie e che non volevo assolutamente abitare”. “Non ho mai più toccato i pupi di mio padre”. Disappartenenza. Come quella ribadita da Antonella Bertoni – “il rifiuto categorico della parola ballerina a causa dell’immaginario futile, disprezzato, craxi-berlusconiano e da varietà che questo termine in Italia porta con sé: fu una presa di coscienza forte quant’è forte un distacco fisico”: come “una barca che si lascia dietro la banchina di un porto”. Disappartenenza. Come quella confessata da Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi quando disegnano a voce il “guado nel quale ci troviamo”, guado che a un tempo “è una crisi”, pare “una trappola in cui siamo cascati” e sembra “una recita che non vogliamo più recitare”: in testa domande fatidiche − ma ne vale la pena? E quali e quanti sacrifici siamo disposti ancora a fare per il teatro? −; addosso il fardello (amato e gravoso) di due spettacoli neonati e che non si sa se avranno ancora vita, mentre davanti si staglia l’impressione che sarà sempre più difficile fare altri passi fuori: stiamo dunque qui, conficcati ingiustamente “in un altrove”.

 


La terza tappa de Lo stato dell’arte – il progetto ideato e voluto da C.Re.S.Co. perché artisti e compagnie della scena contemporanea si ritrovino a discutere delle proprie (e altrui) poetiche ideative e creative – avviene a Palermo, durante la prima edizione del Mercurio Festival diretto da Giuseppe Provinzano, e di Palermo pare assorbire l’umoralità multiforme, la multiforme e contrastiva anima letteraria. Come nell’antologia romanzesca di questa città infatti l'estrema secchezza di Angelo Fiore convive con il barocchismo estremo di Stefano D’Arrigo così durante le sette ore complessive dell’incontro i consigli di un’opera o di un testo (“rileggi le lettere di Milena a Franz Kafka”, “comprate La vita delle piante di Emanuele Coccia”, “ricordi il finale di Nuovo Cinema Paradiso?”, “forse i Taccuini di Marina Cvetaeva potrebbero aiutarti…”) si alternano agli scontri verbali (“Non c’è nel tuo racconto alcuna incertezza, com’è possibile?”, “Vi sto dicendo questo per rimproverarvi”, “Provate a cambiare argomento”, “Nessuno sta parlando di futuro!”, “Così perdiamo tempo”) e gli slanci emotivi, argomentativi o tematici (First Love e Romanzo d'infanzia, il Macbeth coi pupi alti un metro e ottanta e De revolutionibus; la condivisione-video di un proprio lavoro, la messa in comune di foto private, la lettura di una missiva, la narrazione di una fragilità personale – espressa qui fino alle lacrime) s’intrecciano alle crepe relazionali, alle prese di distanza, al rinnegamento netto e immediato (“Tu hai voluto colpirmi, darmi un pugno qui” dice a un punto Cuticchio a D’Agostin, indicandosi il fianco sinistro). E d’altronde. Gli eccessi monologici di Mimmo Cuticchio, impegnato per quasi un’ora in un assolo pronunciato tonitruando in piedi, le braccia che intanto mulinano accompagnando il racconto, convive col senso della misura e della grazia incarnato da Michele Abbondanza e Antonella Bertoni, che ascoltano più che parlare, mentre la concretezza utilitaristica di Marco D’Agostin (“sono a un quarto del percorso creativo ora in fieri: voglio perciò sfruttare al massimo quest’incontro, ricavandone qualcosa”) pare bilanciare la nostalgia rammaricata di Carullo/Minasi, che non possono che discutere di ciò che è appena stato (Patruni e Sutta, che ha debuttato a Primavera dei Teatri; Marionette che passione!, messo in scena in estate e prodotto dallo Stabile di Catania) ma che già rischia di non esistere più.
Certo, risuonano più volte alcuni nomi (Shakespeare, Artaud, Omero, Kantor, Pirandello, Schubert, Ronconi, Pina Bausch ed Emma Dante, Chiara Bersani, Marco Martinelli, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani,  Antonio Latella, Vincenzo Pirrotta, Gaspare Balsamo, Virgilio Sieni) e, certo, alcune insofferenze individuali si rivelano un patimento collettivo (l’iperproduttività imposta dai decreti ministeriali; la riduzione inconcepibile dei tempi di creazione; il sistema bulimico, che divora la gavetta dei più giovani; la richiesta ossessiva di debutti; la funzione necessaria ma non bastevole svolta dalla residenze; l'isolitudine provata stando geograficamente ai margini del sistema; la circuitazione divenuta sempre più problematica; le disparità strutturali e teatro-finanziarie tra Nord e Sud e tra l’Italia e l’estero; l’incapacità della critica nel rendere conto di un percorso artistico) ma ciò che resta – come restano infine i detriti, avvenuto il naufragio – sono soprattutto le differenze. Poco male: è una delle possibilità previste dall’incontro, è una tra le conseguenze che possono derivare anche dal più sincero tra i tentativi di parlarsi. E d’altro canto. Il convegno d’Ivrea, all’ombra della scrittura di un Manifesto unitario, non produsse scontri acerrimi dando inizio a battaglie durate decenni? E Anna Zeppieri – giovane che partecipava alle lezioni tenute da Eduardo De Filippo a La Sapienza di Roma – non litigò forse duramente col Maestro, imputandogli attacchi gratuiti (“c’è una specie di ostilità tra di noi”), un’incapacità di comprenderla e “una cattiveria gratuita”? E la discussione tra Adolphe Appia e Gordon Craig – avvenuta a Firenze – non si rivelò un “fallimento”? “Lavato e riposato, benché tra spaesamento e rumore non abbia potuto dormire, vado a pranzo da Craig. Dolorosa tensione dello spirito nel comunicare con un uomo che non conosco, che non ha, lo sento, niente in comune con me eccetto un grande amore per il teatro. Ma anche su questo non siamo d’accordo, infine”.
“Ferite inevitabilmente si aprono quando la vita di due persone s’incontrano” direbbe Olivia Laing. Eppure le ferite o i detriti (a guardare bene) possono comporre un disegno o forse esiste un filo che – dipanato – rende una trama che prima non era visibile o tra i reperti rimasti sul campo (espressi i propri bisogni, terminato l'obbligo di compresenza) ce n’è uno – uno solo – che però dice qualcosa di tutti.
La disappartenenza, appunto.
E, per reagire alla disappartenenza, il ritorno alle radici o l’evocazione di un fantasma.



“Sono rarissimi gli incontri che davvero lasciano un segno. Parlo di un segno indelebile – più di una cicatrice o anche un’amputazione che un sistema di ricordi. La maggior parte delle persone che incontriamo, è triste dirlo, non determina in noi nessuna reazione profonda, meno che mai un cambiamento anche minimo. Saremmo perfettamente gli stessi senza averle conosciute. Ma questa deprimente regola non fa che rendere l’eccezione più pericolosa” afferma Emanuele Trevi a pagina ventisette di Qualcosa di scritto. Ebbene, cos’è Qualcosa di scritto? Un romanzo (auto)biografico, in cui Trevi rende il tempo che ha trascorso al Fondo Pasolini, accanto a Laura Betti, prima di venirne cacciato. E un saggio su Petrolio e sulla vocazione al sacrificio del poeta friulano. E la resa degli anni in cui Trevi esordì come scrittore (già, ma che tipo di scrittore voleva diventare e che scrittore invece è diventato?). Ed è l'autopsia del cadavere letterario di PPP. Ed è la storia di un viaggio che da Ostia porta fino in Grecia. Ed è un ibrido insieme di ricordi che terminano nell’estate appiccicosa dell’Urbe. Questo, e poi. La reviviscenza di un incontro avvenuto allora e rivelatosi – me ne accorgo adesso – potente, decisivo e catastrofico quant'è catastorofico un uragano. Pasolini per Laura Betti. E Laura Betti per Emanuele Trevi. Disappartenente al presente, incapace di aderire in tutto e per tutto al tempo e al contesto al quale appartiene, Trevi produce una sfasatura anacronistica per lui necessaria e salvifica e dunque scava nel suo profondo (non dev’essere un caso che, a un certo punto, si trovi nel Museo delle Anime del Purgatorio: una stanzetta della chiesa del Sacro Cuore del Suffragio tutta piena di “libri, federe di cuscini, capi di vestiario, umili strumenti di lavoro” che testimoniano la perdurante relazione tra i vivi e i morti) ed è proprio ricercando in questo suo profondo − con lo stesso rigore con cui, ne La classe, Fabiana Iacozzilli ha rievocato suor Lidia − che comprende chi gli ha lasciato sul corpo certe ferite scovando, nel contempo, le ragioni più segrete della propria vocazione intellettuale ed artistica. E d’altro canto: quest’andamento carsico di Trevi contraddistingue Due vite (in cui rievoca Rocco Carbone e Pia Pera), contraddistingue Sogni e favole (Arturo Patten, Cesare Garboli, Amelia Rosselli) e contraddistingue Senza verso (Pietro Tripodo).
Così dunque fa Trevi. Così fa Sebald raccogliendo i frammenti dispersi di vite ebraiche sperdute (il viaggio verso il ricordo dell’altro in Sebald diventa un viaggio che per meta ha la conoscenza ulteriore di sé); così fa Andrea Bajani, che in Mi riconosci scrive di Antonio Tabucchi per scrivere infine dei propri moti d'animo; così fa Pierre Pachet, che in Autobiografia di mio padre confonde la voce del raccontato con la voce del raccontante; così fa Annie Ernaux, che si spinge non solo a scrivere la vita che ha vissuto ma – non soddisfatta – giunge a interrogare (ne L’altra figlia) lo spettro della sorella Ginette, morta due anni prima che la scrittrice nascesse: ora che mi sento immersa in “un pantano” o cinta “come da una landa spopolata com’è nei sogni” approfondisco la tua conoscenza e – “rincorrendo un’ombra”, tornando insomma a chi fosti – cerco un senso di me nel presente: “può essere” – scrive infine la Ernaux – “che io abbia tratto la mia forza da te, dalla tua morte e da una sopravvivenza che reputavo miracolosa. Può essere” aggiunge “che tu mi abbia dato un surplus di energie, questa febbre che ho di vivere”.
Ebbene.
Lo stesso viaggio nel profondo – che ci porta o mi porta a quell’incontro o a quel momento, a quella circostanza decisiva, a quella volta che non dimentico più – caratterizza (foss'anche solo per un istante) la disappartenenza dichiarata da Marco D’Agostin, da Mimmo Cuticchio, da Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, da Michele Abbondanza e Antonella Bertoni. È per Abbondanza/Bertoni Carolyn Carlson, che viene citata nel mezzo del discorso che riguarda Hyneas, il progetto ora work in progress, perché è la Carlson che  “attraverso un passaggio di segni avvenuto da corpo a corpo ci ha insegnato a prenderci cura dell’umanità che contraddistingue – prima e più di ogni tecnica – un danzatore”. Sono le battute di Fragile di Tino Caspanello per Carullo/Minasi – “Non ho capito ancora come si fa!”, “Cosa?”, “I palloncini. Scoppiano tutti!” – ad essere ricordate e ridette per spiegare un modo d’esistenza teatrale che, da allora, alla povertà degli oggetti (un carretto, una sedia, un naso rosso da clown, una pianta finta, una gonna che si fa tenda, una vecchia pagina di giornale) rende la patina inattesa che appartiene talvolta alla poesia. È una mattina di agosto del 1983 per Mimmo Cuticchio: “Ero a Montalcino per una rassegna di workshop e spettacoli; c’era anche Eduardo De Filippo, che abitava la casa accanto alla mia e con cui condividevo il giardinetto in cui fare colazione. Era stanco, era anziano, era magrissimo, aveva un occhio coperto per la cataratta mentre i polsi sembrano annodati come arbusti venosi e violacei. Gli parlo. Maestro, gli dico, posso permettermi una domanda personale? Io sto costruendo nuovi pupi, voglio fare un teatro differente, voglio cercare nuovo pubblico e dire altre storie? Voglio – insomma – rinnovare la mia arte così come i bambini giocando rinnovano il mondo. Ma tu ci credi davvero? Mi chiese. Non ci dormo la notte, risposi. Vedi? A uno, e cioè a me, lo hai convinto –  e fu così che in me qualcosa cambiò; è fu così che mi ritrovo adesso a fare le tragedie di Shakeapeare e a condividere il palco con un jazzista, a far danzare un pupo mentre accanto si muove un danzatore o, come avverrà a breve, ad andarmente in un villaggio del Senegal a cuntare con un griot”). È Nigel Charnock per Marco D’Agostin. Anno 2010. Bassano del Grappa. B.Motion. Un laboratorio. E “quest’incontro che ha segnato in maniera irrevocabile il modo che ho di pensare la performance. Dopo averlo conosciuto ogni possibilità di danza è mutata, drasticamente e per sempre”. “Ho pensato a Nigel, in tutti gli spettacoli che ho fatto” dice D'Agostin; “in ogni mio lavoro c'è Nigel”, dice ancora; “volevo essere Nigel” dice infine mentre condivide coi colleghi il processo, le idee e gli interrogativi che riguardano Best Regards, opera nella quale – bando a ogni diretta rievocazione memoriale, “torno infatti a lui per comprendere qualcosa di me” – “proverò a rispondere ad alcune domande che in questo momento mi assillano: come può una messinscena diventare una lettera? E come indirizzo questa lettera, scritta con otto anni di ritardo, a qualcuno che non può più rispondermi? Cosa ci faccio dunque io qui, adesso, sul palco? A cosa (mi) serve tutto ciò? E, in definitiva, cos’è per me l'arte e cos'è per me l’intrattenimento?”

 


È notte quando la due giorni palermitana de Lo stato dell’arte termina. Il fumo di sigarette s'arriccia nell’aria, qualche bicchiere è reso pesante dal vino o dalla birra. Volti stanchi e risate confuse, ogni tanto. Il rumore dei passi di chi si aggira ancora nei Cantieri Culturali alla Zisa. Gli artisti intanto stazionano, con Giuseppe Provinzano, fuori Spazio Franco. Cristiana Minasi parla con Michele Abbondanza, Antonella Bertoni discute con Giuseppe Carullo. Marco D’Agostin invece – reduce da una replica di First Love – sta più distante, assieme a Mimmo Cuticchio. Parlano, poi Cuticchio si piega, avvicina la bocca all’altezza dell’orecchio sinistro di D’Agostin, gli farfuglia qualcosa. Chissà cosa si dicono, mi chiedo, ripensando ai fraintendimenti, ai contrasti, a una certa incapacità di negoziare e comprendersi. Infine una pacca su una spalla, un sorriso reciproco, il saluto, la separazione.
È così che dunque finisce?
E di quel che è avvenuto, e di tutto ciò che si sono detti, rimarrà in loro qualcosa?
O invece già è tutto svanito?
“Ti tu magnéa la tó ciopa de pan / sul treno per andare a scola / tra Sazhil e Conejan; / mi era póch lontan, ma a quei tèmp là / diece chilometri i era ‘na imensità”.
Tornandomene in albergo mi torna in mente che. È il 1986 e Andrea Zanzotto scrive una poesia. Della poesia questi sono i primi versi. È dedicata a Pasolini. Zanzotto lo immagina ragazzino, intento a mangiare un tozzo di pane, in attesa del treno che lo porterà a scuola: proprio come faceva lo stesso Zanzotto, in quegli stessi giorni e in quelle stesse terre, abitando a dieci chilometri di distanza da Pier Paolo. Ma − a quei tempi, scrive Zanzotto − dieci chilometri “i era ‘na immensità”, erano cioè una lunga distesa che a noi pareva impossibile da colmare. Non si incrociarono mai o, incrociandosi, non si conobbero. Eppure mezzo secolo dopo Pasolini torna nei pensieri di Zanzotto, facendogli maturare una consapevolezza inattesa e improvvisa: “se ‘vea l’istessa idea” – noi due, in fondo in fondo, “si aveva la stessa idea”.
Anche se allora non lo sapevamo, anche se per tutto questo tempo non ce ne siamo resi conto.





Lo stato dell'arte
a cura di C.Re.S.Co. / Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea; Babel Crew
con Mimmo Cuticchio, Marco D'Agostin, compagnia Abbondanza Bertoni, compagnia Carullo Minasi
testimone interessato Corrado Russo
nell'ambito di Mercurio Festival
a cura di Babel Crew, Spazio Franco
sostenuto da Fondazione Unipolis
Palermo, 25 e 25 settembre 2019


 

leggi anche:
Alessandro Toppi Lo stato dell'arte. A Matera, undici ore a parlarsi (Il Pickwick, 12 settembre 2019)
Alessandro Toppi Lo stato dell'arte. Scilla e Cariddi, a Milano (Il Pickwick, 19 ottobre 2019)

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