“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 15 November 2019 00:00

Bambole di porcellana gonfie di morte

Written by 

“Capisci che devo stare da solo? Io con gli altri mi perdo, non mi concludo, non mi agglomero, non quaglio, resto a metà, o all’inizio... non arrivo al quid, resto appeso all’incipit di un’idea, un’idea qualsiasi poi, neanche un’idea geniale. Se non fossi medico penserei di essere vittima di una di quelle cose senza vaccino e senza speranza, una patologia rarissima che ha fatto sì che tutti i finali dei miei pensieri siano finiti in un posto che non trovo, nella mia memoria, che non so dov’è né dove sia né dove inizi e che non finisce, e sono tutti belli e morti, duri, duri, freddi. Pensieri come bambole di porcellana gonfie di morte”.

Di che materia sono fatti i pensieri? E qual è il loro tempo? È un tempo lento o veloce? Quanto durano i pensieri? Soprattutto quanto tempo è necessario per elaborarli? È un tempo duro o un tempo molle? E il tempo nostro? Quello interno riesce a conciliarsi con quello esterno? Il tempo che ci diamo, com’è? È un tempo sufficiente?
No, non lo è! È un tempo ansiogeno, un tempo “sempre di corsa”, un tempo che fa continuamente i conti con il tempo esterno, con l’orologio da polso e con quello biologico; è un tempo scarso e limitato. Un tempo disciolto nella liquidità moderna. Un tempo duro, imporcellanato, irrigidito, ingabbiato e in questa gabbia non c’è spazio per pensieri articolati; in un tempo siffatto i pensieri non possono essere che asfittici, duri, freddi, morti. Ipertrofia tempo-vita, assenza di pensieri, collasso della coscienza critica, atomizzazione, solipsismo sono le cifre di una società non più portatrice di questo nome: gli esseri che la compongono non sono affatto sociali, risultano invece monadi che si muovono convulsamente nello spazio. Nel monadismo contemporaneo, nella parcellizzazione sia interna che esterna, non c’è spazio per l’altro, la persona si dissolve e dissolvendosi dissolve il circostante.
Sipario.
C’è una stanza sul palco, è una stanza chiusa tra quinte e fondale, una stanza che, pur nascondendosi, in una parapettata carrellata si mostra; in quella stanza, disteso, un uomo canticchia, canticchia disteso su una panca metallica, una panca fredda e dura, il suo tempo esterno; quando si alza rivela un passo incerto, un passo caldo e molle, caldi e molli sono anche i suoi pensieri, lo sono ora, ora che ha scelto di vivere in questo paese spopolato, ora che cerca sincronia con il suo tempo interno e che cercando resta solo. Silvio, questo il suo nome, il nome reale come quello di scena (è così per tutti i personaggi nati dalla penna di Lucia Calamaro), ci rende partecipi del suo malessere da subito: “Ci vogliono gli altri per farti sentire davvero male”; in una realtà piccola, invece, la solitudine è apparentemente rassicurante, poiché “da soli è solo un po’ triste ma non si soffre... Essere socievoli è terribilmente faticoso... Io non so più stare insieme, mi sono abituato al silenzio”.
Su questa distanza tra il dentro e il fuori, sulla ricerca, irrisolta, di un equilibrio tra il sé e l’altro da sé, tra l’io e il noi (... il ‘tra di noi’ s’è trasformato in ‘tra me e me’...”) si snodano due ore di intensissimi dialoghi, parole pesanti come piombo, che richiamano lo spettatore alla riflessione, alla riattivazione, finalmente, di una smarrita coscienza critica e, squisitamente, umana; ogni frase mitraglia il petto, il ritmo è incalzante, impietoso, quando il sipario si chiude definitivamente il mio applauso ha il tempo di Fiume Sand Creek, ritornano alla mente i suoi versi: “Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso... tirai una freccia al cielo per farlo respirare, tirai una freccia al vento per farlo sanguinare”, nessun soldato americano però, non siamo nel 1864 e a massacrarci ci pensiamo da soli ogni volta che smarriamo il senso del nostro essere zoon politikon, ogni volta che non consideriamo l’altro come fondamentale, ogni volta che diamo un calcio ai legami umani, ogni volta che permettiamo al nostro tempo interno di cedere a quello esterno noi ci smarriamo.
In questo dramma onirico, anche tanto ironico, ogni persona-ggio mostra, spogliandosene, abiti e maschere indossati per convenzione, ossimorici legami assoluti (‘absolutus’) familiari e sociali, che costringono alla saldezza apparente (“... il mucchio lo teme, il mucchio è caos...”), alla forza ipocrita, allo stare in salute (“... la dittatura della salute...”) e in queste finzioni ciascuno perde sé stesso e insieme l’altro, non c’è la sintonia dell’umanità.
Silvio sogna di essere “disturbato” dall’arrivo dei suoi tre figli e di suo fratello in occasione del decennale dalla morte di sua moglie, sogna di confessare loro il suo malessere (“Il dolore di sentirsi da soli anche quando ci siete voi, soprattutto quando ci siete voi”), sogna la loro attenzione, la loro cura (“... hai bisogno di folle, la ‘gente’ è poca roba, per te ci vuole la massa...”), sogna di non essere solo, lo sogna talmente bene da farcelo credere fino alla fine, fino al palesarsi del suo disincanto, fino al disvelarsi della nostalgia per quell’ombra dei piedi giusti, piedi sicuri, in scarpe dal dubbio gusto ma sicuri, piedi compagni di una vita che non conosceva solitudine.
Maria Laura, Alice, Vincenzo (e prima Riccardo) − i tre figli di Silvio − e Roberto − suo fratello − sono vittime, loro malgrado, della disarmonia del mondo: “Non c’entriamo niente con il mondo, non ci sappiamo stare”; incastrati tra una zona di mezzo tra il voler stare e il dover stare, tra il desiderato e il concesso, mostrano tutta la loro fragilità, l’instabilità, la precarietà e, mostrandola, ce la indicano, come monito per gli astanti mostrandola la denunciano.
Il lavoro drammaturgico di Lucia Calamaro è, come sempre, profondamente intimo pur avendo un respiro più ampio, corale, parlando a tutti di tutti parla al singolo di sé, con la capacità, rarissima, di dare voce ai pensieri di ciascuno, permettendo, in tal modo, senza forzatura alcuna, di immedesimarsi in uno dei personaggi, tutti assolutamente principali, tutti assolutamente necessari, nessuna inutile comparsa, ciascuno porta una vita, ciascuno un’anima e uno spaccato. Il flusso di coscienza, che si lascia supportare dalla luce piena e chiara data alla scena e che caratterizza soprattutto i monologhi ma che è rintracciabile anche nei dialoghi, quasi fossero, anche questi, un parlarsi addosso, ci sembra la cifra stilistica dell’autrice; quella lingua, quella “velocità di verbigerazione” − per dirla con Christian Raimo − crediamo sia la Calamaro stessa, la sua formazione, le sue letture, i suoi autori preferiti, che continuamente occupano la scena, tra citazioni verbali e oggettuali, è una lingua meticolosa, attenta, ricercata, passionale ma mai melensa, intelligente, ironica e tagliente. Una lingua del genere non è facile da reggere, il lavoro degli attori sulla memoria e sull’articolazione immaginiamo sia stato complesso (ancor di più per Vincenzo Nemolato, entrato in corsa al posto del talentuoso Riccardo Goretti), rendere personale una così corposa lingua altrui, appoggiarla alle partiture fisiche, ai movimenti di scena è lavoro che solo degli attori straordinari riescono a fare, tali sono quelli che vediamo muoversi sul palco, bravi, bravissimi e veri. E se Silvio Orlando (che adoriamo dai tempi di Palombella rossa), sua moglie Maria Laura Rondanini e Roberto Nobile, sicuramente più noti al grande pubblico, confermano opinioni datate, Alice Rendini e Vincenzo Nemolato ci dicono delle qualità di certi attori e di certe compagnie emergenti del teatro italiano: la Rendini entra quasi in punta di piedi sulla scena, per poi sferrare, partitura dopo partitura, fendenti ipnotici allo spettatore, non presenza irrompente ma dirompente, non cattura subito, immediatamente, ma lavora dentro con costanza, fino a farti vibrare con lei, così era accaduto già in La vita ferma, sempre della Calamaro, e in Viva l’Italia di César Brie, in quest’ultimo c’aveva lasciato a terra singhiozzanti; Vincenzo Nemolato, cui abbiamo immediatamente perdonato un paio di incespicate (lo ribadiamo, è entrato in corsa su un lavoro difficilissimo), si forma professionalmente con la compagnia teatrale (e sociale) napoletana Punta Corsara che in pochissimi anni s’è fatta notare per il livello dei suoi attori  e per la bontà delle sue proposte artistiche (vincitrice, così, del Premio Hystrio “Altre Muse” 2010, del Premio Ubu speciale sempre, nello stesso anno, del Premio Anima nel 2011, Premio Ubu 2012 ai suoi attori − tra cui appunto Nemolato − e nel 2013 del Premio In-Box), Nemolato sul palco è sprintoso, effervescente e decisamente convincente, il suo passo fa da controcanto a quello stanco di Silvio Orlando, cui il capochinismo sta lentamente conducendo all’immobilità.
Lo sguardo che propone la regista è delicato ma preciso, non consegna il peso dell’angoscia ma lo scandaglio della riflessione, la leggerezza dell’ironia non tradisce l’intensità della visione, e le luci di scena nei colori pastello di Umile Vainieri si stagliano sulle scelte essenziali e incisive di Roberto Crea, tutto è in linea col sapore crepuscolare dell’impianto registico.
All’imbrunire della vita ciò che si nota è la distanza con gli altri, in una relazione che trova i pensieri muti, incapaci di giungere allo stadio della parola, inespressi, ancora chini su se stessi e ad un passo dalla comprensione (“nella mia testa è tutto così, s’intuisce ma non si capisce”); all’imbrunire della vita “non coincidi più con nessuno”, neanche con i propri figli (ed è per questo che nessuno può fare il genitore di figli grandi”); all’imbrunire della vita ci si scopre assidui frequentatori di una qualsiasi Coop di paese, nella sicurezza di trovarci sempre la stessa commessa, quel volto familiare di cui si abbisogna quotidianamente; all’imbrunire dell’esistenza ti organizzi per morire in tempo” facendo vincere l’indolenza a capo chino e la rassegnazione: … un albero cade, di suo, d’estate… succede!”.





leggi anche:
Roberto Cirillo, L'Orlando seduto (Il Pickwick, 6 maggio 2019)





Si nota all’imbrunire
(Solitudine da paese spopolato)
di
 Lucia Calamaro
regia
Lucia Calamaro
con Silvio Orlando, Vincenzo Nemolato, Roberto Nobile, Alice Redini, Maria Laura Rondanini
scene Roberto Crea
costumi
 Ornella Campanale, Marina Campanale
luci 
Umile Vainieri
produzione Cardellino srl, Teatro Stabile dell’Umbria
in collaborazione con
Fondazione Campania dei Festival − Napoli Teatro Festival Italia
lingua italiano
durata 2h
Gubbio (PG), Teatro Comunale Luca Ronconi, 4 novembre 2019
in scena 4 novembre 2019 (data unica)

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook