“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 27 May 2018 00:00

Il barbiere di Dantès

Written by 

(racconto liberamente ispirato al Conte di Montecristo di Alexandre Dumas)

 

   

 

“Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare”.
 (Samuel Bellamy, Pirata alle Antille nel XVIII secolo)

 

 

a Gérard Genette

 

Edmond Dantès, dopo essere sbarcato a Livorno, imboccò la via San Ferdinando: qui, vicino al porto, si trovava il barbiere dove era stato diverse volte, ormai tanti anni prima. Era un tiepido pomeriggio di maggio e un dolce venticello spirava dal mare incanalandosi nella strada. Edmond camminava e, voltandosi, poteva vedere in fondo alla via gli alberi delle navi, con le vele ammainate, solcati da argentei gabbiani avvolti dalla luce del sole. Riconobbe subito la bottega, nulla sembrava essere cambiato. Dopo una breve attesa, si sottopose alla paziente opera del barbiere e, finalmente, rivide se stesso nel volto che, adesso, si rifletteva nell’ampio specchio di fronte a lui.

Il suo viso, però, non era più quello di prima, felice, inconsapevolmente catturato dalla vita. Era invece un volto sofferente, segnato da innumerevoli anni trascorsi lontano dalla luce del sole, adombrato da desideri di vendetta. Eppure, in mezzo a tutto ciò, il barbiere riconobbe il marinaio che, tanti anni prima, periodicamente, quando sbarcava nella città del Granducato, si recava da lui per farsi tagliare barba e capelli. Edmond non raccontò al barbiere i suoi terribili trascorsi. Si limitò ad accennare che era da poco arrivato a Livorno a bordo della Giovane Amelia, un’agile e veloce tartana. Il barbiere capì subito con chi Edmond si era imbarcato: da anni, infatti, conosceva Jacopo e il padrone della nave, con i quali aveva sempre combinato ottimi affari. Finito il suo lavoro, Renato (così si chiamava il barbiere), si rivolse a Dantès: “Senti, Edmond, dal momento che, come mi hai detto, vi fermate a Livorno per qualche giorno, avrei un interessante affare da combinare con Jacopo. Perché non ci vediamo più tardi, al tramonto, al porto mediceo, così ti spiego?”. Edmond, dapprima un po’ titubante, dopo essersi convinto che non avrebbe avuto nulla da temere da Renato, accettò di buon grado. Uscì dalla bottega e si recò in un vicino negozio di abbigliamento per comprarsi un nuovo vestito da marinaio, fine ed elegante. 
Fuori, intanto, la luce del tramonto stava già colorando le strade e i palazzi del suo barlume arancione. Edmond si dirigeva verso il porto, lungo l’ultimo tratto di via San Ferdinando. Sul selciato si stavano allungando ombre nere e grigie mentre, alzando lo sguardo, poteva vedere gli alberi delle navi che si sollevavano verso un cielo spennellato di porpora e arancio. Le sfumature rossastre si dileguavano lentamente fino a trasformarsi in giallo luminoso e poi quasi a sparire verso l’alto, dove un azzurro a tratti più cupo avvolgeva la volta celeste come un enorme mantello. Stava attraversando la grande piazza che si trovava lungo la via mentre molte persone iniziavano la loro passeggiata tardo pomeridiana e serale. Il rosso e il giallo nel quadrato di orizzonte che aveva davanti – il porto – sembravano un incendio fosforescente, una lingua di fuoco che bruciava lontano, in terre d’oltremare. Il palazzo alla sua sinistra era come un gigante oscuro, minaccioso, e la sua facciata non colpita dai raggi del sole sembrava un nero fondale di teatro. Sotto di esso spiccavano i baluginii dei portici, delle brevi luci che già si stavano accendendo. Il palazzo alla sua destra, invece, era reso di fuoco dalla luce del sole che si spalmava come una tinta giallastra sulle sue finestre, e quasi lo accendeva di luce propria. Le vetrate delle botteghe di armeni, greci, ebrei e levantini che si trovavano sotto il palazzo erano delle fiaccole puntate contro le palpebre. Un cocchio, nero di ombra e ammantato di rosso, avanzava verso di lui mentre alle spalle della vettura si apriva l’incendio. La stessa edicola che si trovava nella piazza sembrava poter prendere fuoco da un momento all’altro. Non era stata, finora, una primavera molto calda a Livorno, per cui le persone che incontrava vestivano ancora cupi mantelli neri quasi invernali e cappelli di feltro, nere e demoniache figure che cupe passavano. Gli occhi di Dantès, non più abituati come un tempo alla luce, furono letteralmente feriti dalla face del tramonto e dovettero fuggire verso le zone d’ombra, verso l’oscuro palazzo, il nero cocchiere e gli atri demoni.
In breve giunse al porto. La luminosità del tramonto si era un po’ attenuata e Edmond poté guardare l’orizzonte senza coprirsi gli occhi con le mani. Sbirciò, alla sua destra, il monumento a Ferdinando I che giganteggiava bianco sui quattro oscuri personaggi di bronzo, tetri giganti domati. Dopo aver attraversato il ponte che conduceva al porto notò subito, da lontano, sulla banchina, Renato insieme a due altri loschi figuri. Erano in una posa quasi statuaria e immediatamente dietro di loro spiccava un veliero con la chiglia interamente dipinta di rosso, reso ancora più iridescente dai baluginii del tramonto. A sinistra era seduto in terra, rivolto verso il mare, un tizio vestito da marinaio, che Dantès non riusciva a vedere in volto: scorgeva solo le sue spalle, sormontate dalla tipica mantellina blu del marinaio e il suo grande cappello bianco. Riusciva inoltre a intravedere la sagoma di una lunga pipa che il giovane teneva in bocca. Al centro, seduto su un pilone che serviva per legare le gomene delle navi, dando le spalle al mare, si trovava lo stesso Renato. Era vestito in modo molto diverso da come lo aveva visto quel pomeriggio nella sua bottega: adesso, sembrava quasi anch’egli un marinaio, con una corta blusa da malandrino e un cappello blu. Il suo volto era di profilo mentre il suo sguardo pareva rivolto verso il compagno seduto in terra. Il terzo personaggio era al fianco di Renato e stava in piedi guardando il mare. Vestito con pantaloni e giacca marrone scuro, portava un fazzoletto rosso al collo e un cappello scuro; il suo sguardo era fisso sul veliero rosso.
“Caro Edmond, ti stavamo aspettando” – disse Renato – “ti presento i miei amici Mirtillo e Amaranto”. Mirtillo, il giovane vestito da marinaio che era seduto in terra, si alzò e, levatasi la pipa di bocca, tese giovialmente la mano a Edmond. Amaranto, più silenzioso e riservato, fece soltanto un cenno del capo. “Come sicuramente saprai” – continuò Renato – “la Giovane Amelia, la nave sulla quale sei imbarcato, possiede uno dei più abili equipaggi di contrabbandieri del Mediterraneo. Conosco bene Jacopo e da molti anni combiniamo ottimi affari. La mia attività principale, infatti, non è quella di barbiere ma di contrabbandiere”. Edmond rimase un po’ sorpreso da queste affermazioni ma, alla fine, non più di tanto. Alla fine, un po’ se lo aspettava. Dal porto, Renato e i suoi compari condussero Edmond nella zona del quartiere livornese denominato “Venezia”, a causa della grande quantità di canali che lo facevano assomigliare alla città lagunare. Qui, in via dell’Olio, c’era infatti la taverna che era considerata il quartier generale dei contrabbandieri livornesi. I quattro si diressero verso il quartiere, costeggiando il porto. Appena entrati nella zona del quartiere, mentre stava calando il buio, incontrarono un gruppo di persone sedute sulla spalletta di un canale: donne e uomini vestiti da marinaio che stavano chiacchierando. Dietro, da un lato si intravedeva una delle fortezze medicee di Livorno, la “Fortezza Nuova” e enormi e quieti palazzi che sembravano nascere direttamente dal canale. Si vedevano anche gli alberi di un piccolo veliero ormeggiato lì vicino. Renato salutò un giovane vestito da marinaio e, insieme a Edmond e ai suoi compari, si diresse verso via dell’Olio. Le strade si stavano rabbuiando e, lentamente, si accendevano le lanterne sopra le porte dei palazzi. Il cielo stava diventando di un blu quasi irreale, un colore magico creato da un pennello impazzito, irretito dal fascino della notte incipiente per le strade del vecchio quartiere. Gruppi di marinai e prostitute sostavano nelle piazzette e agli angoli delle strade e fra di loro c’erano anche suonatori di chitarra che improvvisavano stornelli e canzoni malinconiche nel buio. Il cielo era blu, venato di nuvole spumose e fluorescenti, e per le strade le lanterne e le luci delle osterie spandevano giallastri bagliori che si riflettevano sul selciato e sugli abiti dei passanti. Si sentiva un acre odore di acqua stagnante di porto al quale si andava mescolando il profumo proveniente dalle cucine delle case e delle taverne. Via dell’Olio era una stradina stretta che si apriva a fianco dei Bottini dell’olio, un enorme magazzino dove venivano stipate le mercanzie. Entrarono nella taverna e si diressero verso il tavolo dove già erano seduti Ghiorgos, il padrone levantino della Giovane Amelia, il resto dell’equipaggio, e l’intera banda dei contrabbandieri livornesi. Al posto d’onore, accanto a Ghiorgos, era seduto un uomo elegante, con un completo scuro e un cappello a cilindro. I nuovi arrivati si sedettero vicino a Ghiorgos e a Jacopo.
“Caro Renato, caro Edmond, e un saluto anche a voi, Mirtillo e Amaranto” − attaccò Ghiorgos, che non sembrava affatto sorpreso di vedere Edmond insieme a Renato – “vi presento lord Lemuel Pembroke, gradito ospite al nostro tavolo questa sera”. Il giovane inglese si alzò e salutò in modo estremamente cortese e raffinato. Lord Pembroke era un principe britannico che, quasi novello Robin Hood, era diventato corsaro per rubare ai ricchi e donare ai poveri. Era convinto che nella società – nonostante egli stesso fosse ricchissimo – fosse necessaria una più equanime spartizione delle ricchezze. Data la sua posizione sociale, ottenne facilmente la ‘patente’ di corsaro dalla regina Vittoria e, dopo aver trasformato in nave corsara un elegante galeone, la Lady Mary, e aver messo in piedi un fido equipaggio, si diede a viaggi e scorribande fin nei mari del Sud. Spesso si fermava a Livorno ed era conosciutissimo negli ambienti dei contrabbandieri. Quella sera Ghiorgos stava discutendo con lord Pembroke riguardo a un preziosissimo carico che doveva essere trasferito sulla Giovane Amelia e trasportato in Corsica. Infatti, l’inglese avrebbe dovuto fermarsi a Livorno ancora lungo tempo per sbrigare degli affari con dei suoi connazionali nel Granducato di Toscana. Erano numerosi, infatti, gli inglesi che in quel tempo soggiornavano in Toscana, soprattutto a Firenze. Renato, con Edmond e i suoi compari, si sedette al tavolo e Ghiorgos iniziò a spiegare come avrebbero dovuto trasbordare le merci (mussola dipinta, cotoni proibiti, tabacco e tè inglese, nonché tappeti turchi, stoffe del levante e cachemire) dalla Lady Mary alla Giovane Amelia. Naturalmente, le delicate operazioni del trasbordo toccavano a Renato e alla sua banda. Edmond fu letteralmente affascinato dalla figura di lord Pembroke e a un certo punto gli domandò con quale mirabolante impresa fosse riuscito ad impadronirsi di quel prezioso carico. Allora, il principe inglese iniziò a raccontare il recente abbordaggio a un galeone spagnolo: “Ci trovavamo nella zona delle Antille quando scorgemmo un sontuoso galeone spagnolo che faceva rotta verso l’Europa. La Lady Mary navigava a tutta velocità verso la nostra preda mentre la bandiera corsara (con la quale avevamo sostituito la bandiera inglese) sventolava sul pennone di maestra. Lanciammo una cannonata per costringere la nave nemica a fermarsi. Dopo poco la arpionammo e io stesso salii a bordo. Era veramente una nave magnifica, piena di intarsi dorati e di fini decorazioni orientaleggianti. Il capitano era un imbelle nobile che, appena mi vide, proclamò la propria resa. A bordo vi erano nobili ed esponenti del bel mondo spagnolo che tornavano da un viaggio di piacere alle Antille, dove la nave (che era adibita anche al trasporto di mercanzie) aveva appena fatto un carico. Le stive erano stracariche di stoffe preziose provenienti dall’Oriente. Non mi fu difficile requisire tutto quel carico in nome del reale governo britannico. Solo formalmente, infatti sapevo già che esso sarebbe stato destinato ai sotterfugi di Renato e alla stiva della Giovane Amelia, e che il mio caro amico Ghiorgos lo avrebbe smerciato sulle coste della Corsica. Prima di sbarcare a Livorno con il nostro prezioso carico, avremmo dovuto fare scalo a Marsiglia e lo stavo proprio dicendo al mio fidato secondo ufficiale quando mi si avvicinò una bellissima dama. Aveva capelli neri come la notte e uno sguardo ammaliante di luna. Poiché aveva udito che saremmo andati a Marsiglia, mi si avvicinò tutta tremante e mi disse che avrebbe voluto affidarmi un oggetto preziosissimo da consegnare a un giovane, poi ingiustamente incarcerato, di cui era stata perdutamente innamorata. Se mi fosse stato possibile, avrei dovuto consegnarlo a lui, se lo avessi trovato, o ai suoi parenti. Può darsi – mi disse – che egli, se vive ancora, sia di nuovo libero e sia tornato a Marsiglia e che lei affidava tutta se stessa, consumata da anni e anni di sofferenze, a quell’unico pegno. Da gentiluomo quale sono, non sia mai che io non presti fede a una parola data. Purtroppo, dopo aver girato in lungo e in largo la cittadina francese, non sono riuscito a trovare nessuna traccia di quel giovane. Conservo ancora a bordo della mia nave quel prezioso pegno”.
Al racconto di lord Pembroke, Edmond si sentì gelare il sangue nelle vene e subito pensò che si trattava di Mercedes. Tremando, chiese a Pembroke come si chiamava quella dama. “Mercedes” – rispose il corsaro – “e il giovane a cui il pegno era destinato si chiamava Edmond Dantès, un nome che non scorderò mai. Ella era la moglie dell’imbelle comandante della nave”. Edmond ebbe un violento capogiro: non c’era alcun dubbio! Ne aveva la conferma! Era Mercedes e ora era sposata! Avrebbe voluto precipitare nei meandri dell’inferno, avrebbe voluto morire nella sua segreta o sprofondare nel mare piuttosto che sapere Mercedes sposata a un altro! E quell’ufficiale spagnolo poteva essere Fernand! Edmond si precipitò, barcollando, fuori della taverna. Il colore blu della sera aveva lasciato spazio a una notte nera come il velluto, e di lontano, nelle vie del vecchio quartiere, giungevano i canti degli ubriachi e le note dolci di una chitarra. Jacopo uscì immediatamente dietro Edmond, per sincerarsi se stava bene. “Caro Jacopo” – disse Edmond con un filo di voce − “sarebbe stato cento volte meglio se mi aveste lasciato precipitare nelle profondità marine...”.
Dopo poco, uscirono anche gli altri. Era stato deciso che il trasbordo sarebbe stato fatto quella notte stessa e la combriccola si diresse al porto, alla banchina dove era ormeggiata la Lady Mary. Camminando nella notte livornese, lord Pembroke si avvicinò a Edmond e gli disse: “Avete avuto una reazione alquanto strana al mio racconto, spero di non avervi ferito in qualche modo”. “Non è colpa vostra, lord Pembroke, non crucciatevi” – rispose Edmond – “Il fatto è che avete trovato l’Edmond Dantès che andavate cercando. Sono io”. Lemuel Pembroke ebbe un moto di sorpresa ma lo trattenne immediatamente con flemma britannica. Si accese una lunga e sottile pipa, iniziando a fumare un tabacco aromatico dall’odore fruttato. Così parlò a Edmond: “Vi darò subito il pegno che la signora Mercedes mi ha lasciato per voi. Giusto il tempo di salire sulla mia nave e portarvelo”. In breve, dopo una passeggiata piacevole, giunsero al porto. La nave di lord Pembroke era ormeggiata all’andana degli Anelli: la chiglia nera con gli intarsi dorati galleggiava placidamente e sembrava un enorme, quieto fantasma notturno avvolto da fresche brezze. Renato, insieme a Mirtillo e Amaranto, aveva convocato altri membri della banda. In poco tempo si affollarono di fronte alla scaletta della Lady Mary, guardandosi intorno con aria circospetta poiché la polizia granducale aveva dispiegato diversi uomini per il controllo del contrabbando. Lord Pembroke salì a bordo e dopo poco discese. Recava in mano un tessuto dipinto e orlato d’oro, sul quale era raffigurato il volto di Mercedes. Guardando il viso della sua antica innamorata, bella come una pietra preziosa intarsiata nell’oro, Edmond non riuscì a trattenere le lacrime. Aveva bisogno di confidarsi e così raccontò a lord Pembroke le sue vicissitudini. Mentre la Lady Mary veniva scaricata delle sue preziose merci, appoggiato ad un muro del porto, in un’ombra di luce, Edmond narrava a lord Pembroke le sue traversie: l’ingiusta accusa, la prigionia al Castello d’If, l’incontro e l’amicizia con l’abate Faria, la rocambolesca fuga. Pembroke ascoltava senza battere ciglio, dando ampie boccate dalla sua pipa. Il nobile inglese rimase particolarmente affascinato dal racconto relativo all’isola di Montecristo, alle ricchezze che Faria donava a Edmond. “Solo voi, grazie alle indicazioni dell’abate” – disse – “conoscete il modo per arrivare a quella immensa fortuna, sempre che esista veramente. Ma, sapete Edmond, io sono un uomo di mare e credo ai presentimenti e alle sensazioni. Passando di fronte all’isola di Montecristo ho sempre avuto un presentimento, come se vi fosse qualcosa di veramente prezioso oltre alle piante e alla roccia. Di giorno e di notte ho sempre intravisto sull’isola una specie di magico splendore”. La malinconia di Edmond, in breve, disparve.
Le merci vennero poi caricate sulla Giovane Amelia e tutti, compreso Edmond, fecero la loro parte nelle operazioni di carico. A notte ormai alta era tutto finito, le merci portate da lord Pembroke erano pronte per essere contrabbandate in Corsica. Il giovane inglese si avvicinò a Edmond per salutarlo e gli disse: “Caro Edmond, vi auguro con tutto il cuore di trovare quello che cercate. Chissà, forse potreste, anche in minima parte, cambiare le sorti di ingiustizia che governano la terra. Io sono un principe libero e non servo nessuno, tanto meno il mio governo, cerco soltanto di rendere un po’ di giustizia a questo vecchio mondo. Magari, sotto una nuova identità, anche voi renderete giustizia agli ultimi. Pensate a un nome che potreste adottare: ‘conte di Montecristo’, non suona affatto male. Sono sicuro che sentirò ancora parlare di voi”. Così dicendo, stringendogli la mano, lo salutò. Edmond osservava Pembroke che, avvolto nel suo mantello, si allontanava nella notte ormai fredda. Dalla parte opposta, Renato, con Mirtillo e Amaranto, tornava verso la via San Ferdinando. E allora, Edmond, guardando Renato, il contrabbandiere barbiere che di lontano gli sorrideva amichevolmente, pensò che sì, che forse poteva. Ora era un uomo libero e avrebbe potuto distendere un nuovo mantello di giustizia là dove regnavano il cinismo e la sopraffazione. La notte portuale, intanto, emanava un fascino indescrivibile.

 

 

 

 

 

Nota:
Questo racconto è liberamente ispirato al Conte di Montecristo di Alexandre Dumas e si presenta come un’amplificazione immaginaria (una dilatazione diegetica) delle vicende livornesi di Edmond Dantès. Dumas racconta infatti soltanto che Dantès, sbarcato a Livorno con la Giovane Amelia, la nave di contrabbandieri che lo ha tratto in salvo dopo la sua fuga dal Castello d’If, si recò da un barbiere e rimase nella città toscana per qualche giorno insieme ai contrabbandieri.
Nel racconto sono state inoltre inserite le descrizioni di alcuni quadri del pittore livornese Renato Natali (1883-1979). In particolare, le seguenti opere: Via Grande al tramonto, Via Grande scomparsa, Veliero rosso, Chiacchiere lungo i fossi, Vecchia Livorno (notturno), Donne e marinai.

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